Commenti disabilitati su EUROPA DELLE NAZIONI, EUROPA SOCIALE E COSTITUZIONE

Preludio

Ripropongo qui il mio testo del 2004 intitolato « Europa delle nazioni, Europa sociale e Costituzione ». Il testo originale in francese è accessibile qui: http://www.la-commune-paraclet.com/europeFrame1Source1.htm#europe

LA TRADUZIONE IN ITALIANO AVVERÀ CAPITOLO DOPO CAPITOLO.

Il tentativo contro-natura di costruzione di una Europa spinelliana, neoliberale e monetarista è finalmente e miserabilmente fallito. Lo dimostrano la fine lamentabile del tentativo di imporre il cosiddetto « sentiero di consolidamento fiscale » -cioè l’austerità a tutto capo – ed la gestione caotica dell’immigrazione.

E così arrivata l’ora di riaprire il dibattito sul necessario processo di integrazione europeo, dunque sulla necessaria costruzione di una Europa sociale ancorata sull’Europa delle Nazioni.

Il Trattato di Funzionamento della UE consolidato nel 2016, emana dal cosiddetto mini-trattato di Lisbona. Quest’ultimo fu imposto anti-democraticamente, cioè generalmente senza referendum, dopo la sconfitta referendaria nel 2005 del progetto di costituzione europea qui criticato, in Francia e nei Paesi Bassi. Anche il Trattato di Lisbona fu sconfitto per referendum in Irlanda nel 2008 ma poi approvato dopo pressioni europee in ottobre 2009. (https://fr.wikipedia.org/wiki/R%C3%A9f%C3%A9rendums_relatifs_%C3%A0_l%27Union_europ%C3%A9enne ) Perciò le mie critiche non hanno preso una riga. Basterà tenere conto degli effetti deleteri delle politiche della BCE – liquidità sotto forma di Facilities I e II, FSEF, MES,OMT, QE ecc- e del cosiddetto Fiscal Compact il quale aggravò l’austerità neoliberale-monetarista già contenuta nel Patto di Stabilità ( e di Crescita). Per questi ultimi vedi « Debito pubblico e sciocchezze marginaliste: il caso italiano », http://rivincitasociale.altervista.org/debito-pubblico-sciocchezze-marginaliste-caso-italiano-3-marzo-2017/ Per il sistema della finanza speculativa egemonica vedi il Compendio di Economia Politica Marxista nella Sezione Livres-Books del vecchio sito www.la-commune-paraclet.com e gli articoli pertinente nella Sezione International Political Economy del stesso sito.

Le lettrici e i lettori vorranno pure consultare i documenti seguenti:

” Voyage à l’intérieur du projet de constitution “ www.humanite.presse.fr (11/09/2003)

” La Constitution sur l’avenir de l’Europe est au bord de la crise “ www.lemonde.fr (04/06/2003)

” La difficile remise en question de l’équilibre du Traité de Nice “ (idem)

” Une constitution pour sanctuariser la loi du marché “, Bernard Cassen, in Le Monde diplomatique, janvier 2004.

EUROPA DELLE NAZIONI, EUROPA SOCIALE E COSTITUZIONE

Europa sociale o Europa del capitale ? 

Indice:

Introduzione

Esecutivo, Legislativo e Giudiziario; Consiglio, Commissione e Parlamento europei.

Democrazia partecipativa e democrazia industriale europee.

Coesione economica e Europa sociale.

Filosofia generale: Europa sociale intesa come necessaria mediazione regionale.

Parametri economici generali.

Strumenti specifici:

Come completare onestamente il dispositivo di coordinamento sotto-giacente ai Criteri di Maastricht ed al Patto di Stabilità?

Carta sociale fondamentale.

Difesa e politica straniera.

Immigrazione.

Preambolo e laicità.

Per ristabilire i fatti contro il nuovo oscurantismo sionista di destra.

Le radici umane e Adamo.

La genesi culturale nel suo sincretismo e la purezza di estrazione « divina ».

Venti volte in cantiere rimettete il lavoro.

Cosa sono il razzismo e l’antisemitismo?

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Ho vissuto tutta la mia adolescenza in Francia, paese di tradizione giacobina, e una gran parte della mia vita adulta in un paese federale. Benché lentamente maturati, i concetti di fondo di questo testo preliminare meriterebbero alcune elaborazioni. Pero questo esercizio di delucidazione, di approfondimento e, eventualmente di scelta, non avrebbe gran senso se non si istituisse sin dall’inizio come un lavoro collettivo. In tal modo, gli errori e le lacune anche grave purché corrette come tali da una critica fondata e costruttiva, costituiranno dei momenti forti per il processo di riflessione razionale che ne seguirebbe (per parafrasare un motto sull’importanza degli errori a rilevanza metodologica di Schopenhauer sfortunatamente denaturato da uno Heidegger vittima della sua usuale furbizia di « dottore » nietzschiano e nazi.) Il tuono è « normativo », una scelta che non sorprende essendo questo testo una critica marxista del progetto costituzionale europeo. Dovrebbe andare da se che ogni testo costituzionale europeo situato a ribasso di una legislazione nazionale qualsiasi in materia di laicità, di difesa della proprietà collettiva alle pari con quella della proprietà privata, o ancora dei diritti sociali fondamentali dovrà essere scartata senza troppo cerimonie almeno finché questi crimini di lesa-cittadinanza non siano definitivamente corretti. Ne segue che nessuno testo costituzionale dovrebbe mai essere adottato prima di essere sancito dai parlamenti dei paesi membri, o meglio ancora, da un referendum in ogni paese membro. La stessa regola dovrebbe prevalere per i trattati specifici, ad esempio i Two and Six Pack ed il Fiscal Compact. Imporli con il solo voto in Parlamento, abusando pure dell’Articolo 11 contro la sovranità del popolo, è contrario alla lettera ed allo spirito della Costituzione italiana.

Introduzione.

Le contraddizioni fanno parte integrante del divenire storico. Non è sempre possibile ed a volta nemmeno desiderabile risolverle. Importanti sono allora gli obbiettivi principali e secondari assieme alle mediazioni istituzionali e politiche adoperate per raggiungerli, superando o preservando le contraddizioni iniziali.

La costruzione europea non si capirebbe senza l’accettazione preliminare di questo approccio simultaneamente dialettico e funzionalista. Il fallimento della Conferenza intergovernativa si spiega unicamente dal fatto che le mediazioni istituzionali proposte non erano adeguate. Questo è simboleggiato dal nervosismo sulla ponderazione indotta dall’Accordo di Nizza ma non può essere riassunto in esso. La posta in gioco è ben più seria. Da un lato, si tratta della natura sociale dell’Europa che ci viene proposta, e dall’altro lato dell’avvenire costituzionale ideato per essa, sia questo « federale » oppure « confederale », per utilizzare una terminologia convenuta. Nel contesto attuale, la posta in gioco principale consiste nel sapere quale equilibrio costituzionale sarà instaurato nelle relazioni di potere che prevaleranno con questa Europa. Questo va ben oltre ad una semplice questione di equilibrio politico o di allocazione delle risorse. In fondo, nell’attuale tappa della costruzione europea, si tratta di niente meno che dell’indipendenza dell’Europa. Questa indipendenza deve essere garantita dalla coesione di tutti attorno ai suoi principali assi di integrazione, e di conseguenza, esige anche la preservazione dell’uguaglianza sociale di tutti i suoi membri, cittadini o Stati.

Se la costruzione europea si fece fin qui, e continuerà a farsi, passo dopo passo, la saggezza vorrebbe che nella fase attuale non si rimettesse in questione il concetto di « Europa delle Nazioni ». La priorità immediata consiste dunque a concepire il livello di coesione economica e sociale necessario per completare il dispositivo monetario – e di conseguenza necessariamente economico – dell’Euro gestito dalla Banca Centrale Europea istituita con una larga autonomia in materia di gestione degli aggregati monetari.

Questa necessaria ricerca di coesione prese la forma di un progetto « costituzionale » mirato all’armonizzazione ed all’adattamento delle istanze esistenti. In questa ottica, i Criteri di Maastricht ed il Patto di Stabilità e di Crescita dovevano essere concepiti solamente come fase transitorie mirate essenzialmente all’implementazione ed al consolidamento dell’Euro come moneta comune. Ma, in realtà, questo cammino verso la costituzionalizzazione dell’Europa si compie in un quadro doppiamente contraddittorio: Avendo ammesso la Gran Bretagna nel suo seno, la UE non era più coerente con la creazione dell’Euro e della BCE. In effetti, la GB non appartiene alla Zona Euro. Non è dunque sottomessa alla sua disciplina benché contribuisse ad influenzarne fortemente le politiche economiche generali o settoriali. Questo è notabilmente il caso per quello che concerna le « direttive » adottate dalla UE e implementate in seguito indifferentemente da tutti i Stati membri, appartenenti o meno alla Zona Euro. Oggi si aggiunge un allargamento formale accelerato che assomiglia a fare paura all’allargamento forzoso imposto dal Cancelliere Kohl alla Germania con l’unico effetto duraturo dello smantellamento della vitalità incarnata nel cosiddetto « modello renano » che aveva prevalso fin qui. (Notiamo che con la caduta del Muro e poi con lo smembramento della USSR, né l’unificazione della Germania, né l’allargamento della UE all’Est, non sarebbero stati compromessi da un può più di moderazione e da un può meno di imperialismo massonico e brussellese. Al massimo, senza badare ad una corsa inutile vero un obbiettivo già in parte raggiunto, si doveva tenere conto degli interessi vitali della Federazione russa anch’essa un grande paese europeo. In tal modo sarebbe stato rafforzato, in armonia con lo spazio economico europeo, il grande insieme stabilizzatore costituito dalla Comunità dei Stati Indipendenti, anche perché l’unificazione europea era già accettata da Mosca. Il disastroso impulso anti-russo è del tutto straniero alla logica europea razionalmente concepita.)

Queste nuove e antiche contraddizioni furono portate al loro parossismo dal miraggio costituzionale concepito come unico sbocco in vista della creazione della necessaria coesione. Fecero perdere di vista gli obbiettivi reali in favore di querele e di conflitti per così dire anticipati. L’evoluzione della costellazione delle forze interne all’Unione europea allargata, divenne un incubo. In tal modo il cammino costituzionale non poteva essere altro che la traduzione in meccanismi istituzionali, scolpiti nel marmo, di questa frivola e timorosa visione. Come d’obbligo il progetto costituzionale dovette pure scegliere una formula di modifica all’unanimità. Si riconobbe in tal modo l’intera difficoltà per l’Europa delle Nazioni compiere questo passo costituzionale almeno finché l’unanimità concreta non si sarà realizzata sulla questione dell’indipendenza europea, come pure sopra quella della compatibilità della coesione economica con il principio di sussidiarietà. Così l’Europa del capitale prevalse sull’Europa sociale desiderata dai cittadini.

Comunque questa doppia ricerca va avanti secondo i mezzi europei usuali. Citiamo come esempi i meccanismi di « cooperazione rafforzata » e le iniziative comuni ai membri della UE che desiderano parteciparvi, tali EADS, Eurofighter ecc. In oltre, sappiamo che 4/5 di tutte le leggi adottate dai paesi membri non sono altro che traduzioni nazionali delle direttive europee dettate con metodi per dire poco censitari. Per ora la UE sembra più uno spazio decisionale per i grandi azionisti europei e stranieri nonché un vero e proprio spazio democratico per i cittadini dei suoi popoli membri. Lo Spazio di Schengen non ha tanta difficoltà per imporre uno protezionismo umano realmente mal concepito sopratutto se si guarda ai tassi di fecondità sintetica che prevalgano nei paesi membri. Altre iniziative di più alto rilievo, ben che per ora sfortunatamente meno consensuali tra i dirigenti, puntano all’orizzonte, tale l’anticipazione di una difesa europea indipendente comune con la creazione di uno Eurocorps.

In ogni caso un processo istituzionalizzato dell’importanza di quello che condusse alla redazione del progetto costituzionale per poi essere proseguito tramite le conferenze intergovernative non può più essere scartato. Di conseguenza conviene prendere atto dei suoi aspetti positivi. Nell’incapacità di risolvere tutte le contraddizioni, importa ricercare i mezzi più idonei per cancellare le più ovvie, cercando nel medesimo tempo le mediazioni le più adatte a l’epoca attuale. Queste devono potere sostenere la marcia armoniosa dell’«Europa delle Nazioni » verso una confederazione capace di assicurare la sua indipendenza politica ed economica nel rispetto dell’uguaglianza e della sovranità ultima di tutti i suoi membri e di tutti i suoi cittadini.

Esecutivo, Legislativo e Giudiziario; Consiglio, Commissione e Parlamento europei.

Andiamo subito al dunque: Il principale difetto del progetto costituzionale attuale consiste nel avere voluto scartare il dibattito sulla natura e la portata di un confederalismo compatibile con la preservazione dell’« Europa delle Nazioni », pagandone così il prezzo con l’irriducibile confusione istituzionale che predomina per quello che riguarda il cuore del soggetto, cioè i rapporti tra i livelli esecutivo, legislativo e giudiziario europei. Da qui, la distribuzione dei ruoli (l’interpretazione istituzionale della sussidiarietà in Europa) come pure la distribuzione dei poteri non potevano non essere zoppicanti … potevano solo confondersi disastrosamente con la ponderazione demografica tra paesi membri, mentre non veniva trattato il problema del ruolo specifico del Parlamento europeo. Conviene dunque sgomberare questa confusione iniziale come pure il suo fondo di commercio, cioè il timore di una Mitteleuropa. Dobbiamo pure sgomberare il miraggio di una federazione che tenderebbe inevitabilmente verso una omogeneizzazione esagerata.

Una ponderazione strettamente demografica all’interno del Parlamento europeo non presenterebbe nessuno pericolo, prossimo o lontano, purché i rapporti tra Esecutivo, Legislativo e Giudiziario europei siano chiaramente definiti.

Mentre condurremo questo esercizio, non dimenticheremo che le contraddizioni secondarie non devono essere concepite come degli ostacoli insuperabili purché le mediazioni appropriate siano ideate e purché gli obbiettivi vitali della costruzione europea – indipendenza politica e coesione economica – siano preservati. Così facendo vedremo che il concepimento del Consiglio europeo e della Commissione può essere semplificato e razionalizzato, in modo da indurre una reale presa in conto del ruolo del Parlamento europeo. Questo deve essere capace di rispondere al meglio ai desideri di tutti i cittadini europei in modo da potere cancellare con un certo tatto le diatribe scatenate dal vertice di Nizza. Questo permetterebbe in oltre la risoluzione della dolosa contraddizione tra Zona Euro e UE allargata. Si aprirà così la porta ad una dinamica imprescindibile, cioè quella della marcia differenziata dei vari paesi della UE allargata senza minimamente mettere in pericolo la coesione ultima dell’insieme. Nel lungo termine, la magia europea, la persuasione con i fatti, opererà sempre il suo fascino in modo che l’integrazione non provocherà più nessuna lacerazione costituzionale.

(Nota aggiuntiva: Oggi, l’assenza di una tale distribuzione delle competenze esecutive e legislative come pure il sotto-sviluppo del Parlamento di Strasburgo fanno si che la Corte del Lussemburgo usurpa il ruolo del Parlamento. Detta la legge comunitaria a favore del capitale e delle élite filo-semitiche nietzschiane attualmente sovra-rappresentate, invece di limitarsi all’interpretazione delle leggi esistenti secondo le sue possibilità e le sue competenze proprie. Questo porta ad una armonizzazione pseudo-giuridica all’interno della Unione europea. Si tratta qui ben più di un processo subordinato alla difesa del principio della « concorrenza libera e senza ostacoli » che di una reale difesa degli interessi delle classe laboriose. E un processo pseudo-giuridico in un senso preciso perché fa astrazione della sovranità giuridica delle costituzioni nazionali dei paesi membri. La sovranità democratica dei popoli viene così surrettiziamente espropriata.)

I sostenitori sinceri del federalismo scartano ogni velleità di egemonia in Europa ma insistano sulla democratizzazione delle istituzioni e dei processi. Questo perché si tratta di ottimizzare le risorse dell’Europa nel rispetto dei contributi e dei bisogni specifici dei paesi membri come pure dell’uguaglianza intrinseca di tutti i suoi cittadini. Pero, il principio di sussidiarietà inerente al concetto di confederazione dell’« Europa delle Nazioni » non è per niente antitetico alla democratizzazione dell’Unione: ne costituisce invece il principio di base, il solo suscettibile di permetterne la realizzazione materiale, ovviamente a condizione che siano ben definiti il ruolo e l’estensione delle istanze e della spartizione dei poteri. In questo quadro preciso, la democrazia rappresentativa, troppo spesso confusa in modo riduttivo con l’insieme dei processi democratici, potrà allora operare secondo il suo principio vitale, cioè una/o deputata/o per una circoscrizione elettorale comportando più o meno lo stesso numero di elettrici e di elettori di ogni altra.

Durante la tappa attuale della costruzione europea, sembra che saremo « condannati » a funzionare con un doppio Esecutivo: da un lato quello del Consiglio europeo e dall’altro quello della Commissione europea rimodulata per agire come potere esecutivo nato direttamente dal Parlamento europeo. Questo non rappresenta uno difetto grave, al contrario. Questo raddoppiamento, funzionale ma non generale, permetterebbe di sopprimere una volta per tutte uno degli ostacoli maggiori alla democratizzazione dell’Unione europea.

Sappiamo che uno di questi ostacoli alla democratizzazione rileva dal peso demografico, necessariamente mutevole col tempo, di ogni membro dell’insieme statale europeo. Queste evoluzioni temporali imprevedibili influenzano il peso politico specifico di ognuno di loro. La democrazia rappresentativa di Strasburgo ne è la concretizzazione. In oltre, il Consiglio europeo, oggi per così dire simile ad una presidenza forte, continuerebbe ad agir come una Seconda camera (rinnovando in modo democratico e funzionale il ruolo attualmente devoluto ai differenti senati oppure alle camere di Stati o territori membri.) Come di dovere, la Commissione diventerebbe il potere Esecutivo nato direttamente dalla rappresentanza dei pariti politici e delle coalizioni di partiti democraticamente eletti al Parlamento europeo. Non sarebbe allora niente altro che un Gabinetto ministeriale avendo ufficialmente a sua testa il capo del partito politico che avrà ottenuto il più gran numero di elette/i, purché riuscisse a riunire una maggioranza parlamentare attorno ad esso. Altrimenti, il Consiglio europeo chiamerà il capo del partito della coalizione suscettibile di riunire una maggioranza parlamentare, e così via secondo i meccanismi ormai ben noti. Nondimeno questo avverrebbe con la dovuta attenzione all’eliminazione di ogni arbitrario, e di conseguenza delle possibilità di manipolazione di una istanza sopra l’altra. In ogni caso, il numero « sostanziale » di ministri derivato da questo sistema, oltre al Primo Ministro, sopprimerà il falso problema del numero di rappresentanti permanenti attribuito ad ogni paese membro all’interno di questo Esecutivo. Non importerebbe il ruolo ministeriale di ognuno di loro, perché tutti i Stati membri avrebbero la garanzia di essere rappresentati in modo egalitario all’interno del Gabinetto ministeriale.

In questa ottica, l’essenziale consiste nel sapere quale ruolo e quali poteri saranno rispettivamente devoluti al Consiglio europeo ed alla Commissione. In effetti, questa questione suppone la definizione chiara della forma di sussidiarietà scelta dall’Unione europea. Di questa scelta non si può certo fare almeno, ma si tratta di una scelta che dovrà essere sufficientemente giudiziosa per conciliare realismo politico e uguaglianza tra paesi membri. L’esercizio non è poi così semplice, ma potrà essere benefico per la tappa attuale e di buon auspicio per l’avvenire dell’Europa purché non si perdesse di vista quello che fu detto al soggetto delle contraddizioni secondarie e delle mediazioni.

In generale gli Esecutivi attuali dispongono del controllo dell’iniziativa legislativa, i parlamentari essendo ridotti ad un ruolo sussidiario, di rubber stamp, in buon inglese. E un ruolo ancora confinato dalla disciplina di partito. Il parlamentare è semplicemente ridotto a presentare progetti di legge individuali tra i quali solo alcuni saranno ritenuti secondo modalità variabili per ogni Parlamento. In oltre, gli Esecutivi controllano le burocrazie e, di conseguenza, tramite loro, controllano i cruciali processi di raccolta e di articolazione dell’informazione necessaria all’elaborazione dei progetti di legge, come pure al loro pilotaggio parlamentare ed extra-parlamentare, cioè, in fin dei conti, alla loro messa in applicazione una volta questi progetti sanciti dal Parlamento e, a volta, direttamente dal Consiglio costituzionale.

Il Consiglio europeo disporrebbe dell’iniziativa legislativa esclusiva per tutti le competenze oggi rilevanti dalla regola dell’unanimità. Il vantaggio sarebbe di sopprimere tutte le pericolose divisioni che rischiano essere strumentalizzate da certi paesi membri o ancora dalle mass-media, oppure dai gruppi di pressione. Nel corso del tempo, la solidità della costruzione europea imporrà la revisione dei domini rilevanti da questa regola. Per ora, la diplomazia dei paesi membri opera come burocrazia specializzata all’interno del Consiglio europeo, benché il Consiglio europeo dovrebbe avere accesso a tutte le risorse burocratiche a disposizione della Commissione. Tutte le competenze non coperte dalla regola dell’unanimità rileveranno dalla Commissione o dal Parlamento ma necessiteranno l’approvazione obbligatoria del Consiglio europeo nella sua capacità di Secondo Camera parlamentare: la Commissione inizierebbe i progetti di legge nei domini rilevanti delle sue proprie competenze, dopo di che questi progetti seguirebbero il percorso ordinario di prima, seconda e terza lettura con l’usuale passaggio da una camera all’altra.

In realtà, per appianare le difficoltà che confrontano le nuove dinamiche decisionali, durante tutta questa fase transitoria prevista, il Consiglio europeo otterrà un diritto di informazione preliminare per tutti i progetti di legge considerati dalla Commissione quando questi progetti esibiscono una incidenza specificamente economica o monetaria. Conviene sempre impegnarsi per conservare la flessibilità necessaria al sostegno della dinamica peculiare della costruzione europea. In questa ottica, per quello che concerna le legislazioni adottate nell’ambito delle loro competenze dalla Commissione oppure dal Parlamento europeo, i membri del Consiglio europeo, come pure i membri dei parlamenti nazionali, conserveranno il loro diritto di opting out. Ben inteso, questo rifiuto legale di partecipare a delle decisioni comune senza pero poterle bloccare sarebbe esercitato senza compenso finanziario ma anche senza nessuno trasferimento fiscale – punti fiscali – verso l’Unione. Un tale trasferimento è usualmente legato alla concretizzazione dei programmi specificamente europei che alcuni membri giudicheranno utile e benefico organizzare in comune.

Non fraintendiamo inutilmente il senso e lo scopo di questo opting out: E tutto il contrario di una Europa à la carta e dunque tutto il contrario di una dissoluzione della coesione europea. Questo perché l’opting out è solo una mediazione, l’esatto lato « negativo » ma probabilmente transitorio del processo generale verso una integrazione liberamente scelta, costituita per emulazione concreta. In fatti, preservando le dimensioni della sovranità dei Stati membri che caratterizzano l’« Europa delle Nazioni », questo opting out permetterà paradossalmente di inquadrare le necessarie cooperazioni rinforzate. Si favorirà così non una Europa da due velocità ma la costituzione di differenti cerchi di coesione già previsti da Jacques Delors senza pero che questi « cerchi » ( con al centro un nocciolo duro o meglio ancora dei pilastri) nuocessero o siano percepiti come suscettibili di nuocere alla coesione ed all’uguaglianza formale di ogni paese membro.

La regionalizzazione può certamente essere giudicata positiva sul piano amministrativo ma non dovrebbe essere strumentalizzata per dissolvere i Stati-nazioni attualmente esistenti in uno informe magma europeo destinato all’ineluttabile aggravio delle disparità economiche esistenti. Questi Stati-nazioni, depositari supremi della sovranità democratica dei loro popoli rispettivi – contro la sovranità di diritto divino, teocratica o meno, di pochi « esclusivamente eletti » – sono in realtà nati da un lungo processo di pacificazione culturale, spirituale e politica in Europa. Questa evoluzione progressiva data almeno dalla codificazione delle leggi della guerra – giusta o ingiusta -, dalla solidarietà tra le avanguardie dell’intelligenza europea e poi, sopratutto, dal Trattato di Westfalia il quale tentava di stabilire una bilancia del potere che portava con se il seme del concetto della « sicurezza collettiva » tra soggetti statali piccoli o grandi ma di pari dignità.

Con questo opting out si vieterebbe dovere costituzionalizzare quello che le federazioni chiamano « il potere di spendere ». Una tale costituzionalizzazione possiede tutto il potenziale per avvelenare le relazioni tra i paesi membri, a misura che sarà coniugata con i pseudo-problemi di una rappresentanza democratica mal definita con rispetto alla questione della distribuzione delle competenze tra i vari livelli di governo, oppure tra le differenti istanze decisionali all’interno del livello di governo considerato.

Per contro, in questa ottica dell’opting out, due cose si imporranno naturalmente: prima, il termine costituzionalmente previsto per l’esercisco dell’opting out da parte di uno Stato membro da un programma al quale avrebbe previamente deciso di partecipare; questo caso risulta diverso dal semplice opting out da un programma non ancora messo in opera, dunque da una scelta iniziale di non partecipare. Secondo, in casi specifici, l’enumerazione di eventuali penalità lascerà il posto alla considerazione dei compensi quando questi risulteranno necessari, in modo transitorio, per causa di disorganizzazione importante di un programma già in corso (ad esempio l’uso dei punti fiscali coinvolti.).

Tutti questi problemi possono essere risolti con le appropriate mediazioni: ad esempio, il termine per l’opting out di un programma esistente annunciato da un governo nazionale sarebbe di una durata massima di 6 anni – prendendo in conto il fatto che la durata normale di una legislatura sarebbe fissata a 5 anni. In questo modo, l’opting out eventuale diventerebbe automaticamente una posta elettorale interna, e dunque rappresenterebbe una decisione da fare sancire dagli elettori nazionali, i quali sono pure degli elettori europei. In altre parole, lungo da costituire una catastrofe, la dinamica del opting out permetterebbe un utile controllo democratico dell’approfondimento della costruzione europea.

Importa notare che questa concezione della costituzionalizzazione dell’Europa deve progredire con prudenza. Permette di relativizzare i problemi legati simultaneamente alla ripartizione dei poteri ed al peso respettivo di ogni paese membro. Oggi questo si rifletta nella complessità, se non nella confusione, delle istanze decisionali europee, e per via di conseguenza, nella paura sotto-giacente rispetto alle tentazioni egemoniche degli uni o degli altri, oppure, all’inverso, nel rischio di paralisi dell’Unione. Questi due timori sono simboleggiati dal rigetto degli « squilibri » instaurati al vertice di Nizza ed amplificati ancora dall’imprudenza e dalla mancanza di sagacità europea di certi paesi, giovani o vecchi, durante l’intervento illegale degli Stati-Uniti in Iraq.

Aggiungiamo che l’equilibrio istituzionale e democratico qui analizzato disporrebbe dei suoi propri contro-poteri interni secondo la geniale intuizione moderna di Montesquieu. Così, la sovranità di ogni paese membro sarebbe protetta in permanenza: in effetti, malgrado tutte le devoluzioni considerate ad un momento o all’altro – o più specificamente secondo le « epoche di ridistribuzione » socio-economiche considerate – il Consiglio europeo ed i Parlamenti nazionali disporranno di un diritto di veto, oppure in modo politicamente più plausibile, dell’opting out il quale, al contrario del veto, non provocherà danni agli altri membri.

In questo senso e secondo questi principi, per tutti i poteri devoluti al Parlamento europeo ed alla Commissione che oggi rilevano di decisioni presi alla maggioranza – o più esattamente che non rilevano dell’unanimità riservata alle prerogative del Consiglio europeo – si dovrà prevedere la possibilità, per il Parlamento europeo e per il suo Esecutivo proprio, di verificare la solidità democratica delle decisioni dei membri del Consiglio europeo che avranno utilizzato il diritto di veto contro la loro decisione democratica europea: questa verifica si farebbe per via referendaria presso l’elettorato dei paesi che avranno utilizzato il loro diritto al veto. Una vittoria di 50% più uno voto costituirebbe una sconfessione per i detti membri del Consiglio europeo.

In ogni caso questa strada sarebbe riservata a casi o dossier molto specifici. In oltre, né la Commissione né il Parlamento potrà scegliere questa strada senza avere ottenuto l’approvazione di 50 % dei Stati considerati rappresentare 60 % della popolazione, rispettivamente nel quadro dell’Europa allargata oppure della Zona Euro. Di più, la « devoluzione » definitiva – i.e., istituzionale – di una competenza che richiede l’unanimità ad una logica di maggioranza necessiterebbe l’unanimità di tutti i Stati membri oppure l’approvazione di ogni Stato implicato quando questa devoluzione sarà necessaria alla messa in opera di un programma comune.

All’immagine della PAC, programma che divenne consustanziale con l’Unione europea, conviene lasciare le tendenze di fondo e la verità dei fatti imporsi sul terreno come obbiettivazione concreta di un interesse comune, anche se potrà sembra temporalmente imperfetto. Per contro, quando tutti i Stati membri saranno diventati membri a parte intera di programmi comuni – come la PAC – , la Commissione disporrà del potere di prenderne atto e di sancire con una semplice maggioranza la costituzionalizzazione europea comune di questo programma. I successi comuni si addizioneranno così ai successi comuni e serviranno da esempio. In questo caso preciso, il programma sarà reso perenne senza implicare il trasferimento di nessuno potere di spendere supplementare in termine di ratio del PIL sia rispetto al livello di finanziamento in vigore a quel momento, sia secondo una formula accettata all’unanimità da tutti i paesi membri. Questi Stati membri conserverebbero comunque il loro diritto all’opting out relativamente a scelte addizionali ulteriori. In altre parole, la sovranità statale di ogni Stato membro rimane il mezzo di controllo ultimo del budget specificamente europeo, senza pero fare artificialmente ostacolo alla marcia verso una coesione sempre più compiuta, né, ben inteso, provocare una breccia inaccettabile nel principio di sussidiarietà che costituisce il cuore del concetto dell’Europa delle Nazioni.

Democrazia partecipativa e democrazia industriale europee.

Abbiamo fornito qui sopra gli elementi fondamentali della democrazia rappresentativa cercando di adattarli all’Unione europea. Questi equilibri anche se sagacemente stabiliti non bastano. L’Europa non può esistere senza sviluppare al suo proprio livello la « democrazia partecipativa » e la « democrazia economica e sociale. »

La prima coinvolgerebbe istituzionalmente i gruppi di pressioni ed i sindacati in tutti i processi che implicano le competenze devolute al Parlamento (e dunque alla Commissione) come pure in tutti i casi di co-decisione. Per quello che riguarda il Consiglio europeo, almeno finché non abbia concesso la devoluzione di alcune delle sue competenze, i processi che lo riguardano rilevano necessariamente dei parlamenti nazionali. Oppure, secondo i casi, di grandi mobilitazioni da parte dei cittadini europei, a carattere parlamentare o extra-parlamentare. Questo fu il caso con il grande movimento di pace nato all’occasione dell’ultima aggressione imperialista contro l’Iraq.

In particolare, durante la tappa di raccolta dell’informazione necessaria alla formulazione dei progetti di legge, la Commissione dovrebbe avere l’obbligo di consultare tutti i sindacati ed i gruppi di pressione capaci di dimostrare una rappresentanza in almeno due paesi membri implicati dalla legislazione. Questi stessi gruppi dovrebbero ottenere il diritto irrevocabile di sottomettere le loro eventuali obbiezioni, critiche e ammendamenti ai Comitati parlamentari europei. Ogni volta che, per i progetti di legge in questione, questi gruppi riuscirebbero a riunire più di 50 % dei sindacati europei oppure dei gruppi di pressione dei paesi europei, questi Comitati parlamentari si trasformerebbero automaticamente in Commissioni parlamentari. In questo modo non cesserebbero di funzionare come Comitati parlamentari ma lo farebbero sulla base di una consultazione popolare e cittadina molto più ampia.

Lo sviluppo della democrazia partecipative europea esigerebbe ugualmente l’instaurazione e lo sviluppo di quello che ho chiamato « le istanze di controllo democratico ». Questo riguarderebbe tanto la protezione dei funzionari appartenenti alle burocrazie europee quanto quella degli utenti. Il sistema di ombudsman e di prud’homme deve dunque essere armonizzato verso l’alto. Nello stesso modo, i comitati cittadini di denuncia europei debbono potere rispondere alle aspettative dei cittadini in tutti i domini pertinenti (Interpol, polizia, guardia frontaliera, ecc.) Va da se che i cittadini siano rappresentati in maggioranza in questi comitati. La cosiddetta class action andrebbe rafforzata.

Ci sia concesso aggiungere due parole sulla problematica dei cosiddetti « servizi essenziali ». Oggi la destra abusa della versione di questa nozione tale che fu formulata nei testi riuniti nel mio Tous ensemble (disponibile nella Sezione Livres-Books del mio vecchio sito www.la-commune-paraclet.com ) Conviene dunque sottolineare la logica nella quale la mia propria formulazione fu avanzata all’epoca. Non farlo ammonterebbe ad associare tacitamente il marxista che sono a delle iniziative alle quali non desidero essere minimamente associato.

Non si può affatto trattare di restringere il diritto di sciopero. Il diritto di fare sciopero non è solo un diritto sacro in quanto rappresenta una delle grandi conquiste democratiche dei lavoratori, costituisce ugualmente un elemento essenziale per il funzionamento armonioso di ogni sistema economico. Il lavoratore individuale o collettivo dispone di una ricchezza, la sua forza di lavoro – il fattore di produzione lavoro se si vuole ! E dunque contrattualmente libero disporne secondo la sua volontà. Un lavoratore solo non conterebbe niente, da qui il diritto democratico di associarsi – diritto protetto dalla nostra Costituzione. Senza questo contrappeso all’arbitrario dei possessori degli altri Mezzi di produzione, l’equilibrio tanto paventato dagli economisti di regime sarebbe solo una truffa anti-democratica.

Storicamente parlando, nei paesi appartenenti al continente europeo oppure nei paesi anglo-sassoni, le leggi contro il principio di associazione dei lavoratori – anti-combine laws, in inglese – cadettero in parallele con i principi parziali inerenti alla democrazia liberale classica, per natura sessista e censitaria (cioè, aperta solo ai possedenti capaci di pagare il censo.) La borghesia riuscì poi a fare subire a questa concezione la sorte che fece subire a tutte le altre, una paziente, lunga e sistematica laminazione delle conquiste del proletariato. Così, gli aumenti di salari reali concessi con la mano sinistra furono subito ripresi con la mano destra grazie al paziente lavoro di talpa effettuato dall’inflazione, oppure con « la gestione » capitalista dell’entrata delle donne sul mercato del lavoro.

Quest’ultima venne effettivamente gestita in modo che i « focolari » – nuclei familiari – medi nei quali oggi lavorano due persone non guadagnano in generale la somma che una sola persona poteva guadagnare alla fine degli anni cinquanta. A questo si aggiunge la « femminizzazione » dei salari. Alla fine siamo confrontati con una situazione che non contribuisce molto né all’emancipazione della donna né a quella dei focolari. La parità di genere è cruciale.

In ogni caso, per quello che ci riguarda qui, lo Stato borghese, sdoppiato in uno Stato direttamente padrone, al seguito della nazionalizzazione delle imprese dopo la Seconda Guerra Mondiale, si trova confrontato ad una classe operaia e a dei funzionari dell’amministrazione pubblica molto combattivi. Si adopera allora a salvare la sua pelle di Stato di classe ritornando in modo sbieco al « tripartitismo » scaturito dal Trattato di Versailles all’indomani della rivoluzione bolscevica. Questo portò alla creazione della cosiddetta « monarchica » Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL). Nel suo seno ogni Stato, il padronato e i sindacati si ritrovano per tentare di portare avanti una « democrazia industriale capitalista » mirata a addomesticare i sindacati ed i lavoratori per mezzo di convenzioni collettive, ponendo pero lo Stato come arbitro supreme dei conflitti al nome degli interessi generali. Lo Stato di classe è così eretto come giudice e partita nei conflitti socio-economici.

Questo esercizio rischioso per lo Stato borghese lo diventa ancora di più per lo Stato Sociale – Welfare State – padrone delle sue proprie imprese pubbliche fortemente sindacalizzate. La neutralità poteva solo essere ristabilita usurpando per il conto dello Stato di classe, le rivendicazioni degli « utenti » e dei «consumatori », cioè inventando un surrogato dell’interesse generale capace di occultare con maestria il fatto che la maggioranza degli utenti e dei consumatori non sono altro che i lavoratori stessi.

Ogni legislazione relativa ai « servizi essenziali » minimamente equa mirerebbe inanzi tutto a ritirare allo Stato di classe la sua pretensione ad essere un agente neutrale mosso unicamente dall’interesse generale. Ecco perché, ogni legislazione relativa ad un qualsiasi « servizio minimo » deve rappresentare un passo di civiltà, cioè il riconoscimento da parte del capitale dei diritti imprescindibili del mondo del lavoro. In primo luogo, il diritto di sciopero con la condanna legale di ogni tentativo di intimidazione da parte del capitale. Questa clausola deve ugualmente estendersi al diritto per i sindacati di fare campagna presso i lavoratori non-organizzati per convincerli di aderire alle loro organizzazioni ogni volta che una impresa non disporrà di una rappresentanza sindacale legittima. Di più, nessuno « servizio minimo » dovrebbe restringere il diritto dei lavoratori a portare avanti scioperi legali ma efficaci, ritirando i loro servizi finché degli accordi negoziati in buona fede non siano stati conclusi.

In particolare, questo significa che gli utenti goderanno di un certo servizio, ma all’infuori delle ore di grande intensità – ore di punta nei trasporti collettivi, ad esempio. Il comportamento modello dovrebbe probabilmente ispirarsi da quello degli infermiere e degli infermieri; questi spesso senza legislazione specifica nella materia, dispensano di volontà propria quello che per vocazione sanno essere dei servizi essenziali. In effetti, pensare diversamente entrerebbe in contraddizione con lo spirito e la lettera di tutte le costituzioni nazionali dei paesi membri della UE: tutti riconoscono il diritto di sciopero come un diritto democratico fondamentale e di conseguenza come un diritto suscettibile di essere codificato in modo marginale senza contraddirne il principio stesso. La legittimità dei sindacati ne uscirebbe fortemente rafforzata di fronte a dei governi oggi sempre più duri con una forza di lavoro desiderata da loro spendibile a piacimento con la scusa della « mobilità del fattore lavoro » – fattore di produzione reso flessibile tramite « contratti di impiego » di durata iper-determinata. Il loro potere di pressione sul capitale ne uscirebbe rafforzato per tutte le azioni sostenute dalla base. Questo perché i sindacati rimarrebbero in controllo della situazione tramite l’uso di tattiche conosciute come lo sciopero zelante o lo sciopero a singhiozzo ecc, senza che lo Stato borghese possa indossare l’abito del campione neutrale dei diritti degli utenti.

Quando si ci confronta con una problematica del tipo di quella dei « servizi essenziali », non nuoce conservare in mente la sua origine: si pone sempre in contesti storici precisi secondo lo stato di sviluppo delle leggi vigenti sulle relazioni di lavoro, delle pratiche e della cultura industriale delle regioni e dei paesi in questione, come pure del peso delle alleanze di classe del proletariato secondo l’evoluzione specifica del capitalismo. Oggi le tendenze di fondo dello Stato capitalista, interamente preoccupato a diminuire il potere sindacale per favorire la « mobilità » crescente della forza di lavoro, consistano a propagandare un processo pacificato che congiungerebbe la « consultazione » e il « dialogo sociale » con le pratiche di conciliazione, di mediazione e di arbitraggio dei conflitti lavorativi.

« Natura non facit salta »: nondimeno nella pratica concreta, oramai da oltre tre decenni, va affermandosi una tutt’altra logica di classe, verificabile in tutti i paesi capitalisti avanzati, come pure all’interno dell’OIL. Questo tentativo di pacificare le relazioni di lavoro si riassume concretamente ad una larga preponderanza dell’arbitraggio con arbitri certo acconsentiti dai sindacati ma speso, se non sempre, nominati dal Ministero del lavoro. In tal modo, si liquida de facto il potere di negoziazione dei sindacati in favore di una visione tecnocratica della spartizione del prodotto del lavoro tra profitto e salario.

Ce da dire che la situazione essendo oggi molto degenerata, l’arbitraggio sembra un mal meno peggiore quando viene confrontato alla ristrutturazione chirurgica della forza di lavoro tale che sperimentata dalla AFL-CIO o dalla Chrysler per salvare questa azienda dalla competizione giapponese. Salvataggio avvenuto essenzialmente sacrificando più della metà dei lavoratori dell’azienda con l’accordo dei sindacati, questi ultimi accettando in oltre, ingenti riduzioni dei salari. Questo senza menzionare le leggi che impongo la ripresa del lavoro anche con pesanti multe finanziarie ogni volta che il capitale sceglie di lasciare marcire la situazione per forzare la mano dello Stato, teoricamente neutrale, costringendolo ad intervenire nei conflitti per via legislativa!

Abusando della sua maggioranza parlamentare, la destra può adottare la sua legge sui « servizi essenziali » se vuole purché la sinistra conservasse una coscienza chiara delle poste in gioco e purché si impegnasse, sin da oggi, a difendere la sacralità del diritto di sciopero, incluso appellandosi alla Corte costituzionale se necessario. In realtà, la sinistra dovrebbe prepararsi a riformulare la legge esistente per essere pronte a costituzionalizzarla nell’eventualità del ritorno al potere.

Detto questo, la questione più difficile rimane quella della stesura della lista dei servizi pubblici per i quali una legge sui « servizi essenziali » potrebbe essere mutualmente vantaggiosa per tutte le parti, senza nuocere al potere di negoziazione. Chiaramente, i servizi pubblici dispensati dagli ospedali non sono dello stesso ordine di quelli offerti dal trasporto collettivo urbano, né dalla SNCF. Il caso di EDF è più complicato. I sindacati dovrebbero essere incaricati con la stesura di questa lista. I criteri decisivi più ovvi sono la salute pubblica e la protezione delle infrastrutture, cioè il mezzo di lavoro – assieme alla preservazione dei diritti dei lavoratori a negare l’uso della loro forza di lavoro al padrone, ogni volta che le negoziazioni saranno ostacolate. In altre parole, si tratterà di una codificazione delle pratiche sindacali non-ufficiali oggi effettivamente praticate. Nessuna altra via sembra legittima e non rappresenterebbe una legislazione sul mondo del lavoro ma piuttosto una legge di esproprio del potere di negoziazione, un affronto inaccettabile alla legittimità dei sindacati.

Aggiungo che queste considerazioni non avranno una grande rilevanza se certi dirigenti sindacali, pronti a privilegiare il loro rapporto con il potere invece del loro dovere di rappresentanza della base sindacale, penseranno essere autorizzati a firmare degli accordi senza l’approvazione maggioritaria dei loro membri. Purtroppo questa è una sfortunata tendenza che va crescendo in Francia, in Italia ed altrove a misura che lo Stato borghese e il padronato si accaniscono per smantellare le conquiste sindacali e sociali anteriori, cercando nel medesimo tempo di trovare dei complici per legittimare le loro pratiche regressive. In un tale contesto, i sindacati come la FIOM hanno interamente ragione quando esigono il rispetto della democrazia sindacale intesa come autentico antidoto contro l’usurpazione anti-sindacale effettuata dallo Stato borghese in nome degli utenti. (Vedi ad esempio www.liberazione.it nel quadro dei scioperi nei trasporti pubblici iniziati a dicembre 2003, notabilmente a Milano.) A questo argomento si aggiunge la necessaria e ampia legge contro l’uso dei « crumiri » e la questione generica delle pratiche eque (fair trade practices).

Ogni sistema democratico moderne rimano tragicamente zoppicante senza la consolidazione di una autentica « democrazia economica e sociale ». Questo va ben oltre la vecchia democrazia industriale che accompagnò il sistema « tripartita » di ispirazione versagliese. Si tratta prima di tutto della questione della costituzionalizzazione europea del sistema di pianificazione indicativa e incitativa. Il resto seguirebbe logicamente con le modulazioni normali secondo il colore dei governi europei al potere.

Inanzi tutto l’Europa acquisterebbe una capacità a concepire la sua propria « longer view » – per usare la frase di Paul Baran. In se i lavori di questa Commissione europea di pianificazione indurrebbe gli economisti a stare alla lontana delle inettitudini troppo ovvie legate alla speculazione economica ed alle illusioni di una crescita sopratutto dovuta alle rotazioni monetarie in circuiti chiusi o per lo meno molto lontani dell’economia reale. In effetti, i stessi che svendono i « lemons » – viz Akerlof, Stiiglitz et al. – necessari alla mobilità di una forza di lavoro precaria costretta a comprare a Wal-Mart, nel quadro delle zone di libero-scambio, vi parlano della predominanza dell’« economia dei servizi », o peggio ancora dell’ « economia immateriale », mentre le multinazionali ed i governi federali, regionali e municipali dei loro paesi delocalizzano in Asia i compiti ordinari che rilevano delle burocrazie pubbliche o private (offshoring and outsourcing).

Questi economisti dello serraglio mostrano così la loro profonda comprensione nietzschiana di quello che ho chiamato, contro loro, « la scala del valore aggiunto » ideata secondo i dati dell’IAS o con più di precisione sulla « sovrappiù sociale ». (V. il mio Livre-Book III, in Download Now, sezione Livres-Books di www.la-commune-paraclet.com ) Pensiamo, ad esempio, alle somme esorbitanti rappresentate dai prodotti derivati, i quali valgono spesso solo per l’opacità bancaria che protegge i loro montaggi sui quali le banche centrali evitano chiedere dettagli. Per sfortuna questa pseudo-moneta vale come vale l’oro quando entra nell’economia reale, dato i mezzi considerabile che fornisce per gli LBO ed altre OPA interessate dal corto-temine; o peggio ancora, quando scoppiano le bolle speculative provocando allora l’iscrizione concreta dei loro montanti nei bilanci delle banche centrali, dei fondi mutuali e delle imprese, e di conseguenza, nel risparmio individuale e collettivo dei lavoratori e della comunità in generale.

Gli economisti più in vista ed i governi neoliberali ci vedono solo il miraggio della crescita del « PIL », nello stesso modo in cui i piccoli giocatori in borsa si felicitano ingenuamente della crescita del ratio P/E. Comunque dovrebbe essere intuitivamente chiaro per un paese come i Stati Uniti, con una popolazione nel 2002 di 291 milioni di abitanti, che non può essere gestito come Singapore. Lo stesso vale per la UE. L’evoluzione storica dei settori primari, secondari e terziari in Occidente non dovrebbe portare la gente sensata a farsi illusioni. La pianificazione bolscevica come pure le pianificazioni occidentali in tempo di guerra hanno fornito una lezione inestimabile in questa materia, particolarmente durante la Seconda Guerra Mondiale. Questa necessitò la mobilizzazione di oltre 60 % della ricchezza nazionale americana e delle risorse degli altri paesi in guerra, contro soltanto il 10 % nei paesi più avanzati durante la Prima Guerra Mondiale.

Con Formazioni sociali più moderne e più complesse diventa allora evidente che la priorità data ai Mezzi di produzione (MP) per la produzione di Mezzi di produzione, era primordiale per raggiungere una efficienza massima in un tempo record, almeno finché l’approvvigionamento in energia ed in materie prime seguiva senza ostacoli. Si tratta qui della cosiddetta industria pesante staliniana soggetta ad un vilipendio senza buon senso da tanti sempliciotti capaci di confondere con usuale anacronismo la USSR degli Anni Trenta con l’economia avanzata dei Stati-Uniti degli Anni Sessanta.

Le rivoluzioni informatiche coniugate a quelle delle telecomunicazioni operano in parte come nuovi MP implicati nella produzione di MP nei tre grandi settori primario, secondario e terziario. Ne segue che l’eviscerazione di questa relazione organica con l’accelerazione delle delocalizzazioni industriali potrà solo indebolire le economie costrette a svilupparsi all’interno di Formazioni sociali nazionali o sovra-nazionali, a differenza delle enclave marginali capaci di specializzarsi in un numero ristretto di filiere intermedie di importanza strategica per il commercio internazionale. Singapore può crescere come uno gigantesco magazzino, ma rappresenta il caso limite di una Città-Stato .

Ben inteso, la necessaria e rapida conversione dell’economia di guerra in una economia parzialmente di pace confermò la grande lezione impartita durante la Grande Depressione: In tempo normale, l’economia non può conservare la sua viabilità e la sua vitalità senza appoggiarsi sul ruolo trainante dei settori intermedi. Questo implica il rafforzamento della domanda effettiva – come pure la canalizzazione pubblica del risparmio interno per mezzo dei programmi sociali. In tempo di guerra questi settori intermedi vengono sostituiti con la produzione di armamenti in gran parte finanziata con il debito pubblico. La delocalizzazione di questi settori intermedi non è dunque di migliore auspicio di quello dei settori dei MP per la vitalità dell’economia o per l’aumento dello standard di vita dei cittadini.

Ben inteso, malgrado questi insegnamenti forniti dalla Storia, gli interessi egoisti di classe rendono spesso ciechi. Così, i neoliberali e i monetaristi più legati alla globalizzazione capitalista asimmetrica, danno priorità ai loro propri interessi particolari. Continuano a concepire l’economia secondo il paradigma del settore agricolo americano, capace, come sappiamo tutti, di enormi sovrapproduzioni con la creazione di gigantesche profitti, ma impiegando meno di 3 % della popolazione attiva. Pero questo paradigma non vale un gran che per le nazioni e per i cittadini considerati nel loro insieme. Semplicemente, sopra una tale fragile base, nessuna politica reale di ridistribuzione sociale compatibile con una democrazia avanzata si avverrà possibile, a fortiori una ridistribuzione fondata sulla spartizione del lavoro socialmente disponibile. Rimarrebbe allora come unica alternativa la spartizione della miseria tra la massa dei cittadini con la reintroduzione della schiavitù salariata moderna e della nuova domesticità, ambedue mascherate per un tempo con le illusioni ideologiche di una versione o un’altra del « reddito annuo minimo garantito » immaginato proprio dai monetaristi, ed in particolare da Milton Friedman.

Quello che vale per l’economia americana vale immancabilmente per tutte le economie che imitano il suo modello anche se con quasi due decenni di ritardo – forse molto meno oggi per causa della globalizzazione. Aggiungiamo che questa relazione intima tra settori primario, secondario e terziario crea dei vincoli inevitabili che rimandano alle relazioni tra variabili in tutti i sistemi fondati su un insieme di variabili interdipendenti. Così l’aumento della taglia del settore terziario a scapito dei settori primari e secondari può avvenire unicamente sulla base della precarietà e della pauperizzazione crescente della forza di lavoro e dei focolari, e sulla base di una pauperizzazione senza limiti per un nuovo lumpenproletariat e di una nuova « cour des miracles », non importa se questa ultima sia cacciata in periferia dai vari sindaci Giuliani e dalle loro forze di polizia oppure nei visceri delle stazioni della metropolitana.

La crescita statistica degli impieghi precari e di bassa gamma, oppure del « self-employment » (cosiddette partite IVA ), cioè di un’altra forma di precariato o di tempo-parziale mascherato, erano prevedibili sin dall’origine della rivoluzione monetarista di Volcker-Reagan. Si conferma oggi con un masochismo elitario di cattivissimo stampo. Questo dovrebbe provocare un ritorno salutare alle leggi dell’economia reale prima che i limiti all’accumulazione del capitale, lasciato a se stesso su scala planetaria, no portassero ineluttabilmente ad una nuova e gigantesca conflagrazione, aperta o larvata che sia. (v. “Les conséquences socio-économiques de Volcker, Reagan et Cie”, come pure Tous ensemble, nel mio vecchio sito www.la-commune-paraclet.com, sezione Livres-Books.)

Questo ritorno all’economia reale implicherebbe per lo meno la considerazione sistematica dei settori, delle industrie e delle filiere produttive. Al livello europeo, questa conoscenza approfondita permetterebbe a tutte le istanze europee, notabilmente all’Antitrust ed al Rappresentante europeo per le grandi negoziazioni commerciali e internazionali, di operare con una maggiore trasparenza. La partecipazione istituzionale dei sindacati ne uscirebbe rafforzata. Conferirebbe tutta le legittimità necessaria all’Europa per fare prevalere, almeno al livello europeo, una nuova concezione dell’anti-dumping, coniugata con il pieno-impiego, almeno nelle filiere giudicate strategiche.

Per le altre, l’apertura alla competizione internazionale averebbe in funzione dei bisogni di importazione di nuove tecnologie, oppure in funzione della possibilità verificata delle altre filiere di assorbire i volanti di manodopera così liberati, senza sacrificare la qualità degli impieghi e la qualità di vita dei lavoratori. Andrebbe da se che in un tale sistema gli aiuti come pure gli esoneri elargiti alle imprese sarebbero iscritti sin dall’inizio in una strategia industriale europea. Questo militerebbe in favore dell’adozione al livello europeo dell’equivalente della Legge francese per il controllo dei fondi pubblici versati alle imprese, in modo da responsabilizzare gli attori economici. Pensiamo qui, ad esempio, alle politiche delle grandi opere oppure l’impiego dei fondi strutturali. (Vedi a questo proposito il mio articolo « Riforme democratiche rivoluzionarie o lamentabile Ronzinante del riformismo? » in http://rivincitasociale.altervista.org/riforme-democratiche-rivoluzionari-lamemntabile-rossinante-del-riformismo/ ; questo articolo fu originariamente pubblicato nella seconda parte del mio Tous ensemble, in Downlaod Now nella Sezione Livres-Books del mio vecchio sito www.la-commune-paraclet.com )

(Nota aggiuntiva: La nuova definizione dell’anti-dumping deve essere considerata come un’urgenza. Deve mirare a proteggere le tre forme del reddito dei focolari, cioè il « salario individuale », il «salario differito » (ammortizzatori sociali e pensioni) ed il « reddito globale netto » dei focolari ( in breve, i due primi più l’ammontare dei trasferimenti ai focolari sotto forma di programmi sociali pubblici e universalmente accessibili, e l’accesso alle infrastrutture pubbliche, etc.)

In parallele con la Riduzione del Tempo di Lavoro (RTL), una tale anti-dumping riabiliterebbe i contributi sociali prelevati sulla busta paga lorda, consolidando nel medesimo tempo la base fiscale. Il vantaggio di una tale definizione dell’anti-dumping proverrebbe dal fatto che non necessiterebbe nessuna rinegoziazione, un processo sempre lungo e laborioso visto la regola dell’unanimità alla OMC oppure nella UE. In effetti, permetterebbe semplicemente interpretare i suicidi trattati di libero-scambio esistenti trasformandoli in trattati di commercio equo – fair trade.

Sappiamo che la definizione dell’anti-dumping in vigore fu immaginata all’interno della OMC per accompagnare in modo sotterraneo il libero-scambio corto-termista globale, sopprimendo preventivamente ogni ricorso mirato a proteggere le conquiste sociali dello Stato Sociale o del Welfare State anglo-sassone. Perciò esclude d’ufficio dai suoi calcoli ogni referenza alla OIL – leggi e norme minime del lavoro – assieme ai criteri ambientali.

Da qui segue l’implementazione al livello mondiale dell’inetta « funzione di produzione » di Robert Solow – diciamo più precisamente Solow-Friedman. Questa viene scritta Y = f (K,L) dove K è il capitale e L rappresenta il lavoro disponibile immediatamente oppure in situazione di pieno-impiego, uno ragionamento infra-keynesiano di una inettitudine inconcepibile (ma, in realtà, cinicamente calcolato in modo perfettamente massonico nel senso dell’aggravio delle derive già iniziate con il cosiddetto « keynesianesimo bastardo » tale che ideato da Hicks, Samuelson ecc. (L’espressione fu coniata dagli neo-ricardiani della Cambridge, UK.) E noto ed al stesso tempo emblematico che rispetto alla Teoria generale come pure al Fennegans Wake di James Joyce, Samuelson andava dicendo che desiderava disporre di un riassunto …

La sua funzione di produzione dimostra che Solow non aveva capita un bel niente a Keynes, né nella versione originale né nella versione detta « bastarda » : a meno che, ben inteso, secondo il vecchio approccio anche utilizzato a scapito mio e modestamente verificato da me, non desiderava semplicemente rovesciare la logica …. per effettuare un ritorno alla Tradizione … Non di meno questa funzione di produzione valse il Premio Nobel al suo pitre di autore – il suo articolo del 1956 , il quale pretende essere una confutazione di Keynes e di Harrod, ma che in realtà non vale la carta sulla quale fu stampato, in particolare per quello che concerna il ruolo economico della tecnologica. Questo perché rimane molto al disotto delle critiche offerte da Sraffa sin dall’inizio degli anni 20 con rispetto ai rendimenti crescenti e decrescenti. Basta costatare che per Solow la tecnologa può solo essere introdotta in modo esogeno. Questo è un problema logico letale, rimanda alla contraddizione ex-ante/post hoc inerente a tutte le forme di economia borghese: la tecnologia ha un prezzo che deve essere fornito dal mercato, dunque in modo organico.

Per capire il ruolo economico fondamentale della tecnologia si deve capire la teoria delucidata della produttività razionalmente inserita nella Legge del Valore e nelle Equazioni della Riproduzione Semplice ed Allargata di Marx, che io fui il primo ed il solo ad esporre scientificamente.

Notiamo senza cerimonie che l’inettitudine della « funzione di produzione » di Solow applicata su scala globale è verificata ogni giorno dal comune dei mortali: basta notare che mette in competizione diretta i lavoratori tedeschi e francesi – e, una volta, italiani – con i loro più o meno 10 euro orari più i contributi sociali e la parte dei prelievi fiscali, non solo con quelli dell’Europa dell’Est – attorno a 3 euro orari – ma anche con il mezzo miliardo di compagni Dalits in India retribuiti a 0,50 cent orari, senza servizi sociali e ridotti ad una speranza di vita media di 40 anni. Questo perché l’equilibrio marginalista, dunque anche quello razor-hedge di Solow – riposa sopra la nozione di una soglia fisiologica, mentre sappiamo tutti che tale soglia è anch’essa elastica … Sappiamo che la longevità media all’interno dei paesi sviluppati ha cominciato a rallentare; un calo è pure statisticamente percepibile in un contesto nel quale gli operai muoiano da 7 a 11 anni in media prima dei loro dirigenti, secondo la loro professione.

Ben inteso, questo genere di equilibrio marginalista non è concepibile se non si ribassa il lavoratore allo statuto di un mere « fattore di produzione » soggetto ad una flessibilità ad oltranza e liquefattibile sotto forma denaro – incluso oggi la moneta elettronica scambiata con un semplice clic sulla Borsa globale grazie al Big Bang borsistico che coinvolge oramai anche i cash flow giganteschi delle MNC nel contesto della loro logica del profitto di corto termine o Roe. E tutto questo non rende neanche conto delle crisi, sopratutto delle crisi economiche-speculative, dato che nessuna teoria marginalista è ontologicamente o metodologicamente capace di differenziare tra interesse e profitto e dunque tra economia reale e economia speculativa. Il « credito senza collaterale » – v. sezione International Political Economy in www.la-commune-paraclet.com – non entra neppure nel suo campo ottico, nemmeno quando rovina i Stati sovrani tramite gli assurdi CDS sul debito pubblico, l’ultima scoperta nella cassetta con le papere ideologica del marginalismo neoliberale. In somma, si ha il PIB che si merita … Il resto, filo-semita nietzschiano, è diffuso generosamente in questo tipo di mondo, un’altra volta con la solita chutzpah, aldilà del bene e del male … )

Similarmente, questa pianificazione per lo meno indicativa e incitativa permetterebbe la massimizzazione di nuovi strumenti economici europei post-keynesiani da inventare o, a volta, da rivitalizzare secondo una ottica nuova. Ad esempio, il Fondo di investimenti europeo contro-ciclico da creare attingendo ad una parte delle riserve della BCE. (Ogni anni la BCE riversa delle somme gigantesche alle banche private tramite le banche centrali dei paesi membri.) La sua funzione principale sarebbe di permettere alle istituzioni bancarie e di credito sostenere, fuori del bilancio dello Stato, una politica contro-ciclica senza esporre la UE ad un calo della notazione del suo « rischio sovrano ». Permetterebbe pure, in caso di necessita, di intervenire in proprio, ad esempio, affiancando la creazione di grandi consorzi europei capaci di portare a buon porto le operazioni di consolidamento e di rinnovazione infrastrutturale tramite la tecnica dei « swap debito contro azioni ». Questo avrebbe il vantaggio supplementare per alleggerire il budget dei Stati membri risparmiandoci il ricorso, attualmente in voga, ad una fiscalità regressiva cieca. (In questa ottica precisa, i swap debito contro azioni furono proposti nel mio Tous ensemble. Nello stesso ordine d’idea, avevo anche dimostrato come rilanciare con poca spesa pubblica la necessaria nuova politica per l’alloggio sociale.)

A più lungo termine, vediamo che la visione indotta dal sistema di pianificazione indicativa e incitativa permetterebbe una gestione più raffinata dei settori come pure delle industrie considerate grazie alle Soglie Tobin. Queste soglie completerebbero il dispositivo di inserzione nell’Economia Mondiale, un processo che sarebbe già consolidato, dal punto di vista dei lavoratori e delle imprese realmente produttive, con l’adozione della nuova definizione dell’anti-dumping qui proposta. Nel mio Tous ensemble avevo illustrato il sistema « quadripartito » fondata su i Fondi Operai e le Soglie Tobin. ( Ben inteso, il credito pubblico tramite un polo finanziario-bancario giocherebbe un ruolo simile a quello dei Fondi Operai.) Nel momento in cui i Fondi Operai sarebbero controllati a maggioranza dai lavoratori stessi con il mandato specifico di appoggiare le imprese nazionali o semplicemente quelle presenti sul territorio, si vede subito il ruolo positivo che potrebbero assumere nella implementazione di un sistema di regulation economico fondato sulla spartizione del lavoro. Dato che nessuna nazione può vivere a lungo al di sopra delle sue capacità, questa andrebbe giustamente di pari passo con la produttività microeconomica e la competitività macro-economica più grandi possibili per una dato Formazione sociale inserita nell’Economia Mondiale.

Coesione economica e Europa sociale.

A ) Filosofia generale: Europa sociale intesa come necessaria mediazione regionale.

Nella fase attuale della costruzione europea, con o senza costituzionalizzazione, la priorità va al compimento dei cambiamenti iniziati con l’implementazione dell’Euro. Questo richiede la coordinazione delle principali politiche economiche, tenendo conto che i testi giuridici che concernano l’Euro impediscono de facto alla UE la suicide confusione intrattenuta nei Stati-Uniti tra politica monetaria in quanto tale e politiche economiche e sociali. Gestione monetaria e politiche monetariste sono due cose molto diverse. Sottolineiamo che la prima riguarda la gestione degli aggregati monetari tenendo conto, secondo i casi, dell’inflazione, della disinflazione oppure ancora della deflazione, e almeno parzialmente del tasso di scambio. Il tasso di scambio è un potere congiunto. Le seconde riguardano la forma di regulation economica e sociale ritenuta. Va sottolineato che la definizione dell’inflazione e degli aggregati monetari, oggi gestiti in autonomia dalle banche centrali, rileva di leggi nazionali in materia, dunque dal potere democratico eletto.

(Nota di luglio 2018: nel mio Tous ensemble, scritto durante la creazione della BCE, avevo chiesto l’adozione di ratio Cooke nazionali per le banche centrali membri da coordinare al livello della BCE. Fu preferito il « modello » iper-centralizzato del pitre Mundell, con i risultati ormai noti a tutti. Avevo anche chiesto l’adozione di circuit-brakers per bloccare in anticipo i prevedibili attacchi speculativi del Dollaro americano contro la minacciosa nuova moneta di riserva (conta già più del 20 % al livello mondiale …il dollaro anticamente re conto solo per 60 %, mentre oggi la Cina ha già creato un mercato renminbi-petrolio che sarà presto esteso alle materie prime.) Per fortuna questi circuit-brakers furono adottati. L’Euro permise così alla « gauche plurielle » di portare avanti la sua politica sociale – RTT ecc – la più avanzata sin dal programma comune di Mitterrand-Marchais, proteggendola dagli attacchi speculativi come sarebbe stato inevitabile con il Franc. Purtroppo, l’invenzione e la generalizzazione dei CDS sul debito pubblico non fu contrastata. Questi strumenti finanziari speculativi sono una assoluta assurdità visto che la circolazione legale della moneta e del credito è sancita dallo Stato, non al livello privato da una decina di banche primarie speculative e parassitarie. Il rovinosi e continui salvataggi statali non lasciano il minimo dubbio su questo soggetto. Per sfortuna né la Francia di Hollande né l’Italia ha chiesto l’abolizione dei CDS sul debito pubblico e nemmeno quella delle vendite a nudo, esponendosi dunque finalmente ai nuovi attacchi speculativi immaginati con l’aumento dello spread. Per colmo, ancora oggi, nessuno chiede la creazione dei ratio Cooke nazionali!!! Aumenta dunque il debito pubblico ed i squilibri esterni, anche sotto forma del Target II. Il NIIP attuale mostra come l’Italia sia già stata svenduta al capitale speculativo estero. Vedi:  https://en.wikipedia.org/wiki/Net_international_investment_position )

Per ora, questa coesione riposa sui Criteri di Maastricht e sul Patto di stabilità e di crescita. Ma questi sono attualmente fortemente condizionati da un neoliberalismo che inquina tanto i governi di destra (Francia, Italia, ecc.) quanto quelli di sinistra senza risparmiare l’attuale governo tedesco. La questione di fondo va ben oltre quella del rispetto o meno degli impegni anteriori e del potere giuridico di una istanza – la Commissione – sopra un’altra – il Consiglio europeo via l’Ecofin. In realtà, si tratta semplicemente della natura democratica oppure nietzschiana dell’Europa. Questa Europa sarà una istanza sovranazionale borghese, perciò strettamente censitaria, oppure sarà una ricomposizione regionale necessaria della democrazia europea tenendo conto dell’evoluzione dell’economia mondiale? In breve, preme sapere se si tratta della realizzazione dell’Europa del capitale oppure dell’Europa sociale.

La ragione è semplice benché terribilmente occultata dall’inanità della « scienza » economica oggi insegnata nelle nostre università. Si deve pure tenere conto dei presupposti di classe che impregnano tutte le istanze decisionali legate da vicino o da lontano all’Unione europea. Ad esempio, le burocrazie ed istituti di ricerca europei o nazionali, oppure ancora l’OCSE o il FMI. A parte alcuni economisti rinomati che confondano naturalmente l’obbiettività scientifica con la necessità di preservare la loro reputazione, se non il loro standard sociale, nessuno può ignorare che tutte le varianti della « flat-tax » – fiscalità regressiva – possono solo scaturire dalle prescrizioni degne di una scienza economica voodoo, almeno di esigere tagli sistematici nelle spese dello Stato.

Nessuno ignora che questa esigenza neoliberale implica lo smantellamento completo dello Stato sociale, come pure quello dello Stato smithiano classico. In effetti, quest’ultimo prevedeva come una verità d’evidenza l’intervento dello Stato per garantire i compiti che il capitale privato non è in grado assumere da solo – difesa, sicurezza – e, per implicazione, per edificare le condizioni infrastrutturali – urbanesimo, igiene pubblico, trasporto ecc. – necessarie alla crescita del capitale. Si tratta qui di un obbligo giustificato con l’ideologia dell’interesse generale e dell’equità necessaria alla concorrenza – « comunismo del capitale » secondo Marx. Le formi dominati del capitale all’epoca di A. Smith, erano il capitale mercante e il capitale industriale emergente. Questo aspetto pre-keynesianso del capitalismo classico viene oggi liquidato dall’odierno neoliberalismo. Questo conserva solo il finanziamento e la coordinazione statale della difesa – di cui alcuni compiti maggiori potrebbero, secondo Rumsfeld et al., essere devoluti al privato nel futuro prossimo. La stessa cosa vale per lo sviluppo degli apparati di repressione destinati a garantire il quadro sociale della produzione coniugato al carattere rigorosamente privato dell’accumulazione capitalista.

Nell’occorrenza, parlare di « nietzschianismo » per caratterizzare questo « ritorno ascendente » verso la ridistribuzione disuguale e barbara dei redditi e delle ricchezze non è una parola in aria né un slogan esaltato, ma bensì una descrizione obbiettiva della realtà. Questo « ritorno » volontaristico alla disuguaglianza intrinseca tra le classi non cade dal cielo: ha come antecedenti immediati, notabilmente all’interno del Pentagono del secondo dopo-guerra, in seguito al rilancio della Guerra Fredda, un certo numero di studi segreti squisitamente ufficiali – attestati sull’onore da John Galbraith, in particolare il Report from the Iron Mountain.

Questi documenti nutrirono numerosi studi privati che annunciarono la cosiddetta « rivoluzione tecnotronica » e altri « future shocks ». Con il collasso del modello rivale incarnato dalla USSR, la filosofia capitalista nietzschiana contenuta nei documenti originali acquistò una nuova vita. Molto tempo indietro, le élite borghesi avevano concluso che la crescita continua e sistematica della produttività del capitale e del lavoro dovuta all’approfondimento della composizione organica del capitale, libera masse crescenti di forza di lavoro, ponendo così ineluttabilmente una scelta dolorosa al modo di produzione capitalista.

Da una parte, l’accettazione del suo superamento progressivo con la spartizione del lavoro socialmente disponibile e delle ricchezze prodotte, mantenendo una etica e una cultura « democratica » fondata sul lavoro individuale delle cittadine/i, cioè, almeno parzialmente, sulla proprietà individuale legata ai frutti di questo lavoro. Dall’altra parte, la scelta della perpetuazione delle disuguaglianze di classe portata allora necessariamente al loro parossismo con la crescita simultanea della produttività e della disoccupazione strutturale di massa. Tale scelta non mancherebbe indurre l’istituzionalizzazione di misure di repressione permanenti delle cosiddette « classi pericolose ». La verifica ne è oggi fornita dall’impatto liberticidio del Patriot Act americano e dalla sostituzione ovunque della sicurezza armata alla preminenza dei diritti fondamentali delle cittadine/i. Questa regressione viene compiuta in nome di una minaccia « terrorista » mal definita o meglio ancora ideata interamente per avvalorare questa scellerata scelta.

Per quello che riguarda la prima alternativa, senza rifare tutto Beaumarchais, sottolineiamo che la società borghese si impose contro il feudalismo appoggiando la legittimità dei frutti del lavoro contro l’eredita dei privilegi e delle ricchezze. Hamilton nei possedimenti britannici in America del Nord oppure il Directoire in Francia ebbero rapidamente ragione di Thomas Paine, di Jefferson o ancora di Babeuf e di Robespierre. Nondimeno, l’imprenditore borghese, spesso arrampicato ai furgoni dell’Esercito oppure ai suoi « pantalons garance », conserva sempre l’acuta coscienza di essere uno « self-made man ». L’iniziativa individuale del proprietario, del manager o del lavoratore sarebbe rigorosamente identica dal punto di vista « qualitativo » benché molto diversa dal punto di vista « quantitativo » dato il « merito » rispettivo. Questa uguaglianza formale viene abilmente presentata come tale per ragioni di legittimazione delle pretese universalistiche usuali a tutte le classi dominati. Questo rischia di perdurare a lungo, perciò si impone uno ribilanciamento che solo lo Stato può operare.

Il mondo capitalista rimane un mondo alla rovescia: le illusioni relative al « salario » in quanto proprietà individuale provengano dal fatto che il « salario capitalista » rimane individuale malgrado le forme adottate dalla ridistribuzione sociale legata per conto suo all’instaurazione dei programmi sociali e dunque dell’emergenza della « sovrappiù sociale ». Provengano, in oltre, dall’emergenza della gestione « manageriale » che permise al capitalismo durante le Années Folles di mascherare l’indecenza dei profitti dei « proprietari » dei Mezzi di produzione, spesso assenti, dietro i « salari » dei manager, una distinzione oggi singolarmente indebolita dal capitalismo finanziario speculativo sostenuto da « holding private » che coltivano l’opacità come un’arma contro i concorrenti e contro i loro propri azionari.

Per ora, la borghesia occidentale cede alle illusioni del « schumpeterismo alla rovescia » (« alla rovescia » perché Schumpeter era convinto del deperimento inevitabile del modo di produzione capitalista, la « distruzione creativa » essendo essenzialmente vista come un stratagemma per ritardare l’esito fatale.) Questi si illude potere assorbire le stratte crescenti della disoccupazione con la doppia « distruzione creativa » – secondo il suo punto di vista di classe – della proprietà pubblica e degli impieghi permanenti e sindacalizzati implicati. I disoccupati sono allora destinati ai piccoli lavoretti – precarietà e tempo parziale – tramite il « workfare »; o peggio ancora sembrano destinati al confinamento in istituzioni penali o para-penali anche loro già destinate ad essere privatizzate. Le élite europee attuali sembrano anche pensare che questo « schumpeterismo alla rovescia » gli permetterà sostituire i monopoli economici nazionali in vigore nei loro paesi rispettivi con imprese private europee. Queste sarebbero strutturate al livello regionale europeo nella speranza di aumentare il loro peso nell’economia mondiale. Nondimeno questi « campioni » rimarrebbero aperti al capitale straniero dato il « Big Bang » borsistico fondato sull’apertura dei mercati e la disaggregazione funzionale delle istituzioni finanziarie a favore della banca cosiddetta « universale ». Con la conseguenza che, prima o poi, saranno costrette a fare i conti con i grandi fondi mutuali anglo-sassoni.

L’Europa applica oggi le ricette neo-liberali cucinate nei Stati-Uniti sotto Volcker-Reagan, e attualmente perseguite da G. W. Bush, con il fervore del convertito filosemita nietzschiano. Ma l’Europa lo fa con qualche decenni di ritardo proprio mentre le contraddizioni indotte da questa scelta contro-natura accrescano tutti i problemi e tutti i squilibri esterni e domestici ormai familiari agli Americani. Con cognizione di causa, l’Europa cerca di credere alla virtù delle PMI giudicate essere i principali creatori di lavoro. Sappiamo che in media 70 % tra queste non sopravvivono oltre tre anni mentre il resto rappresenta solo una escrescenza instabile delle politiche del indotto generato dalle grandi imprese pubbliche o dalle entità governative diminuite dalla cosiddetta deregolamentazione e dalla privatizzazione, ambedue accelerate dal fenomeno secolare della decentralizzazione/deconcentrazione.

In effetti, l’attuale « crescita economica » va di pari passo con la deindustrializzazione e la delocalizzazione delle imprese americane e con l’incapacità strutturale di creare impieghi veri. Questo dimostra senza dubbio che, nell’assenza di un nuovo corso (New Deal) in materia di ridistribuzione dei poteri e delle ricchezze, il capitalismo speculativo sfrenato attuale è ridiventato il suo proprio peggiore nemico – John M. Keynes metteva in guarda contro i suoi « spiriti animali »; Galbraith sottolineava assieme ai New Dealers più avanzati che i sindacati costituiscono dei « contrappesi » preziosi per disciplinare il capitalismo.

Una volta ancora il capitalismo moderno, del quale i Stati-Uniti sono la punta avanzata, si schianta con forza contro la sua contraddizione intima, cioè la sovrapproduzione accompagnata dal sotto-consumo. Questa contraddizione è eretta in fatalità sistemica dagli epigoni del neoliberalismo che pagano il loro impiego e la loro riputazione con una sovrappiù di « servitù volontaria ». Ben inteso, questa contraddizione non è risolvibile senza cambiamenti nel modo di produzione o almeno senza una nuova regulation appropriata. ( Il miraggio della New Economy fece illusione grazie alla massificazione dei nuovi settori intermedi che sostituirono o si innescarono in parte sopra gli anziani. Oggi, questo effetto no si fa quasi più sentire e deve fare i conti con l’emergenza dei concorrenti asiatici. La crescita netta della massificazione futura dei nuovi settori legati, ad esempio, allo sviluppo delle nanotecnologie sarà senza dubbio inferiore a quello che seguì la massificazione dei prodotti nati dalla rivoluzione informatica e dalle telecomunicazioni.)

In breve, la politica attuale delle élite europee sembra per molti versi irrisoriamente suicida. Scommettono sulla privatizzazione e sulla deregolamentazione per ristrutturare i loro apparati produttivi al livello europeo con la speranza di fare fronte alla « nuova sfida » americana e mondiale: purtroppo, in termini economici, non è affatto certo che questa privatizzazione si faccia al beneficio degli Europei, dato il sostegno di queste élite europee al libero-scambio sfrenato voluto dagli USA, compreso in materia di prodotti agricoli e di beni e servizi. E certo che i neoliberali stanno forgiando ex novo una vera e propria « crisi fiscale dello Stato » tagliando le ricette ricavate dalle imposte dirette necessarie allo Stato moderno, tanto l’Irpef con la crescita dei lavoratori precari ridotti ad un livello minimo, quanto le tasse sui redditi del capitale e delle successioni.

In oltre, le stesse cause producendo gli stessi effetti, la crescita della disoccupazione strutturale, mal riassorbita da un « workfare » in salsa europea, naturalmente destinata a flessibilizzare la forza di lavoro, provocherà delle chiusure identitarie diametralmente opposte al proseguimento armonioso della costruzione europea. (La capacità di un Le Pen a canalizzare una parte del voto « operaio » nel passato costituisce solo la punta dell’iceberg. Con una variazione di dieci o venti per cento secondo il modo di scrutinio, i vari Le Pen si declinano già in tutte le varianti nei paesi membri, in modo che gli Amici della birra polacchi costituiscono quasi una pausa democratica nel grigiore della rappresentatività odierna. I socio-democratici, sopratutto i filo-sionisti tra loro, hanno una responsabilità paragonabile solo dalla timidezza manifestata dai loro predecessori verso il governi di « unione nazionale » – cioè i « patti repubblicani » ugualitari sotto un’altra forma – destinati a ostacolare la crescita del fascismo.

Si capisce allora a che punto possono essere ciecamente patetiche le politiche che cercano imputare al rispetto dei Criteri di Maastricht e del Patto di Stabilità il risultato diretto delle scelte in materia fiscale e di ridistribuzione dei redditi e delle ricchezze. Ben inteso, gli economisti doc, come pure i giornalisti che « pensano » sulla base delle loro magistrali volgarizzazioni mediatiche, potranno facilmente notare la crescita anche se debole del PIL. Lo faranno senza mai tenere conto del paradosso secondo il quale, malgrado un PIL (nominale ) in crescita, la ridistribuzione sociale diventa comunque sempre più disuguale. Con il risultato che questa disuguaglianza rende più acuta la crisi strutturale del capitalismo opponendo frontalmente la sovrapproduzione e il sotto-consumo cronici senza la minima possibilità di risolverla con un spostamento del problema al livello mondiale.

In effetti, lungo da risolvere questa contraddizione, la globalizzazione attuale ha il potenziale di moltiplicarne gli effetti più nefasti. In oltre, al contrario di quello che si vorrebbe fare credere, l’azione globale delle imprese multinazionali non permette né di pensare né di agire localmente. A questo livello gli agenti si ritrovano de facto tanto atomizzati quanto i chandala descritti da Nietzsche, il cui ritorno è auspicato dalle attuali pseudo-élite occidentali – « erede » dirette, come sanno tutti, dell’umanesimo e della democrazia alle pari con quelli che ereditano una fortuna di famiglia che non hanno contribuito a creare! I vantaggi marshalliani legati ai risparmi realizzati grazie alla localizzazione possono eventualmente sostenere un nuovo artigianato, ma sembra dubbioso volere fondare su di essi una politica industriale e meno ancora una reale politica di pieno-impiego!

In riassunto, diciamo che in ogni sistema fondato su un insieme di variabili interdipendenti ma asimmetriche tra loro, il livello di equilibrio sarà raggiunto secondo l’importanza politica attribuita ad una o alcune variabili specifiche. Nel caso che ci concerna qui sappiamo che il salariato capitalista costituisce la prima relazione politica all’interno del MPC. Questo viene confermato dal fatto che gli ideologhi e le vittime del regime continuano a idealizzare, contro ogni apparenza, una concorrenza perfetta tra « fattori di produzione ». Nell’assenza di una razionalizzazione e di una efficienza minime nella gestione delle imprese – produzione – e del governo – riproduzione e commercio estero – sarà sempre possibile, a volte in modo irrisorio se non criminale, pretendere che il livello di equilibrio ottimale non viene raggiunto a causa dei vincoli dovuti alla mancanza di « flessibilità » del « fattore lavoro » – « fattore » ben inteso monetizzato e « disincarnato », il quale, per colmo, esibisce una ingombrante tendenza ad essere « nominalmente rigido al ribasso », secondo il suo grado di sindacalizzazione.

Le reti di protezione sociali dello Stato sociale stabilite come diritti e conquiste popolari costituiscono degli ostacoli eccellenti contro questa flessibilizzazione. La caduta del Blocco dell’Est – « socialismo reale » – rende ormai politicamente pensabile il loro totale smantellamento. Il fatto che delle frazioni sempre più larghe della popolazione cadano nella miseria ritorna ad essere pensabile per la borghesia perché ci vede la cura contro la « pigrizia » inerente alle « classi pericolose », cioè al lavoro alienato, con la sua crescente Armata di riserva. Ci vede pure la possibilità di imporre la « spartizione della miseria » tramite il tempo parziale ed il precariato sostituiti ad una autentica « spartizione del lavoro » socialmente disponibile, operata grazie alla riduzione della durata del lavoro senza perdita di reddito, una scelta giudicata « socialista » e collettivista.

Questa terzo-mondializzazione all’interno dei paesi sviluppati viene ricercata come un fine in se: dopo tutto, il Messico, un paese oggi membro dell’America del Nord grazie al Trattato Nafta, dimostra emblematicamente come i profitti del capitale compradore e quello delle multinazionali possono accrescersi conservando un volante di disoccupazione e di sotto-impiego attorno al 50 % della popolazione attiva, se non di più. Per preservare questo squisito equilibrio, basta avere il coraggio di sacrificare, l’ora venuta, i capitalisti più deboli, la repressione dei lavoratori, e a volta la loro mattanza, facendo naturalmente parte degli usi e costumi celebrati come dei modelli di comportamento democratico, e come tali, vanno potentemente affiancati dai vari Southern Command e dagli altri servizi occidentali!

La grande lezione del New Deal fu di prendere atto che questa terzo-mondializzazione interna urta una soglia fisiologica che annuncia la rovina della forza di lavoro dopo due anni di inattività in media. Ma questa fu una grande lezione presto dimenticata. Questo oblio giustifica la sostituzione degli ammortizzatori sociali con delle istanze caritative, complete con i loro bassi cleri e la loro « mensa dei poveri ». Questo giochetto della distribuzione dell’oppio sociale, era la condizione sine qua non per permettere ai « pitre » che si prestano servilmente a questa regressione di fondare la loro legittimità, mascherandosi in donne di carità ben quotate nel tempio.

Sarebbe meglio stare attenti: la regressione filo-semita nietzschiana è perfettamente concepita dai dirigenti come unico mezzo per risolvere la contraddizione capitalista tra sovrapproduzione e sotto-consumo, modificando le condizioni di esistenza – o meglio di sopravvivenza – materiali ed ideologiche del proletariato. E vero che la flessibilizzazione del lavoro contiene in essa l’equilibrio sempre ristabilito in modo post hoc delle variabili capitaliste secondo una ridistribuzione delle ricchezze sociali sempre più disuguale idonea a ribassare la soglia fisiologica dei mortali comuni, nel momento in cui i più venali si sentono investiti di un divenire specifico di « post-umanità ». Il tempio dei flussi di informazione autorizzata farà sempre la sua parte per sopprimere la coscienza di classe del proletariato. Nonostante, questa rimane l’unico baluardo concreto che si oppone a questa discesa in inferno forzata del proletariato e della civiltà umana, rivista e corretta da grandi o piccoli cleri auto-proclamati. Ben inteso, questi si reclamano del diritto divino nel tentativo di ristabilimento del loro esclusivista impero di casta.

Chi non vede che la creazione dell’Unione Europa, come blocco economico sempre più coerente, come « mercato comune » primo e come « unione monetaria » dopo e, per finire, come « unione politica », ha solo senso in quanto tentativo sovranazionale di ricomporre lo Stato sociale ad un più alto livello per permettere alle nazioni europee membri, grande o piccole che siano, conservare ai loro cittadini il loro confortevole statuto nell’inserzione nell’Economia Mondiale Capitalista?

I Padri dell’integrazione europea – Jean Monnet, Robert Schuman ecc. – e prima di loro quelli dell’integrazione funzionalista (tale Mitrany) avevano concluso unanimemente che l’integrazione economica doveva precedere l’integrazione politica. Questo pensiero proveniva dalla loro comprensione delle catastrofe umane causate dalla guerra moderna, sempre capace di estendere il suo furore distruttivo su scala planetaria. Ma questo non cambia nulla alla valutazione che traevano dei fini ultimi di questo processo graduale. La sinistra, in particolare la sinistra marxista che nutrì il pensiero anti-militarista in nome dell’internazionalismo proletario, non ha niente da rimproverare a questo cammino funzionalista se non il suo carattere di classe che lo rende parziale e, a volta, contraddittorio e aberrante.

(Non si può parlare sul serio dell’indipendenza economica e politica dell’Europa concependo la Nato come una organizzazione imperiale invece di quello che dovrebbe essere, cioè una organizzazione regionale delle Nazioni Unite. In quanto tale, deve rispettare le esigenze della sua Carta e quelle della Carta fondamentale delle Nazioni Unite. Lo deve fare rigorosamente nell’ottica della « sicurezza collettiva » specificata nel « Capitolo 8, Accordi Regionali ». Né può la UE lasciare a questa organizzazione regionale la prima e ultima parola sulla struttura del suo complesso militare-industriale, oppure sulle sue ricadute economiche civili, notabilmente in materia di finanziamento della ricerca e delle sovvenzioni alle imprese sottratte dalle regole della OMC per causa di « sicurezza nazionale » nonostante i trattati di libero-scambio vigenti.)

Dato la sua eredità culturale propria, questa Europa sociale dovrebbe istintivamente sapere che il « fattore lavoro » è una categoria logica, il valore di scambio della quale non può essere deciso unilateralmente dal Padronato in alleanza con lo Stato padrone. Questa Europa sociale dovrebbe ugualmente sapere d’istinto che né il commercio estero né alcun altro « vincolo esterno » può essere concepito come una variabile indipendente dal livello di vita dei lavoratori. La gestione del commercio mondiale potrebbe mirare ad un’apertura negoziata dei mercati con lo scopo di armonizzare i vantaggi comparativi naturali o acquisiti dalle varie parti con il pieno-impiego: « basterebbe » letteralmente sostituire il distruttore Byrd Amendment americano attualmente in vigore con una nuova concezione dell’anti-dumping, modifica da fare sancire dall’OMC conciliando produttività micro e competitività macro – dunque sociale -, cioè il pieno-impiego secondo i vari settori, industrie e filiere che ogni Stato giudicherà utile preservare. Non è tanto la « società aperta mondiale » ad essere in causa ma la forma di classe che si desidera impartirgli. In effetti, con un PIL nazionale – almeno per i paesi sviluppati dell’OCSE – e mondiale in crescita, è chiaro che l’impoverimento di stratte sempre più larghe di lavoratori non rappresenta a fatto una fatalità legata a qualsiasi « leggi economiche » ma, al contrario, il risultato di scelte politiche deliberate da parte del Padronato e dello Stato borghese.

L’argomento della competitività è altrettanto paffuto con sterilità intellettuale. Rappresenta letteralmente un contro-senso: al contrario di quello che predicano i portavoce della borghesia, la competitività dei settori economici o delle nazioni nel loro inseme non dipende in se dall’apertura alla concorrenza mondiale. I settori agricoli e agroalimentari americani ed europei ne testimoniano pienamente. La competitività in se non è niente altro che la produttività sociale legata alla composizione organica del capitale. Esibisce un doppio carattere quantitativo e qualitativo. Questo dipende dalla soddisfazione dei consumatori come pure dal numero di unità del bene o servizio considerato prodotto in una determinata durata di lavoro, secondo le condizioni specifiche individuali – processo di produzione immediato – o sociali – organizzazione della produttività sociale e gestione dei parametri che definiscono la struttura dei prezzi.

In atri termini, la competitività delle nazioni o dei blocchi economici dipende strettamente delle possibilità tecniche – che non sono spontaneamente disponibili in nessuno modo di produzione come dimostrato da Lenin -, e della volontà politica, come pure delle forme di contabilità adottate. Il confronto con i competitori stranieri può ovviamente dare un contributo positivo in materia di avanzo tecnico o di know-how ma, spesso, questo implica una perdita del controllo domestico che si traduce poi con l’espatrio del profitto e con l’indebitamento correlato delle Formazioni sociali considerate.

Ben inteso, questo si traduce ugualmente con la subordinazione del « fattore lavoro » a questa competizione economica sprovvista di ogni finalità sociale altra che la crescita dei profitti privati. Si spera in questo modo, come notato ironicamente da John Galbraith, potere « nutrire gli uccelli nutrendo i cavalli » (il cosiddetto « trickle down effect ».) Come da me dimostrato nel capitolo relativo al « socialismo cubano » nel mio Pour Marx, contre le nihilisme, liberamente accessibile nella sezione Livres-Books di www.la-commune-paraclet.com, il modo di produzione socialista – oppure l’epoca di ridistribuzione del capitalismo avanzato corrispondente al keneysianesimo – è per parte sua capace di conciliare crescita sistemica della produttività individuale e nazionale – o regionale – e, nel stesso tempo, essere capace di negoziare a livello internazionale il grado di esposizione/competizione settorialmente necessario ad una crescita continua dello standard di vita dei lavoratori e della società intera. Immaginarsi poi senza blocus!

Le doti naturali delle nazioni impediscono de facto l’autocrazia. La spartizione della sovrappiù individuale ne uscirà chiaramente influenzata, mentre in una formazione sociale ben gestita e pianificata democraticamente con buon senso, ogni diminuzione della parte relativa dovuta individualmente al possessore dei Mezzi di produzione – capitalista, cooperativa o Stato – risulterebbe grandemente compensata dal sostegno e dal sviluppo della produttività collettiva – cioè della sovrappiù sociale. Si osserva facilmente che gli USA sprecano da 15 a 16 % del PIL per un scarso sistema di sanità in maggiore parte sotto controllo del settore privato, mentre l’Europa provvede in modo pubblico al mantenimento ed alla riproduzione della forza di lavoro attiva e inattiva spendendo solamente attorno a 9 % del PIL. In ultima istanza, la competitività dipende dalle Formazioni sociali popolate da Esseri umani che sono anche dei cittadini e che, di conseguenza, non si considerano come dei semplici fattori di produzione o altri Golem, sottoposti a corvée. Tra Essere umani, tra cittadini, è sempre possibile concepire la compatibilità tra interessi individuali e interesse nazionale all’interno di un contratto liberamente e coscientemente adattato alle circostanze storiche. Tra « fattori di produzione » può solo prevalere le pseudo-leggi naturali che operano sulla base di una gerarchia disumanizzante, abilmente mascherata ma che nondimeno detta tutte le regole del gioco.

Perciò preme porre chiaramente la questione seguente: A cosa servirebbe fare l’Europa se l’insieme delle variabili determinanti del capitalismo è unilateralmente globalizzato, senza mediazioni regionali possibili, per l’unico profitto del Capitale transnazionale? La Commissione ed il Consiglio europeo possono benissimo concepirsi come delle istanze sovranazionali destinate ad imporre la globalizzazione ai popoli europei aldilà di ogni controllo e di ogni sanzione democratica, ma ovviamente non è questo il loro mandato né il loro ruolo. L’esempio dei paesi europei più avanzati dimostra senza dubbio che la competitività della forza di lavoro è tanto forte quanto è forte la socializzazione degli elementi necessari alla sua riproduzione – educazione, salute, ammortizzatori sociali e pensioni, alloggio, trasporto ecc.

La Francia di M. Jospin ha ugualmente fatto la prova inconfutabile che la crescita della base fiscale dello Stato, come pure il rendimento delle tasse sono molto più compatibili con una regulation economica compiuta sulla base della « spartizione del lavoro » che sull’amministrazione delle medicine fiscali da cavallo ordinate dal neoliberalismo monetarista. Questo spiega senza equivochi la ragione per la quale il capitalismo americano cerca ogni possibile mezzo per distruggere preventivamente, e su scala mondiale, lo Stato sociale. Lo considera fondamentalmente incapace di preservare lo statuto privilegiato del quale godeva nell’immediato dopo-guerra quando concentrava più di uno terzo delle ricchezze mondiali e la maggiore parte delle riserve in oro del Pianeta, oltre ad una struttura industriale uscita indenne dai conflitti armati. Per ora, il capitalismo americano non sembra più avere le risorse morali oppure il coraggio politico necessario per togliere di mezzo gli ostacoli all’accumulazione del capitale con il ricorso ad una grande ridistribuzione interna delle ricchezze – dopo tutto, il consumo dei focolari rappresenta attorno a 70 % della domanda effettiva nelle società avanzate come i Stati Uniti. Ecco perché, oggi a questo nuovo « ritorno » programmato della barbarie deve rispondere la determinazione e la forza implacabile della resistenza del proletariato, di nuovo cosciente delle sue proprie rivendicazioni di classe.

B ) Parametri economici generali.

 

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