Commenti disabilitati su RIFORME DEMOCRATICHE RIVOLUZIONARIE O LAMENTABILE RONZINANTE DEL RIFORMISMO?

(Capitolo di Tous ensemble*)

Seguirà la traduzione della Prefazione e aggiornamento intitolata « Marcia verso la stella … di mezzanotte dei filosemiti nietzschiani » già disponibile in francese.)

Indice

Introduzione

Riforma e rivoluzione

Riforma rivoluzionaria e Legge di modernizzazione sociale

A proposito dello sciopero generale

Riforma rivoluzionaria e il pericolo di fare il letto del cesarismo

Posture elettoralistiche e autentica strategia riformatrice

La sinistra tutt’intera è nuovamente confrontata al suo vecchio dilemma benché sotto una forma diversa. Oggi, in Francia come in Europa, non si tratta più di determinare se la via della riforma o quella della rivoluzione sia la migliore per arrivare al socialismo, cioè al regime più capace di coniugare l’uguaglianza reale dei cittadini con la loro libertà politica. Come sempre, si tratta di capire quale sia il migliore mezzo per raggiungere questa meta in date circostanze.

Supponendo meccanismi di controllo democratico dei processi decisionali che nacquero sotto il segno del suffragio universale, il cuore del problema consiste nel sapere come trasformare un sistema di proprietà dei mezzi di produzione. Come trasformare un sistema esclusivamente dominato dalla proprietà privata, in un altro sistema nel quale coesiste una pluralità di forme di proprietà, sotto la dominanza di diverse forme di proprietà collettive, dalle cooperative alle imprese statali. Si tratta di sapere come creare un regime plurale capace di esercitare il suo ruolo in uno sistema di ridistribuzione inquadrato da una pianificazione adeguata alla Formazione sociale in questione. Per la sinistra, intesa in senso lato, si tratta dunque di non confondere le riforme rivoluzionarie, che si iscrivano chiaramente nel senso di una tale trasformazione, con le riforme « gattopardesche » con le quali la borghesia dominante strumentalizza i partiti, nominativamente di sinistra, per imporre una sembianza di cambiamenti mirati a salvare il loro modo di produzione e con esso l’essenziale del loro potere egemonico di classe.

Quando procedono nella giusta direzione, queste trasformazioni possono avvenire progressivamente secondo le possibilità offerte dalle alleanze di classe e dalle loro espressioni politiche messe in opera da governi autenticamente di sinistra. Succede spesso, come oggi, che la lotta sindacale di base possa forzare la marcia. E proprio durante questi episodi che la distinzione tra i due tipi di riforma deve essere chiaramente presente agli occhi di tutti. In effetto, un progresso pur modesto nella buona direzione costituisce una vittoria sistemica poi difficile da cancellare; al contrario, semplici vittorie come ad esempio gli aumenti salariali nominali sono facilmente erose dalle varie inflazioni oppure dalle ristrutturazioni aziendali.

Non di meno, durante la fase cruciale rappresentata dall’iter legislativo, l’irruzione della massa nel tentativo di influirne il suo corso dovrebbe essere accolta da tutte le tendenze della sinistra governativa e non-governativa, come un richiamo all’unità in modo da ottenere le riforme rivoluzionarie le più avanzate possibili, senza rimettere in causa questa unità. E senza rischiare di indebolire la solidità dei legami solidari che uniscono questa sinistra in modo non-antagonista con le diverse stratte sindacali e popolari contrapposte alla destra ed agli altri rappresentanti degli avversari di classe.

Chiaramente, queste unità e solidarietà fondamentali, nutrite con una saggia pratica dell’egemonia, costituiscono per definizione le variabili determinanti dell’ampiezza e della velocità delle riforme esatte. Ne scaturisce il fatto che ogni posizionamento in vista delle prossime elezioni non dovrebbe essere concepito al detrimento della ricerca delle migliori riforme rivoluzionarie possibili, almeno quando queste sono spinte dalla base e informate dai suoi problemi immediati. In altre circostanze, questo posizionamento sarà naturale e necessario ad una sana pratica unitaria della « gauche plurielle ». Esprime la necessità di differenziazione e di articolazione capace di coniugare la personalità e la rappresentabilità di ognuno con il proprio contributo ad un insieme plurale.

Questo si verificherà maggiormente quando vige un sistema elettorale proporzionale o a due turni (nota aggiuntiva : purché le soglie non siano troppo alte …). In tanto, il posizionamento politico deve imperativamente sottolineare il programma proprio, dimostrando pero la capacità di farsi carico dei successi e dei ritardi, se non delle sconfitte, attribuiti al governo al quale si appartiene. Nel caso peggiore, l’ammissione di una sconfitta o di uno ritardo permette di riaffermare la priorità conferita alla problematica sotto-giacente, rievocando così un appoggio elettorale massiccio. In tal modo, se ne evidenzierebbe il peso nel programma comune nell’eventualità una nuova vittoria della « gauche plurielle » lo rendesse realizzabile.

Un’attitudine simile dovrebbe naturalmente imporsi alla sinistra non-governamentale quando le conquiste del governo di sinistra sono globalmente evidenti. Le esperienze britanniche ed italiane negative debbono servire di lezione alla « gauche plurielle » francese. Ambedue dimostrano l’inanità di questa sinistra riformatrice tradizionale, intrappolata nell’egemonia borghese e sempre pronte a considerare il modo di produzione di questa classe come la fine della storia. Fa così l’economia della ricerca del suo superamento, accontentandosi di un mere adattamento alle circostanze, giorno dopo giorno.

La prima, lodata con un tocco d’ironia dal The Economist « The Blair we like » -, vorrebbe credere nella sparizione della lotta tra capitale e lavoro. Similarmente intrattiene speranze per la sparizione definitiva del comunismo. Questo la spinge istintivamente, come per meglio rassicurarsi, a forgiarsi speditamente una vacillante sintesi incarnata dalla sua cosiddetta Terza Via. Sfortunatamente per i propagatori di questa ideologia, essa fu subito rimessa in causa dai vari disastri nazionali indotti da questa scelta politica – pauperismo e razzismo, smantellamento dei servizi pubblici residuali, pandemie inevitabili ecc…

La seconda, sempre trainata dalla sua speranza illusoria nel trovare un proprio Camino di Damasco nella negazione del suo passato, purtroppo prestigioso, si auto-lesiona chiudendo così la porta al riformismo rivoluzionario richiesto da tutte/i quelle/i che vogliono rifondare il comunismo. Così facendo, sprofondano nell’inettitudine della prima senza pero averne i mezzi economici dato l’ampio programma di privatizzazione che aumentò fatalmente la proprietà straniera in Italia al livello record del 60 %. Così, si spiega la sua ricerca di un ruolo di tirapiedi della NATO della quale canterà i « valori » con la devozione dei muti del serraglio, odierni e brillanti discepoli del giolittismo e dei connubi malsani inaugurati già con la politica di Cavour, i.e., il nostrale riformismo trasversale.

Al contrario, per la loro evidenza di classe, tutte le riforme autenticamente rivoluzionarie ottenute dalla « gauche plurielle » francese diventano delle conquiste del proletariato del mondo intero, se non altro perché, senza nessuna miopia volontaristica, ripropongono il dilemma di base: sopra quale cavallo vogliono scommettere i partiti di sinistra, sulla Ronzinante del riformismo borghese oppure sul Bucefalo del riformismo democratico rivoluzionario?

Paradossalmente la risposta sembra fornita ancora una volta dal disastro cittadino sotto-giacente nella « vittoria » elettorale di Tony Blair. Raccolse, in effetti, quello che seminò; la sua strategia di sostegno attivo alla creazione delle « self-contented classes », coccolate dal neoliberalismo a scapito delle più larghe stratte popolari, è ancora amplificata da una democrazia interna di partito e da un sistema elettorale obsoleti se non realmente fraudolenti. Perciò non poteva produrre altro che un tasso di partecipazione non molto più elevato da quello usuale nei Stati Uniti d’America. Antony Blair disporrà dunque di una ampia maggioranza di 167 seggi con solo 42 % dei voti espressi, i quali rappresentano solo il 59 % di tutti gli elettori potenziali. Perciò, il blairismo continuerà il suo scardinamento, autorizzandosi pero a dare lezioni sulla questione del avvenire del « socialismo », grazie ad una maggioranza westminsteriana immeritata perché partorita da un tasso di partecipazione vergognoso, in un paese che si vanta di avere inventato il parlamentarismo moderno!

Si può dunque concludere che le necessità minime di legittimazione del capitale contemporaneo inducono la preferenza ed il finanziamento per un partito – conservatore o sociale-democratico – capace di difendere i diritti esclusivi della proprietà privata. Questa difesa viene articolata come un saggio ed equo equilibrio sociale. (Mentre si metteva da parte la Clausola IV, relativa al ruolo interno dei rappresentanti dei sindacati, vero cuore dell’ideologia del Labour party, si ci gargarizzava con la « social justice » secondo Giddens, Rawls et al.)

Certi si ricorderanno dell’espressione di Paul Verlaine secondo il quale conviene sempre essere equilibrati ma non a pancia sotto (« d’équilibre mais non pas de niveau »). La sinistra autentica ci verrà immediatamente il vasto campo d’azione aperto davanti ai suoi occhi per la sua alternativa rivoluzionaria democratica, appunto quella che gli epigoni delle terze vie cercano frettolosamente abbandonare.

Riforma e rivoluzione.

Il modo di produzione capitalista può decomporsi in un modo di produzione immediato (Pi) caratterizzato da un contratto di lavoro formalmente libero, ed un modo di riproduzione (RS-RA, cioè Riproduzione Semplice e Allargata). Similarmente, il modo di dominazione politico che gli corrisponde punto per punto chiama in causa tanto il codice del lavoro quanto le leggi che concernano la regolazione economica e la ridistribuzione sociale, ai livelli nazionali e internazionali.

Come sanno d’istinto tutti i sindacalisti, le forme di egemonia della borghesia e/o quelle di contro-egemonia delle classi lavoratrici sono iscritte in tutta la lunghezza della catena, dai contratti collettivi – o la loro assenza – fine all’insieme dei diritti socio-politici. E proprio questa realtà, tante volte enunciata dai rappresentanti delle classi lavoratrici e magnificamente ripresa da Antonio Gramsci, a costituire la confutazione definitiva delle tesi di Edoardo Bernstein e dei susseguenti Rawls, Giddens and Co. Per questi ultimi l’emergenza dei parlamenti poteva pretendere offrire una rappresentanza al popolo intero, occultando così l’aspetto di classe rannicchiato dentro questa democrazia borghese sempre caratterizzata da forme più o meno pronunciate di « uguaglianza censitaria ».

Un rinnegato come Kautsky potrà presentare uno tale Stato come uno Stato patriotico dello popolo intero. I marxisti autentici ci hanno sempre visto più chiaro. Ad esempio già Marx nel suo geniale opuscolo intitolato Le lotte di classe in Francia e poi Rosa Luxemburg quando salutò le lotte degli operai belgi nel 1891 e 1893 per conquistare il suffragio universale. Cioè, la prima grande conquista popolare democratica. Era solo una tappa, certo positiva e necessaria, ma incapace di trasformare da sola il modo di produzione sotto-giacente con la sua egemonia politica. Nel suo 18 brumaire, Marx evidenziò la deriva cesarista del suffragio universale quando cerca di restringere il controllo democratico popolare all’unica sfera parlamentare.

In seguito, ci fu l’esperienza del governo di coalizione e la tanto discussa partecipazione di Millerand. Rosa Luxemburg e tanti altri, non ebbero nessuna difficoltà per dimostrare che una tale transizione politicante, pronte ad ogni compromesso proprio al livello del modo di produzione, portava la classe operaia a durissime sconfitte. (1) Per sfortuna, lo stesso rimprovero sarà mosso contro Jaurès, il quale Jules Guesde chiamava purtroppo con ammirazione « ce diable d’homme ».

Si nutrirà così a sinistra una grande confusione, confusione ancora aggravata con la vittoria della rivoluzione bolscevica. Con il suo naturale effetto trascinante, questa contribuì ad occultare la via delle riforme rivoluzionarie democratiche, privilegiando l’opposizione duale tra riforma e rivoluzione. Cioè, da un lato tra la via bernsteiniana sociale-democratica sempre più sviata, proprio quella che portò un Hilferding, un tempo teorico brillante, a stupirsi quando i sbirri di Hitler vennero prelevarlo a casa, e dall’altro lato la via bolscevica intesa a spaccare l’Apparato di Stato borghese per sostituirli gli apparati necessari alla dittatura del proletariato.

Questa cancellazione di un termine del dibattito divenne subito una alternativa politica reale, benché oggi sia più praticabile che mai. Cioè quella delle riforme democratiche rivoluzionarie fondate sull’intima corrispondenza tra sfera politica e sfera economica, alla luce di quanto fu sottolineato qui sopra.

Lenin e i bolscevichi non sono colpevoli di questa confusione: Nel suo Stato e rivoluzione, Lenin si concentrava sui problemi specifici all’anello debole dell’imperialismo quale era la Russia all’epoca, ma non senza ammettere l’alternativa positiva possibile tra riforme rivoluzionarie e rivoluzione. Lenin denunciava pero le riforme sociale-democratiche apertamente rinnegate (sorta di anticipazione di Blair ?). Lenin non ignorava i dibatti del suo tempo ed in particolare quello che animava i fautori dell’anarco-sindacalismo come Fernand Pelloutier, oppure i sostenitori dei partiti di sinistra tali Jean Jaurès e Jules Guesde.

Dopo la sanguinosa repressione della Commune de Paris nel 1871 tutti dovettero fare i conti con un problema che metteva in causa direttamente l’autonomia sindacale e l’unità delle forze socialiste. Si poteva ricercare la partecipazione, affiancare la proprietà pubblica e collettiva sperando conquistare lo Stato, oppure si doveva distruggere lo Stato borghese ? Purtroppo, malgrado le distinzioni le più aspramente vissute, tutti questi erano d’accordo per dissociarsi da una sociale-democrazia servile ma idonea a condannare il mondo operaio e le forze della « Sociale » ad un incessante lavoro di Sisifo inquadrato da un ferreo riformismo legalista borghese.

Rosa Luxemburg non ci colpa neanche. Di fatti, aveva preso la difesa della rivoluzione bolscevica, elaborando simultaneamente una apologia elaboratissima della via delle riforme rivoluzionarie secondo lei più adeguate al livello di sviluppo politico, sindacale e culturale del proletariato occidentale.

Lo sciopero generale, visto come mobilizzazione pedagogica oppure come preparazione di una situazione insurrezionale, si iscrive in questa via come una possibilità, ma mai come una panacea con un script già ben rodato.

Di conseguenza, importa oggi riappropriarsi questa alternativa democratica rivoluzionaria e porre chiaramente la questione: Che tipo di transizione desideriamo? La risposta è già contenuta nella tesi, cioè, ogni trasformazione autentica, anche se a prima vista minima, deve rispettare ad ogni livello e istanza, le corrispondenze tra sfera politica e sfera economica, vegliando ad un suo rigoroso inserimento nelle leggi della Repubblica. L’assenza di una tale corrispondenza aprirebbe la possibilità strutturale e legale di una marcia indietro consecutiva, nel migliore dei casi, alla caduta del governo, ma, a volte, anche per decisione di un governo nominalmente di sinistra.

In tal caso, la sinistra viene nuovamente confrontata alla dura realtà secondo la quale il potere della borghesia va ben oltre il semplice esercizio del potere legislativo da parte di un specifico governo. In effetti, coinvolge la totalità degli apparati politici e produttivi, come pure il buon senso in vigore, il quale ne detta la comprensione aiutando così a legittimarne la perpetuazione. Da sola la regolamentazione del mercato non garantisce l’inquadramento del potere discrezionale del padronato sui processi di lavoro e di produzione. Per raggiungere un tale obbiettivo, le leggi debbono permettere l’affermazione di una pluralità di forme di proprietà dei mezzi di produzione sempre più ancorata sul settore pubblico e cooperativo e sulla cultura associativa che va di pari passo.

Per contro l’esistenza di una tale corrispondenza sistematica costituisce il migliore baluardo contro ogni ulteriore regressione, sopratutto quando risulta fortemente inserita nel funzionamento globale del sistema. Se per caso riesce ad essere costituzionalizzata, allora non dipenderà più da una maggioranza parlamentare congiunturale o da una opposizione sufficientemente minacciosa. Quest’ultima è comunque soggetta ad un sistema elettorale « democraticamente fraudolente », del quale il sistema canadese uninominale maggioritario ad un turno ne costituisce uno dei peggiori esemplari. Basta paragonare il valore delle garanzie costituzionali nel caso della laicità in Italia oppure della parità in Francia con la loro assenza nelle nazionalizzazioni socialiste poi rovesciate dal governo di destra di J. Chirac.

Riforme rivoluzionarie e Legge di modernizzazione sociale.

In tanto preme sapere di che tipo di corrispondenze si parla per potere giudicare della loro giustezza e della loro solidità. La legge di modernizzazione sociale permette affrontare questo problema in un caso specifico.

La questione diventa: E possibile enunciare puramente e semplicemente sul piano giuridico l’interdizione dei « licenziamenti borsistici » in una economia mista, caratterizzata da una certa importanza riconosciuta alle imprese pubbliche, ma ancora nettamente dominata dal settore privato nel quadro di una costituzione liberale? E, per di più, nel quadro di una costituzione liberale iscritta dentro le costringenti normative della Unione Europea, come pure d’entro quelle emananti da una economia aperta inserita in una economia mondiale ogni giorno più globalizzata ? Tentare di farlo immediatamente senza prima riequilibrare le forme di proprietà può o meno portare inutilmente a spaccare la « gauche plurielle »? Cioè, portandola a posizioni contro-produttive per un elettorato che forse incoscientemente ne risentirà comunque le contraddizioni nelle sue forme reali di esistenza e dunque nella sua possibilità di esprimere una solidarietà ampia o ristretta, generosa o naturalmente difensiva.

Senza dovere necessariamente ottenere subito tutte le apparenze legali, sarebbe possibile al contrario ottenere l’essenziale sul principio e la direzione delle riforme ? Ben inteso, senza smettere di utilizzare i mezzi oggi disponibili per proteggere al massimo la base dagli effetti debilitanti prevedibili – chiusure di imprese e piani sociali. Questi sono scaturiti dalla contraddizione che oppone i problemi legati ai licenziamenti, brutalmente iscritti nel presente, e le soluzioni permanenti, certo autentiche, ma non di meno necessariamente scaglionate nella durata della transizione ?

Considerando solo l’essenziale vediamo gli aspetti maggiori di questa legge di modernizzazione sociale tale che apparivano in seconda lettura. Il ministro Madame Guigou sottolineò i dati costituzionali essenziali; essi affermano tanto la protezione delle imprese private quanto i diritti del mondo del lavoro. Ricordando che la riconciliazione dei diritti costituzionali appartiene normalmente alle corte, la legge richiamò pure i precedenti in materia di licenziamento arbitrario, i quali costituivano già una sorte di inquadrature delle procedure di licenziamento. Affermò l’opposizione del governo alle pensioni delle imprese – loi Thomas – e il suo appoggio al principio detto della « Samaritaine ». A monte dei licenziamenti, rafforzò il diritto all’informazione ed alla trasparenza assieme ai comitati di imprese. A valle dei licenziamenti abbordò il problema delle ristrutturazioni ed il « rilevare » delle imprese, chiamando in causa con giudizio i consigli regionali per certi aspetti relativi alla gestione della mano-d’opera implicata e alla gestione dei bacini di personale disponibili.

Nell’ottica delle riforme rivoluzionarie delle quali abbiamo parlato, risale che in mancanza della possibilità di rimettere frontalmente in causa la libertà di impresa – per quello che ci riguarda qui, il diritto di licenziamento e di chiusura – si potrebbe non di mono sperare modificarne certi parametri. Ad esempio, col ricorso alla regolamentazione economica prima e forse domani grazie alla possibilità di cambiare la forma di proprietà privata e dunque la forma di esercizio del potere decisionale discrezionale del padronato e dei dirigenti delle imprese meno cittadine, tramite l’intervento dei Fondi operai. Nello stato attuale della proposizione di legge, le questioni e i discordi riguardano sopratutto gli interventi a monte dei licenziamenti.

Altri più informati di me e più al corrente del funzionamento del sistema potranno immaginare le correzioni suscettibili di costituire delle riforme rivoluzionarie, anche se per ora modeste, cercando pero di ricucire l’unità tra la « gauche plurielle » e la sua base, in uno spirito di difesa del bilancio comune e delle riforme progettate per un secondo mandato. Per parte mia, considererei come una vittoria della sinistra intera, la possibilità legale per i comitati di imprese di richiedere la partecipazione del Commissariato della Pianificazione. Chi meglio del Commissariato conosce in dettaglio la situazione delle industrie e dei settori economici come pure delle ristrutturazioni necessarie al mantenimento della competitività nazionale ed alla preservazione degli impieghi ?

Il Commissariato avrebbe prima un ruolo di conciliazione e di persuasione – con gli aiuti pertinenti – e secondariamente la possibilità di inglobare il ruolo di arbitro con l’accordo delle parti salariale e padronale. Questo porterebbe certamente alla creazione di un ufficio specializzato all’interno dell’organo di pianificazione per tenere conto della necessaria divisione del lavoro. In oltre, nel quadro del Commissariato le forze sociali – sindacati, Stato, padronato – goderebbero di una rappresentanza paritaria. Il Commissariato della Pianificazione dispone dei dati relativi alle sovvenzioni già conferite. In caso di chiusura dovuta alla delocalizzazione, una parte potrebbe eventualmente essere restituita oppure prelevata dalle vendite avvenute sui territori nazionale e europeo.

In relazione con il ministero delle finanze e dell’economia, può anche sottolineare la migliore utilizzazione possibile delle future sovvenzioni e suggerire le ristrutturazioni oppure il « rilevare » delle imprese più pertinenti. Queste sovvenzioni legate al mantenimento dell’impiego ed alla ristrutturazione/modernizzazione delle imprese sarebbero probabilmente inattaccabili al livello europeo. In oltre, in questa maniera, sarebbe possibile conciliare le rivendicazioni della base con i pre-requisiti di una economia di mercato regolamentata. Similarmente sarebbe possibile riconciliare la « gauche plurielle » con la sua frazione non-governamentale costituita da Lutte ouvrière e da LCR. I contributi di queste organizzazioni alla teoria ed alla pratica contemporanee delle riforme rivoluzionarie sarebbero auspicabili dato il loro lungo ed autentico militantismo, anche perché la loro partecipazione futura alla « gauche plurielle » governamentale diventerebbe inevitabile nel momento in cui il principio di questa ottica riformatrice rivoluzionaria sarebbe diventate comune.

In effetti, i comunisti e la base potrebbero solo felicitarsi per il ruolo crescente conferito alla Pianificazione. Meglio ancora, tutte le tendenze comuniste PCF, LO, LCR ecc., potrebbero iniziare un processo comune per determinare quello che li contraddistingue e quello che gli accomuna, in modo da vietare false opposizioni e preparasi in un futuro immediato a formare una federazione di tutte le forze comuniste centrata su questo concetto di riforme democratiche rivoluzionarie. Si metterebbe in opera una democrazia interna rinnovata, informata dalle ricche esperienze del passato e quelle dei membri e militanti contemporanei. Sinceramente, il PCF attuale non può essere simultaneamente accusato di volere cooptare le manifestazioni e di non supportarle con determinazione!

Aggiungiamo che nel momento in cui una riforma autentica include in modo coerente gli aspetti politici ed economici a monte e a valle di una contraddizione reale da risolvere, le altre misure pertinenti, in essa comprese, ne escono rafforzate. Ne andrebbe così dei precedenti giuridici oggetto della proposta di legge sulla modernizzazione sociale, come pure degli aspetti innovativi tali quelli relativi all’assillo morale. In effetti, il testo di legge potrebbe ricercare i mezzi per rafforzare queste misure parallele – giuridiche e amministrative – raccogliendo espressamente le esperienze pertinenti e inserendole nella logica desiderata dalla nuova legge.

Non si può fare astrazione del fatto che certi « licenziamenti » faranno sempre parte dell’utilizzazione razionale dell’economia qualche sia il modo di produzione, nel momento in cui adotta una logica della razionalità economica che mette in causa l’emulazione oppure la concorrenze tra imprese del stesso tipo per stimolare la loro produttività. Questo risulta ovviamente più vero ancora in un sistema a dominanza capitalista. La vera questione rimane: sarà il padronato a conservare solo il dominio dell’utilizzo della forza di lavoro, con il suo controllo assoluto dei mezzi di produzione e del processo di produzione immediato, oppure sarà esso portato a condividere questa dominazione tramite forme di proprietà miste e mezzi adeguati di regolamentazione economica ?

Oggi, questa domanda deve essere formulata tenendo conto dei vincoli esterni reali ai livelli europeo e mondiale. Dato che la società non si è ancora dotata di mezzi pesanti di intervento in nome del proletariato, tali i Fondi operai gestiti dal proletariato stesso, anche i licenziamenti borsistici debbono essere trattati secondo la logica più ampia allusa qui sopra: sottomettere oggi l’uso arbitrario della forza del lavoro ad un intervento di controllo del Commissariato della Pianificazione costituirebbe un progresso innegabile. Questo rappresenterebbe una pratica avanzata del modo di regolamentazione economica capace di portare a medio e lungo termine a dei cambiamenti sottili nella forma attuale della proprietà privata. Certo non sarebbe ancora cooperativa o socialista, come può essere il caso con le imprese statali, ma non di meno segnalerebbe il declino definitivo del potere arbitrario del padronato e del management.

Ben inteso l’obbiettivo centrato rimane il superamento della dominazione della proprietà dei mezzi di produzione in una Formazione sociale caratterizzata da una pluralità di modi sotto dominio del settore sociale, cooperativo e pubblico. Oltre i Fondi operai la transizione verso una tale Formazione sociale democratica avanzata dovrebbe riposare su regole europee ed internazionali adeguate. Ad esempio, l’armonizzazione fiscale europea, venalmente combattuta da Blair, ma concepita nell’ottica dell’Europa sociale. Oppure se non si può opporre le Soglie Tobin – descritte in Tous ensemble – alla speculazione, almeno la costituzione di una banda di fluttuazione delle monete principali – euro, dollaro, yen, renminbi. Questa proposta fu avanzata giudiziosamente da Oscar Lafontaine per contrastare le inutili devastazioni causate dai privilegi regaliani (sovrani) immeritati ma ancora detenuti dal dollaro americano. Questa politica del dollaro forte va di pari passo con i disequilibri crescenti di tutti i parametri fondamentali dell’economia americana, in modo che questa politica eccessivamente unilaterale continuerà a penalizzare tutte le altre nazioni che utilizzano il dollaro come principale valuta di riserva.

Nell’immediato, in assenza di un consenso europeo chiaro sulle questioni di fondo necessarie per la costituzione di una Europa sociale, importa sapere apprezzare il valore della minima riforma capace di attualizzare un qualche sia potenziale di riforma democratica rivoluzionaria. Questo con la consapevolezza di doverla operazionalizzare a tutti i livelli di espressione necessari alla sua effettiva realizzazione, livelli economici, giudiziari, culturali ecc. …

Così facendo, se non si sgancerà certo un capovolgimento rivoluzionario, le sue ripercussioni provocheranno una lente accumulazione di cambiamenti profondi. Questi porteranno al compimento del vecchio sogno di tutti gli autentici progressisti, cioè « conquistare e rompere lo Stato borghese » per sostituirli uno Stato sempre più sensibile alle volontà ed ai bisogni del popolo e dei cittadini. La via del riformismo democratico rivoluzionario è una via che condanna senza mezza misura le elusioni dei vari Bernstein, Rawls, Giddens, Blair and Cie. Essa ripropone, nel contesto di una società democratica avanzata, uno compito rivoluzionario mai rinnegato da Lenin, Trostkij e neppure da Jaurès, Guesde o Emile Pacault. Una volta sgomberata la falsa opposizione tra riforma e rivoluzione, diventa evidente che il contributo di tutte/i le militante e militanti forma la limpida fonte di tutte le forze capaci di concepire e di mettere in pratica questo superamento oggi più urgente che mai.

A proposito dello sciopero generale.

Lasceremo da parte Georges Sorel con i suoi miti barcollanti. Ma come concepire lo strumento dello sciopero generale nel contesto contemporaneo ? Supponendo che uno sciopero generale che coinvolge la maggioranza dei salariati fosse oggi possibile organizzare, quale obbiettivo potrebbe porsi senza diventare contro-produttivo ? Il governo Jospin non è un governo Prodi né un governo D’Alema: di fronte al pronunciato scatenamento del neoliberalismo ed alle inettitudini degli epigoni di una cosiddetta New Economy esenta, non si saprebbe dire per quale miracolo, dalle vicissitudini dei cicli economici, il governo della « gauche plurielle » in Francia ha saputo dare, fin qui, una risposta decisiva e misurata: le 35 ore settimanali e la spartizione del lavoro assieme alla parità di genere ne costituiscono i simboli fari.

Questi rappresentano una svolta, almeno concettuale, per l’insieme della sinistra. Di fronte a tale bilancio, uno sciopero generale sulla proposta di legge di modernizzazione sociale non avrebbe un obbiettivo insurrezionale. Cercherebbe invece di provocare la mobilizzazione delle forze lavorative col scopo di influenzare il processo legislativo relativo a questa legge. Ogni sciopero o mobilizzazione riusciti dei lavoratori contiene un aspetto pedagogico suscettibile di influire sugli atteggiamenti dei dirigenti sindacali e politici, come pure della base popolare. Ecco perché, di fronte al governo della « gauche plurielle », questi scioperi devono essere costruttivi, in modo che dovranno essere inseriti nella logica comune del processo legislativo ancora aperto agli ammendamenti. Queste proposte saranno rigettate dalla componente maggioritaria del governo se si attaccano frontalmente ai privilegi della proprietà privata, per altro garantiti dalla Costituzione e della sua prevalenza sulle leggi ordinarie.

Si tratta qui di realismo politico. Perché rischiare una legge che partorirebbe forti dissensi sapendo in anticipo che sarà invalidata dal Consiglio costituzionale ? E come pensare ad una modifica costituzionale su una tale questione ad un anno delle elezioni presidenziali e legislative ? Per contro, non è sicuro che questa maggioranza sarebbe così restia inverso ammendamenti per ora moderati ma iscritti nella buona direzione, quella delle riforme rivoluzionarie. Dopo le elezioni legislative, una « gauche plurielle » unita e ricondotta al governo potrà ancora approfittare delle opportunità presentate dalla realtà concreta per consolidare ed estendere queste conquiste vitali. Altrimenti lo sciopero generale ammonterà a privilegiare il posizionamento elettoralistico dei partiti contro le rivendicazioni realmente realizzabili e, di conseguenza, a scapito degli interessi vitali del proletariato e del popolo. (Nota aggiuntiva: ovviamente si suppone qui una fiducia diffusa sull’ugualitarismo repubblicano della direzione politica … Ripeto: Jospin non era né Prodi né D’Alema.)

Non è tutto, potrebbe essere peggio. Una mobilizzazione generale ben intenzionata, mirata ad obbiettivi inaccessibili nelle attuali circostanze, si esporrebbe a produrre il contrario dei suoi obbiettivi dichiarati, portando alla divisione della sinistra. Ne seguirebbe anche la desolidarizzazione di larghe stratte sindacali con questi obbiettivi nel momento in cui questi sarebbero percepiti come penalizzandoli inutilmente tanto quando il patronato e lo Stato padrone in una lotta persa sin dall’inizio. In realtà, ogni sciopero generale che non cerca di creare uno stato insurrezionale, cosa oggi impensabile, costituisce una grave sconfitta quando lo spirito di solidarietà inter-categorie non ne esce rafforzato. E innegabile che anche i più belli slogan della lotta di classe non valgono la loro reinvenzione concreta secondo le esigenze delineate dalla realtà attuale.

All’inizio, lo Stato di classe della borghesia riposava su una teoria liberale che andava di pari passo con un sistema liberale censitario. I fondamenti di un tale Stato imponevano una lotta di classe molto diversa di quella che prevalerà dopo l’emergenza dello Stato sociale o Welfare State. Sopratutto dopo la vittoria sovietica sul nazifascismo e la costruzione di uno Stato sociale nato dalla Resistenza come un compromesso che fu ancora rinforzato dal bipolarismo scaturito dalla Conferenza di Yalta e dall’inizio della guerra fredda (1946). Lo Stato sociale occidentale fu concepito dalle borghesie occidentali come una seria di concessioni necessarie per impedire l’ineluttabile avanzata del comunismo verso Ovest.

Con lo Stato liberale classico, la lotta di classe mirava ad organizzare un proletariato industriale il quale, assieme ai contadini poveri o poco agiati, costituiva la maggioranza della popolazione lavorativa. In tali circostanze, lo sciopero generale, oltre a permettere lo sviluppo della coscienza politica di queste classi, particolarmente del proletariato industriale, aveva il potenziale di paralizzare interamente il funzionamento dello Stato borghese. In questo modo era in grado di forzarlo a fare concessioni economiche, sindacali e politiche che altrimenti non avrebbe mai concesso. Queste non potevano comunque essere vinte per via parlamentare dato il debole stato della democrazia reale tanto per quello che riguardava la franchigia elettorale quanto il funzionamento dei Parlamenti e delle altre istanze di democrazia industriale e sociale o culturale, senza nemmeno parlare del contenuto di classe delle Costituzioni nazionali allora vigenti.

Da qui il potenziale insurrezionale che l’avanguardia del proletariato non disdegnava considerare (es. F. Pelloutier e gli anarco-sindacalisti, poi i Spartakisti ). In effetti, la borghesia nazionale non aveva nessuna altra scelta se non di negoziare in posizione di forza sulle proprie basi, oppure rischiare una confrontazione violente facendo uso del suo monopolio legale della forza legittima. In 1936, la borghesia francese indebolita dalla presenza del Fronte nazionale al governo capace di rappresentare alcune domande della base, preferirà arrivare a patti con gli accordi di Matignon ma arrangiandosi per diminuire subito dopo gli aumenti salariali accordati facendo ricorso all’inflazione.

A volte questa situazione insurrezionale non porta i suoi frutti per causa della mancanza di determinazione dei rappresentanti politici. Questi per varie ragioni rifiutano assumere il loro ruolo (ad esempio, il 1968 francese e la Primavera di Praga furono le ultime mobilizzazioni di questo genere, ambedue andarono incontro alla necessità mal valutata dalle avanguardie di gestire le condizioni sistemiche imposte dal bipolarismo internazionale aggravato dalla guerra fredda. Nonostante rimangono di un grande interesse dato che entrambi arrivano per così dire con ritardo ma raccogliono comunque le solidarietà ereditate dal passato e dunque sono capaci di trasformare la coscienza operaia in una forza materiale obbiettiva. Malgrado la loro sconfitta, sapranno dunque proiettare i loro sogni di valorizzazione autenticamente umana opposta a delle gerarchie esogene verso l’avvenir. Lascio cui da parte l’aspetto di classe borghese o no del sistema cecoslovacco dell’epoca, dato che i suoi migliori dirigenti, in accordo con la base, ne volevano riformare in senso rivoluzionario il modo operativo dominante giudicato fuori luogo per un autentico socialismo a viso umano. (2)

Con l’emergenza dello Stato sociale – Welfare State – sopratutto dopo la seconda guerra mondiale, la struttura delle forze produttive e quella del mondo del lavoro subiranno una drammatica evoluzione. Per semplificare, la dominazione numerica del proletariato industriale verrà lentamente sgretolata con l’irruzione dei « colli bianchi » (una volta cari al sociologo Wright Mills) e dei lavoratori impiegati nei settori dei servizi. Benché questi siano troppo spesso confusi con le vecchie classe medie impiegate sopratutto nella pubblica amministrazione oppure nelle funzioni amministrative delle grande imprese, in particolare le imprese multinazionali.

Questa distinzione tra lavoratori era in effetti molto artificiale per tutte le categorie che non appartenevano ai quadri. Questa evidenza fu dimostrata dalla loro sindacalizzazione successiva quando furono finalmente revocate le leggi che impedivano tale sindacalizzazione. Queste erano state coscientemente mantenute fin li per volontà dei padroni e dello Stato-padrone. A queste modifiche relative alla struttura della forza del lavoro, lo Stato sociale aggiungerà altri elementi necessari al mantenimento della coerenza di questa nuova epoca del capitalismo: pianificazione contro-ciclica keynesiana – spesso nella sua variante di keynesianismo militare –, programmi sociali ecc … e, sopratutto, dal punto di vista che ci concerna qui, la nazionalizzazione di certi settori di produzione strategica tramite la creazione di imprese pubbliche – i.e., statali. Questa logica investirà poco a poco tutte le sfere della vita economica, sociale e culturale, creando così una società della proprietà mista sotto dominanza borghese.

Per essere ancora più chiari, sottolineiamo il fatto che durante la prima guerra mondiale fu adoperata la prima esperienza di pianificazione e di mobilizzazione delle risorse nazionali sotto il controllo delle borghesie nazionali. Questa mobilizzazione economica concerneva solo attorno a 10 % delle attività delle nazioni necessarie per sostenere lo sforzo di guerra, almeno per l’America del Nord. Si tratta dunque di attività di vitale importanza. Dato la complessificazione del sistema di produzione industriale, durante la seconda guerra mondiale questa mobilizzazione concernerà oltre i due terzi delle attività. La crescita di questa complissificazione continuerà trattandosi di un processo naturale sostenuto in seguito dalle amministrazioni nate con lo Stato sociale sviluppato dalle borghesie occidentali.

Nel contesto di questa società di ridistribuzione borghese, sostenuta da forme di proprietà miste – pubbliche e private –, lo sciopero generale rischia perennemente di andare incontro ad un scoglio micidiale: quello di penalizzare lo Stato – dunque via la ridistribuzione, le classi le più vulnerabili. Esse dipendono unicamente o parzialmente di questa ridistribuzione e, di conseguenza, sono più soggette a manipolazioni di ogni sorte mirate a creare divisione all’interno del proletariato. Invece ne esce meno penalizzato il padronato perché gode ormai dei vantaggi conferiti dalla multi-nazionalizzazione delle sue forze produttive. Lo sciopero generale può allora facilmente diventare catastrofico per la classe operaia dato che risulta essere una forma di lotta inadeguata nella sua forma classica ormai superata dall’evoluzione del modo di produzione e dalla sua forma epocale.

Un’occhiata anche sommaria alle esperienze del 1936, 1968, 1995 e 1996 in Francia mostra come certi scioperi, sostenuti ampiamente da tutti i lavoratori e dalla popolazione in generale, con la loro partecipazione diretta o meno, possono raggiungere i stessi obbiettivi dei scioperi generali classici, nel momento in cui dimostrano una buona comprensione di questo rischio di penalizzazione inerente alla struttura dello Stato sociale. Questa problematica che va ben oltre quella dei servizi detti « essenziali ». Per le stesse ragioni, i lavoratori italiani durante gli anni 60/70 inventarono i scioperi a singhiozzi sperimentando pure scioperi dimostratevi di 24 ore e scioperi rotativi. Senza escludere i scioperi – a volte « selvaggi » – di solo qualche ore con l’insieme della cassetta degli attrezzi sviluppata dai lavoratori, incluso i scioperi bianchi ed i scioperi a braccia incrociate.

Nel 1968 in Francia, lo sciopero divenne generale con la pressione esercitata dalla base, forzando così la mano delle organizzazioni sindacali, incluse quelle più legate agli interessi della classe operaia in quanto tale. Ma non trovò nessuno sbocco politico dato che i loro rappresentanti politici non pensarono potere tirare vantaggi duraturi dalla sua trasformazione in insurrezione aperta. Per contro, nel 1995-1996, un sciopero inizialmente settoriale, ma sganciato in un settore strategico da lavoratori perfettamente coscienti del loro sfruttamento esagerato, come pure della loro propria forza, dimostrò subito la sua capacità di paralizzare il trasporto a gomma ed, in effetti, se necessario tutto l’apparato produttivo nazionale.

Questo permetteva di raggiungere settorialmente la maggiore parte degli obbiettivi una volta raggiunti da un sciopero generale classico coronato da successo. Questo senza rischiare di erodere la coesione delle forze sociali finché l’uso intelligente dei blocchi stradali filtranti permisero di mantenere la pressione senza mettere in causa irrimediabilmente la produzione nazionale oppure la solidarietà interprofessionale. Questo fece si che la stragrande maggioranza della popolazione si identificò con entusiasma ai scioperanti.

Questa è la grande lezione data dai camionisti francesi e dai loro rappresentanti sindacali e politici. Il loro slogan « tous ensemble », emerso dalla base e subito adottato unanimemente come simbolo delle lotte future, esprime una reale novità perché raccoglie spontaneamente, in una situazione nuova, le migliori lezioni del passato. Fu grazie a questa atmosfera di festa ed al mantenimento di questa spettacolare solidarietà, che andava oltre ogni clivaggio di mestiere o di settore, che il governo socialista potrà in seguito mettere avanti il suo progetto più avanzato, cioè quello della spartizione del tempo di lavoro.

Visto dall’altra parte dell’Atlantico questo progetto apparì subito per quello che era, cioè uno cambiamento di rotta non equivoco contro la logica dominante del capitalismo neoliberale. Rappresentò la prima manifestazione avvenuta dopo la rivoluzione monetarista di Volker-Reagan e dei suoi avatari esagonali del 1983. Con essa i lavoratori si istituivano ancora una volta come soggetti storici a parte intera, capaci di inventare una nuova forma di transizione. Basta per rendersene conto paragonare le 35 ore settimanali, la difesa di una Europa sociale e, sul piano internazionale, principi come quello di precauzione, con la legislazione del governo Harris dell’Ontario e la sua regressiva introduzione delle 60 ore. Questa fu accompagnata da misure reazionarie sulle ore supplementari e i diritti dei sindacati -, per colmo con il giogo distruttore del NFTA – e prossimamente del ZLEA – e con le posizioni canadesi americofile e suicidare nelle negoziazioni all’interno dell’OMC. Si può ancora paragonare con il programma del presidente Bush, cioè il neoliberalismo più spietato con la riduzione delle tasse a favore dei più ricchi, la multiconfessionalità come modo per sostituire l’assicurazione o previdenza sociale concepita come diritto cittadino, con l’assistenza sociale relegata come tempo fa agli organismi privati di carità, la privatizzazione della scuola pubblica, gli attacchi aperti contro la laicità ecc, ecc., …

Lo spirito di questa solidarietà operando in favore di una più grande giustizia sociale e per l’istituzione di una nuova epoca repubblicana di ridistribuzione delle ricchezze nazionali, non è ancora spento dato che le azioni messe in campo sin da quell’epoca hanno sempre saputo fare la differenza tra penalizzare il patronato oppure lo Stato in quanto Stato-padrone o penalizzare inutilmente la popolazione intera, oppure il livello di supporto della « gauche plurielle ». In questo modo, le azioni sindacali, incluso quelle che a volta come si dice si deve sapere terminare in tempo, possono tutte essere inserite nella tendenza nuova di questa riforma democratica rivoluzionaria. Il suo movimento generale è necessariamente composto dal contributo di tutti i scioperi individuali e dalla solidarietà di tutta la popolazione.

In questo sapere fare dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali e politiche risiede la solida fondazione sulla quale regge l’unità delle forze progressiste nell’azione e la solidarietà più larga possibile. Volere rimettere in causa queste avanzate partorite dalle lotte concrete, in nome del ritorno a formule ben note ma superate, tale lo sciopero generale classico, denoterebbe una cecità o peggio ancora. Sopratutto quando viene esercitato contro un governo come quello della « gauche plurielle ». Per i seguaci della doxa, nessuna lettura seria degli autori classici che si sono espressi sulla questione, in primo luogo Rosa Luxemburg, permetterebbe fare l’economia di un tentativo serio di comprensione contemporaneo della questione a partir dei dati congiunturali e sistematici attuali. La purezza ideologica rileva dei fini collettivi e dei mezzi messi in campo per raggiungerli quando questi ultimi hanno superato i test della realtà concreta, tra i quali la necessaria ampia adesione dei militanti e della base. Ecco perché lo sforzo concettuale in questa direzione di tutti i militanti e militante rimane una necessità vitale della lotta.

Detto questo nessuno più del padronato ha una coscienza così chiara delle innovazioni tattiche e strategiche sviluppate dal proletariato e dalle sue organizzazioni, visto che ne subisce tanto la sorpresa quanto gli effetti. La sinistra avrebbe torto di sottovalutare questo fatto. L’utilizzazione fraudolente delle legittime rivendicazioni di certi camionisti cileni da parte della CIA e delle forza armate cilene puntava proprio sull’importanza strategica di questo settore per paralizzare e penalizzare economicamente il governo Allende, non essendo altrimenti capaci di ottenere la solidarietà della maggioranza dei Cileni.

La chiusura di LU-Danone, Marks &Spencer, AOM-Liberté, Bata ecc., … nel contesto attuale non sembra rispondere solamente all’imperativo dei « licenziamenti borsistici » e della difesa, a corto termine, degli interessi degli azionari, sembra invece calcolata per colpire l’anello debole del dispositivo – e delle speranze – contenuto nelle nuove leggi relative alle relazioni di lavoro. Si vuole mettere il governo della « gauche plurielle » brutalmente faccia a faccia con il vecchio dilemma della sinistra, cioè rispettare il legalismo borghese e accettare di smorzare le leggi, sopratutto quelle relative alle relazioni di lavoro pure deludendo la base, oppure scegliere di andare avanti col rischio di scontentare l’ala destra di questa sinistra, con la speranza di scontentare anche l’elettorato in generale?

Ecco perché è urgente ricorre a misure difensive e dissuasive adeguate ma astratte dal campo immediatamente politico, grazie al loro inserimento nella legge. L’applicazione amministrativa ne sarà allora automatica: in particolare, il rimborso degli aiuti pubblici ottenuti e forse anche una forma legale di boicotta parziale. Cioè in caso di chiusura borsistica o in caso di delocalizzazione ingiustificata, la percezione di una tassa percepita sull’importazione dei prodotti del gruppo in questione per compensare i danni provocati, in particolare quelli relativi ai salari dei lavoratori e le spese causate per assicurare la loro re-inserzione lavorativa o la loro formazione professionale.

In effetti, queste forme di ritorsione legalizzate e giudiziosamente mirate non sarebbero senza valore dissuasivo in caso di chiusura o di delocalizzazione ingiustificate, particolarmente per le imprese straniere. Permetterebbero facilitare le azioni destinate a rilevare le imprese con la percezione di queste multe e sopratutto grazie alla liberalizzazione momentanea di una parte dei mercati, così resi disponibili ai nuovi acquirenti.

Per sviluppare queste forme difensive in un senso favorevole al sostegno delle rivendicazioni generali dei lavoratori, ed al mantenimento della solidarietà malgrado le vicissitudini della lotta, conviene approfondire ancore la dialettica che alimenta la coscienza di classe in quanto classe piuttosto che in quanto categoria. Non possiamo illuderci. Sappiamo che la lotta sarà sempre più aspra quando toccherà di più vicino la proprietà privata ed il potere discrezionale del patronato all’interno dei processi di lavoro e di produzione. Certe sconfitte saranno inevitabili anche sotto un governo di « gauche plurielle » e sarebbe vano cercare di metterlo all’angolo inutilmente.

I licenziamenti in generale no spariranno interamente, passerà tempo per questo, siano loro causati dalla logica capitalista oppure, più generalmente, da quella derivante dalla necessità di adattarsi ai processi che hanno una spinta propria. Così le leggi nazionali, in particolare quelle che vanno nel senso dell’Europa sociale, adotteranno una posizione rigorosa sulla sussidiarietà, cercando di utilizzare tutte le aperture disponibili nella nomenclatura delle istituzioni europee per consolidare il progressi che vanno nel senso di riforme autentiche al livello comunitario. Dovrebbe essere il caso, ad esempio, per la difesa dei servici pubblici e della legittimità assoluta delle forme di proprietà pubblica nel senso di impresse statali o cooperative. Il ragionamento vale per l’OMC.

Per contro, può succedere che una legge riformista rivoluzionaria sdoganata dall’esame del Consiglio costituzionale sia nondimeno sconfitta per la sua mancanza di conformità con gli accordi internazionali esistenti – e sottomessi alla forte dominanza capitalista tanto al livello europeo quanto a quello dell’OMC. In questo caso, si ci dovrà accontentare temporaneamente della legge nazionale la più avanzata possibile, e mettere la priorità delle mobilitazioni e delle lotte sulla rimessa in causa di questi bloccaggi istituzionali endogeni ed esogeni. Conviene dunque sottolineare il lavoro compiuto da José Bové e i suoi compagni per avere aperto la strada in questo campo. La formazione di coalizioni pan-europee destinate a fare progredire i dossier relativi all’Europa sociale deve ugualmente essere ricercata ed incoraggiata. Questo è un campo di azione molto incoraggiante nel quale esercitare a fondo la pratica della lotta e delle alleanze di classe per conquistare nuovi diritti salvaguardando le conquiste popolari passate.

La sinistra e tutti quelli che lottano per una Europa realmente sociale, e per una OMC riformata, sono perfettamente coscienti dell’estrema abilità dimostrata dalla borghesia per riprendere a livelli censitari superiori, da essa interamente controllati, quello che fu costretta a cedere ai livelli nazionale o locale più soggetti alla volontà democratica delle cittadine e dei cittadini. Di conseguenza, finché il governo della « gauche plurielle » rimarrà un governo autenticamente di sinistra conviene, anche nell’avversità, vietare di sbagliarsi di avversari affine di conservare al governo la capacità di pesare efficacemente su queste istituzioni, per oro troppo esterne, ma al benefico dell’ « interesse generale» – nella sua accezione rousseauiana-marxista. (Nota aggiunta: in effetti, la più grande offensiva neoliberale globale a quell’epoca, l’AMI fu sconfitta quando il governo della « gauche plurielle » annunciò la sua volontà di non firmare, pure essendo in situazione di coabitazione con un presidente di destra.)

Riforme rivoluzionarie e pericolo di fare il letto del cesarismo.

Fu detto di Jean Jaurès che il sostegno che prestò alla formazione di un governo di coalizione poteva solo portare a delle terribili disillusioni e, in fine, a fare il letto del cesarismo. I più sottili ed i più onesti, ad esempio Rosa Luxemburg, capirono subito, molto prima del vertice di Basilea, che Jaurès era di una pasta molto diversa di un Millerand. In realtà, nessuno potrebbe mettere sul conto di Jaurès il disastroso capovolgimento « patriotico » del rinnegato Kautsky.

Oggi pero si può confortarsi altrimenti alla questione: Come si spiega, ad esempio, che la borghesia svedese, tutta impregnata di idee sociali-democratiche molto avanzate perché nate notabilmente dai lavori di Wicksell e di Myrdal, fu capace di sganciare una contro-offensiva devastatrice che distrusse il cuore delle riforme democratiche rivoluzionarie contenute nel Piano Meidner, cioè la costituzione di Fondi Operai? O ancora, perché il primo governo di François Mitterrand, capace di portare a termine la rivendicazione riformatrice più avanzata, comunque ancora accettabile all’epoca alla sociale-democrazia classica, cioè la nazionalizzazione di ampi settori strategici, finì cedendo ai suoi « notables » per adottare la politica del giunco con Delors e Mauroy solo con lo scopo di sopravvivere al dilagare della rivoluzione neo-conservatrice lanciata sin dal 1979/1981 da Thatcher, Volcker e Reagan ? (3)

Come si spiega che lo Stato sociale fu selvaggiamente rimesso in causa dalla borghesia svedese proprio nel momento in cui questo Stato sociale avrebbe potuto essere spinto verso uno Stato sociale molto avanzato per quello che riguarda la forma di ridistribuzione fermamente ancorata nell’estrazione della « sovrappiù sociale »? Questo poteva avvenire tramite le imprese pubbliche tradizionali e le imprese miste comprate in parte grazie ai Fondi Operai del Piano Meidner – nella sua prima stesura – e dunque grazie ad una regolamentazione economica molto più efficace. Dopo tutto le imprese private di spicchio in Svezia – cantieri navali, automobile – furono sempre le prime a beneficiare dal rafforzamento dello Stato sociale borghese: sostegno multiforme dello Stato tramite una sofisticata pianificazione, riciclaggio e formazione della mano-d’opera, e programmi sociali di ogni sorte, capaci di offrire una flessibilità massima alle imprese in tempi di necessarie ristrutturazioni richieste per difendere la posizione del Paese al livello internazionale. (4)

La risposta non è ovvia almeno finché la questione non viene riformulata con massima chiarezza. Siamo sempre nel cuore del problema: lo stesso che portò la destra in Francia a ri-privatizzare, cioè la questione della proprietà dei mezzi di produzione. In ambedue i casi, dopo una decina di anni sotto il nuovo regime – nazionalizzazione estensiva, e/o acquisto collettivo tramite i Fondi operai immaginati da Meidner – un punto di non-ritorno sarebbe stato raggiunto. Non godendo più del controllo dell’accumulazione del capitale, la borghesia non avrebbe più avuto i mezzi finanziari per ricomprare da sola le imprese più grandi – a parte accettando le svendite al beneficio del capitale straniero o la dilapidazione mafiosa dei beni nazionali à la Yeltsin/Gaïdar/Sachs.

In effetti a questo punto il capitalismo non sarebbe sparito all’interno della FS in questione, ma i suoi modi di estrazione della sovrappiù – assoluta, relativa e prima di tutto la produttività, cioè la forma di estrazione specifica del capitalismo – sarebbero stati sottomessi ad un modo nuovo, cioè quello dell’estrazione ed utilizzo collettivo della « sovrappiù sociale ». In effetti, la prima epoca suscettibile di essere contenuta da questo nuovo modo di estrazione comincia a manifestarsi timidamente già con le forme di ridistribuzione keynesiane o con quelle dello Stato sociale nato dall’alleanza anti-nazifascista, il suo orizzonte rimanendo sempre il precetto : « Da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo i suoi bisogni ».

Sarebbe da chiarire come questi padroni riuscirono, ancora una volta, a presentare i loro interessi particolari di classe come l’espressione dell’interesse generale ricorrendo ad una manovra egemonica che la sinistra sbaglierebbe di grosso sotto-stimare.

Si deve riconoscere che al fine di conservare la proprietà privata dei mezzi di produzione, tutte le riforme « democratiche capitaliste » debbono necessariamente distinguere tra la sfera politica da una parte e quella economica dall’altra. La sfera politica è lo spazio dei diritti democratici formali nel quale la trappola del suo legalismo liberale, tante volte denunciato dai riformatori rivoluzionari e dai rivoluzionari più lucidi – Rosa Luxemburg, Guesde e Jaurès, Lenin e tutti i bolscevichi, Mao, Gramsci ecc. – è sempre pronte a chiudersi. La sfera economica è quella della proprietà privata protetta da questo legalismo; questa, pure essendo lo spazio dello sfruttamento, cerca comunque di passare come lo spazio privilegiato della libertà umana, prova eccellente della sua dominazione. (5)

Questa dicotomia ontologica della democrazia borghese, presentata come una totalità armoniosa, si ritrova sotto una nuova forma epocale con il keynesianismo, militare o meno, tale che fu messo in opera nel dopo guerra: la contraddizione tra una micro-economia abbandonata a Pigou, Marshall ed altri e una macro-economia flirtando – grazie a Piero Sraffa – con i cicli marxisti M-P-M’ e A-P-A’ e conferendo allo Stato il compito di pianificare la Riproduzione Allargata tramite strumenti minimi, compatibili con la proprietà privata, notabilmente con l’adeguazione S=I. Lo Stato rimane dunque uno Stato saldamente borghese, il cui ruolo consiste nel sostegno della crescita delle imprese private grazie ai suoi interventi contro-ciclici sostenuti dalla rete dei programmi sociali creati.

Ben inteso, la vittoria del piano di H. White contro la proposta keynesiana a favore di una camera di compensazione internazionale portò alla formazione di un sistema monetario internazionale sotto dominanza americana già con la Conferenza di Savannah. Si aggiunse subito dopo il commercio internazionale con il vertice della Avana. Questo fu il verme nel frutto del keynesianismo nazionale, malgrado l’elaborazione di una crescita dinamica con Harrod e la presa in conto del carattere di economia aperta e necessariamente subordinata fuori dei Stati Uniti. L’apertura della FS al commercio capitalista mondiale distrusse l’operato del Moltiplicatore economico interno.

Purtroppo sin dall’inizio i critici più o meno ben intenzionati non tardarono a svelare altri problemi interni opponendo le necessità elettorali al tempo più lungo della logica contro-ciclica keynesiana. I sbagli ed i rinnegamenti causati da queste contraddizioni interne portarono fatalmente ad una bastardizzazione ancora più pronunciata di quella compiuta da Hicks, Samuelson ecc.. Questo diventò evidente quando un « eccentrico » (6) come Milton Friedman, iperventigliato dalla sua folle corsa sulle orme della « high-speed money », dichiarò che, in realtà, « oramai siamo tutti keynesiani ». Questo permise a Volcker/Reagan di esserlo effettivamente con la loro pratica di uno friedmanismo di apparenza ma fortemente tinto di keynesianismo militare. (Come si può vedere questo keynesianismo monetarista eccentrico di Friedman anticipa le derive concettuali di un Blair quando spiega la sua rielezione con il « coraggio » del Labour party « to change ourselve … to say to the people of this country, you have a political party that will run the economy, work with business, but still pursue the goal of social justice for all. (…) We can have a politics in which head and heart are married together, in which ambition and compassion lie easily with one another ».)

In realtà, la contraddizione interna iniziale del keynesianismo, in quanto sistemazione teorica multiforme dell’epoca dello Welfare State, porta al sbocciare di un fenomeno già notato sin dall’inizio da Max Weber, cioè la burocratizzazione ad oltranza della vita individuale e pubblica. Questo avviene in un sistema sotto dominio capitalista che resiste con tutte le sue forze alle esigenze popolari in favore della creazione di istanze di controllo democratico legate alla democrazia partecipativa concepita come complemento della democrazia rappresentativa. Queste istanze rivendicano la decentralizzazione amministrativa, la creazione di consigli di quartiere, la costituzione di autentici comitati di esame delle denunce dei cittadini e di uffici di Ombudsman tanto nelle organizzazioni pubbliche quanto private ecc … Questa resistenza alle domande della base sarà il tallone di Achille di tutti i tipi di Welfare state, americani, svedese ecc … e anche francese, se non fossero stato per gli antidoti ereditati dalla concezione repubblicana e partigiana di questo particolare Stato sociale.

Non si tratta qui soltanto della difficoltà per la società borghese al livello mondiale ed in particolare negli USA di abbandonare la sua concezione delle classi cosiddette pericolose e fannulloni. (7) Concezione ad essa sempre cara come ovvio dato che gli permette di accreditare l’idea secondo la quale, in un sistema di assistenza sociale oppure in un sistema più avanzato di assicurazione sociale (8), i servizi offerti non debbono subire nessun input e nessuno controllo democratico dagli utenti.

In effetti, questi servizi non furono concepiti all’origine nemmeno per assicurare il benessere oppure la riappropriazione da parte dei beneficiari della loro propria umanità. Il loro obbiettivo iniziale mira semplicemente alla loro « maintenance ». Ovviamente questa scelta trasforma questi servizi, inclusi i migliori servizi offerti dallo Stato, in forme di alienazione calcolate per ridisciplinare la forza del lavoro e conservarla o renderla ancora utile per il capitale. Pero, i beneficiari non si fanno abbindolare così facilmente e denunciano con veemenza la distanza e la freddezza delle amministrazioni e spesso ne rimettono in questione l’equità e la pertinenza.

Istintivamente non capiscono perché gli operai attivi nelle imprese vengono considerati come inutili al buon andamento della gestione e del controllo delle amministrazioni, benché siano al corrente della giustezza delle pretese autogestionarie messe in avanti dagli operai di Torino all’inizio del XX secolo, quelle dei cantieri navali di Dunkerque, quella di Carmaux, oppure quelle della Lip più vicini ai nostri tempi. Al posto di veri diritti democratici sanciti da meccanismi di controllo democratici appropriati delle amministrazioni – pubbliche o autogestite – il Welfare State borghese offre solo delle mediazioni pubbliche o private, con lo scopo principale di gestire la contraddizione tra micro e macro-economia, cioè di concepire l’essere umano al meglio come un fattore di produzione in effetti più compressibile degli altri.

Così nel paese di Wicksell e di Myrdal, paese sociale-democratico avanzato ma, in oltre, paese presentato un tempo come molto in avanzo rispetto alla libertà dei costumi ed alle libertà interpersonali, la borghesia seppe tirare tutto il partito che poteva tirare spostando sulle spalle dei difensori dell’approfondimento del Welfare State svedese tutte le rabbie accumulate dai cittadini svedesi contro le alienazioni subite e dovute all’iperburocratizzazione. Come abbiamo visto queste alienazioni nascono dalle contraddizioni tra produzione e riproduzione all’interno dello Stato sociale borghese.

Ad esempio, in un paese nordico nel quale la deprivazione della luce del sole durante lunghi mesi causa problemi psicologici, non esitò ad attribuire l’elevato tasso di suicidi tra i giovani a questa burocratizzazione, capace di reificare la vita, ma messa sul conto del « socialismo »! Non c’era dunque più bisogno interrogarsi sulle vere cause del tragico fenomeno sociale, dato che una risposta utile ai suoi interessi di classe era resa disponibile, essendo in oltre suscettibile di essere formulata per soddisfare il gusto per l’angosciante e stuzzicante introspezione esistenzialista scandinava di Kierkergaard in modo da conciliarsi la gran parte degli intellettuali.

Similarmente, la Svezia era conosciuta per le sue intempestive ristrutturazioni, rese possibili con fondi pubblici per preservare la competitività del Paese con la rapida integrazione delle innovazioni le più promettenti. Nonostante queste, lo Stato sociale fu accusato di stritolare l’individuo e lo spirito creativo! Il fatto che nel mondo moderno questo spirito creativo possa raramente avere un’incidenza tecnica o industriale fuori delle squadre di ricerca o fuori delle strutture appropriate, importava poco, solo il ritorno al mercato poteva infondere nuovamente la vita al corpo atrofizzato dalla burocratizzazione « socialista ».

Non importa più l’apertura di mente con la quale anni prima i più grandi padroni svedesi avevano importato liberamente, come d’altronde i loro omologhi giapponesi, le esperienze cinesi maoiste relative all’utilizzo del capitale umano – ovviamente tolto via il loro aspetto rivoluzionario. Così, l’innovazione organizzativa delle « brigate » e degli « comuni » fu parzialmente ripresa per fine di legittimazione e di crescita della produttività nei circoli di qualità delle imprese giapponesi e nel ricomponimento dei compiti di lavoro sulle catene di montaggio automobile svedese grazie al quale esse soffrirono meno del sindrome dei lunedì e dei venerdì, oppure dell’estremo « turn over » della forza lavorativa rispetto alle simili catene americane.

Il presente imponeva altre priorità. Si capisce che per questi padroni il tempo non era più ai ragionamenti. La loro reazione fu molto nietzschiana: una sociale-democrazia pronte ad adottare il Piano Meidner segnalava la morte a termine della proprietà privata. Si trattava dunque di provocare la morte di questo socialismo democratico il più rapidamente possibile come misura preventiva. Il peggio fu che molti dirigenti socialisti svedesi adottarono rapidamente queste scuse nietzschiane ben primo della loro sconfitta elettorale: avevano già accettato il razionale culturale dietro questi attacchi e reso le armi sviscerando il Piano Meidner con la limitazione molto restrittiva della percentuale delle imprese private suscettibile di essere comprate dai Fondi Operai ecc. I quali divennero l’ombra di se stessi essendo così ridotti ad una semplice addizione ai dispositivi esistenti dello Stato sociale borghese.

Da quello momento in poi, il popolo in generale ed i lavoratori svedesi, sottomessi come gli altri al « roller-coaster » monetarista sganciato da Volker/Reagan, il quale agiva come un pesante vincolo esterno, non avevano più altra scelta se non quella di adottare una posizione difensiva. Cioè, il rispetto delle tradizioni storiche del « modello svedese » per i lavoratori a tempo pieno, ascoltando comunque il canto delle sirene degli riorientamenti e dei riciclaggi, in vista della nuova economia innovante a sapore yankee. Il ritorno della sociale-democrazia al potere mostrò che non si poteva sperare che la maggioranza dei Svedesi prendessero fischi per fiaschi troppo a lungo: pero l’obbiettivo della borghesia era stato raggiunto con la sconfitta delle visione riformista rivoluzionaria di questa particolare sociale-democrazia, e con la sua ritirata verso un cautele riformismo legalista e rispettoso della proprietà privata, al punto che prese al suo proprio conto le contraddizioni prodotte direttamente dalla dominazione borghese.

La perpetuazione di queste contraddizioni impone che i lavoratori, presentati come più fortunati rispetto agli altri, trovassero la loro gioia non più nel lavoro non-alienato, tramite la partecipazione al controllo dei mezzi di produzione, ma invece nell’euforia delle lunghe ore di lavoro « senza sindacati ». Sono ore spesso passate su gadgets, e spesso nell’euforia speculativa dei stock-option versati parzialmente in sostituzione del salario ma in posti di lavoro considerati non-conformisti e capaci di incantare Wright Mills, il padre putativo di questi nuovi colli bianchi e blue-jeans. I quali, alla luce della crisi attuale, rifanno i loro conti salariali e sociali nell’epoca della speculazione egemonica – gli effetti dello scoppio della bolla speculativa essendo occultati grazie agli sforzi del dottore Greenspan mirati ad inserirla in permanenza nel cuore del sistema in questa nuova epoca del capitalismo neoliberale.

Rimane che i lavoratori di questi settori e i sindacati che li rappresentano hanno capito che si dovrà ormai contare su cicli di vita più corti per i prodotti della New Economy. E che la saturazione dei mercati potenziali sarà più rapida, quando settori interi della manodopera saranno durevolmente relegati alla precarietà ed al sotto-salario (la « under-class » secondo l’espressione di Julius Wilson). Questa è l’espressione della vecchia contraddizione sovrapproduzione/sotto-consumo nella sua nuova forma frammentaria.

Marx ed i marxisti di qualsiasi natura non avevano mai mancato l’occasione di mostrare lo statuto strutturalmente precario di una certa classe media, la quale transita facilmente dall’auto-soddisfazione al vitupero contro l’epoca. Non mancò la denuncia del carattere limitato, subordinato e oscillante della sua visione del mondo. Questa ne fa la prede delle scelte della borghesia ancorché potrebbe farne l’alleato prezioso del proletariato se quest’ultimo disponesse di mezzi autonomi (Fondi Operai ) per attuare la sua politica di riforme rivoluzionarie. Al limite, si può accettare di non potere contare sullo stesso lavoro durante tutta una vita, ma abbandonare i diritti sindacali e sociali dalla culla alla fossa, ecco un catechismo idoneo solo a creare fantasmi post-illuminati e, di conseguenza, ad essere rigettato dalla massa più sensata delle cittadine e dei cittadini!

Meglio non parlare di una certa intellighenzia, quella che spaventò subito le bandiere di Nietzsche e di Heidegger senza capire a fatto la tragedia antica – precisamente quella della sua falsa coscienza – che stava giocando quando pretendeva omaggiare la « libertà » osando con « audacia » buttare prematuramente pale piene di terra sulla tomba del socialismo, solo perché si era persuasa che il socialismo era già morto e seppellito! L’Ideologia tedesca di Karl Marx rimane ancora il loro atto di accusa anticipato. (9)

Posture elettoralistiche e autentica strategia riformatrice

Malgrado tutte le critiche legittime che possono essere indirizzate al primo governo della « gauche plurielle », molte delle quali rilevano più dello giudizio sulla velocità nonché della direzione delle misure adottate, conviene situare questo governo nel contesto della sua inaugurazione per potere portare un giudizio onesto sul suo bilancio. Furono compiute grandi cose: le 35 ore costituiscono la prima rimessa in causa del neoliberalismo trionfante; senza il governo Jospin, l’Accordo AMI preparato surrettiziamente avrebbe subordinato le nazioni e anche l’OMC al dominio assoluto delle multinazionali; né va anche così per la rivendicazione di una Europa sociale concepita come contrappeso a quella borghese di Maastricht.

Si potrebbe continuare facilmente. Ecco perché conviene vietare di rendere questo governo vittima dei suoi propri successi con cattivi calcoli elettoralistici. Non importa l’avvenire della legge sulla modernizzazione sociale, la lotta continuerà ma sempre mirando a l’unità la più larga possibile tra cittadine e cittadini, la base ed i suoi rappresentanti sindacali e politici. L’obbiettivo dovrebbe essere quello di indirizzare tutte le riforme nel senso delle riforme democratiche rivoluzionarie. Questo rimane vero per la legge di modernizzazione sociale come per tutte le altre leggi. Quando questo obbiettivo non risulta momentaneamente possibile allora, visto la natura autenticamente progressista innovante di questo governo, almeno al livello domestico, conviene cercare di preservare l’avvenir in vista di riforme più spinte, sapendo che l’occasione sarà presto offerta con un secondo mandato e forse anche con la Presidenza.

Questo dovrebbe spingere tutte le militante e tutti i militanti ad approfondire la loro riflessione sul senso e la disciplina inerenti ad una « gauche plurielle » sottomessa al verdetto democratico della sua base sindacale e lavoratrice e delle sue elettrici e dei suoi elettori. Il processo di unificazione e di differenziazione dei programmi e dei cuori non è sicuramente semplice ma rimane necessario. Sopratutto se, al contrario dell’Italia contemporanea, tutte le tendenze di questa « gauche plurielle » condividono qualche nozioni comune di riforme democratiche rivoluzionarie iscritte nel senso dello spirito ugualitario, libertario e fraterno che si legge sul frontone della Repubblica. Allora il tempo della differenziazione dei programmi politici individuali, espressione della personalità propria, rimane compatibile con il tempo dell’unificazione degli elementi scelti dei programmi individuali nel programma comune di governo per i quali tutti assumono la loro responsabilità, particolarmente per quello che riguarda la valutazione del bilancio.

Questo è più facile in Francia visto che il secondo turno elettorale permette il libero esercizio di questa dialettica della differenziazione e dell’unificazione. Ben inteso le pretensioni individuali di influenzare la redazione del programma comune dipenderanno dal peso elettorale respettivo, cioè dal peso elettorale guadagnato durante le elezioni anteriori, se mai corrette al rialzo secondo i risultati ottenuti durante le prossime elezioni. Il problema più grave consiste nel confondere l’eventuale priorità secondaria conferita a certi elementi giudicati imprescindibili del proprio programma con degli antagonismi irriducibili. Nella vita reale, il ruolo insostituibile di un partito politico no può essere riassunto nella sua capacità immediata di imporre il suo programma legislativo ma anche nel sapere continuare a difendere gli interessi dei suoi membri, ottenendo sul lungo termine l’adesione più larga possibile dell’opinione pubblica per queste misure stimate definire la natura stessa del partito.

Finché questo lavoro globale rimane possibile, la traduzione legislativa della minima riforma democratica rivoluzionaria costituirà una vittoria per la sinistra intera, malgrado l’espressione di un certo fastidio per la lentezza. Non credo ad esempio che il PCF oppure i Verdi – oppure i partiti fuori del governo – si siano mai trovati nella posizione di un Bertinotti obbligato a chiedere ad un Prodi, un D’Alema, un Amato o un Rutelli di fare un semplice gesto di solidarietà di classe – la famosa e ben modesta svolta richiesta – dopo lunghi anni di austerità accettata con disciplina e stoicismo dalle masse della Penisola nel nome della modernizzazione delle istituzioni, dell’entrata nell’Europa e della continuazione della lotta alla mafia ed al crimine organizzato.

Naturalmente ognuno conserva il dovere di ottenere il massimo possibile per il proprio partito. Pero, finché si perseguirà la via delle riforme autentiche, sarà doveroso ben valutare i rapporti di forza nazionali e internazionali nei quali l’azione governativa dovrà inserirsi necessariamente in modo ben più diretto che l’azione individuale dei partiti politici in quanto partiti. Finché la direzione sarà mantenuta questo non dovrà essere visto come una prosaica politica del possibile – sotto dominazione borghese – dunque come una negazione delle aspirazioni legittime della sinistra, ma invece per quello che è realmente, cioè il sostegno delle condizioni concrete all’interno delle quali le autentiche possibilità potranno emergere e concretizzarsi con più o meno rapidità. In questo modo, la « gauche plurielle » rimarrà degna delle lezioni impartite dai lavoratori e brillantemente riassunte nel loro slogan faro « Tous ensemble!».

Una volta ammesso questo non esiste più nessuna obbiezione recepibile contro il fatto che i partiti politici della « gauche plurielle » cominciassero da oggi il loro processo di differenziazione in vista delle prossime elezioni. Sarebbe anche auspicabile. A condizione tuttavia di assumere onestamente il bilancio comune nei suoi spettacolari progressi come pure nei suoi ritardi (minima sociali? Fondi Operai ? Ecc.) oppure sopra i suoi eventuali fallimenti (guerra del Kosovo fatta per il conto della NATO mentre si doveva invece concentrarsi sulla costruzione del polo europeo autonomo di sicurezza e di difesa?) Questa riconoscenza delle proprie responsabilità diventa necessariamente la base imprescindibile per la credibilità del programma presentato da ogni partito, dato che questa accettazione presuppone una valutazione ed una autocritica lucida delle azioni compiute: in questo modo le elettrici e gli elettori potranno giudicare razionalmente la giustezza delle rivendicazioni di ognuno rispetto al programma comune tale che emergerà dal processo di consultazione popolare.

Non nuoce ripetere che gli elementi dei programmi individuali non ritenuti nel programma comune conservano tutto il loro valore: risultato dell’articolazione di un pensiero coerente proprio al partito, continuano a servire di base di informazione, di educazione dei membri e di referenza quando gli azzardi della vita politica rimettono le problematiche sotto-giacenti sul tavolo in un contesto nel quale i dirigenti non hanno il tempo di consultare in modo adeguato i loro membri fuori del Congresso di partito. In altre parole, informano la vita politica del partito, la quale non si riduce ad una partecipazione necessariamente disciplinata e leale al governo della « gauche plurielle ».

Supponendo che nessuna autentica versione della legge sulla modernizzazione sia adottata oppure che lo sia nella versione attuale … dato che i lavoratori non saranno abbandonati a loro stesse, si dovrà riconoscere il fallimento e spiegare a questi lavoratori il valore del bilancio passato, come pure la necessità di un rafforzamento elettorale capace di provocare la riapertura della riforma durante un secondo mandato. La solidarietà di classe non si limita al sostegno attivo ai scioperi. Quando lo sciopero non può raggiungere tutti gli obbiettivi fissati, la solidarietà organizzata del proletariato deve ancora manifestarsi nella generosità dei piani sociali che le imprese ed i governi mettono su piedi. Se nel regime di proprietà privata dominante non si può decretare la fine delle chiusure e dello sfruttamento, rimane per la società prendere degnamente in carica questo capitale umano temporaneamente scartato e svalorizzato dalle imprese con la loro speranza di ricomprarlo in seguito ad un prezzo più basso.

Non si dovrebbe mai sotto-stimare la lucidità della coscienza di classe dei lavoratori. Facciamo tutto per influenzare la legge per scartare un fallimento ma, in ultima istanza, con un bilancio simile non lasciamo un sempre possibile fallimento, certo importante ma comunque parziale, condurci verso un fallimento elettorale con ripercussioni globali pesanti per le aspirazioni dell’intera sinistra. Con il ritorno al governo della destra, ci vorrebbe poco per sviscerare la legge sulle 35 ore con una regressione alla logica di Robien e di Fitoussi. In effetti, ci vorrebbe meno di quanto fu necessario alla destra per ri-privatizzare le imprese nazionalizzate dal Presidente Mitterrand. In casi simili, conviene vietare i dissensi autolesivi stringendo i ranghi e spiegandoci onestamente di fronte ai lavoratori. Non dimentichiamo che le riforme della « gauche plurielle » non hanno ancora raggiunto il loro punto di non ritorno.

Paolo De Marco

Richmond Hill, il 10 giungo 2001

Note:

* ) Vedi Sezione Livres-Books di www.la-commune-paraclet.com

1 ) Vedi Marx, Les luttes de classes en France de 1848 à 1850 e Le 18 brumaire de Louis Bonaparte, come pure Rosa Luxemburg, Social Reform and Social Revolution, Bombay, 1951 e “The Belgian Experiment” e “Yet a Third Time on the Belgian experiment” in data rispettivamente del 26 aprile 1902 e del 14 maggio 1902 citati in V. I. Lenin, Works. Per un corto riassunto molto utile vedi in Rosa Luxemburg by Tony Cliff, Bookmarks éd., 1980.

2 ) v. Le socialisme venu du froid edito da J.P Sartre per misurare l’eredità oggi sottovalutata di questo tentativo di rinnovamento del socialismo a viso umano.

3 ) Non dimentichiamoci che questa politica del piegarsi nel senso del vento dominante non andò senza una comprensione lucida delle conseguenze che sarebbero scaturite da questa scelta e dalle tendenze internazionali maggiori. Furono sviluppate le contro-misure necessarie: ad es., sul piano domestico, ci furono misure tali il RMI; sul piano dell’inserimento nell’economia capitalista mondiale in piena mutazione, ci furono delle misure difensive tali la concentrazione bancaria – Société Générale ecc – e, dopo la ri-privatizzazione di numerose imprese pubbliche, la ristrutturazione industriale attorno ad alcuni poli strategici capaci di giocare un ruolo positivo tanto al livello europeo quanto al livello mondiale. In altre parole, si salvaguardò l’avvenire permettendo in seguito le coraggiose misure prese dalla « gauche plurielle ». Il che non significa certo che le misure prese non potevano essere diverse nel 1983.

4 ) Non per niente la Svezia produrrà esperti dell’economia mondiale tale Galtung. Questi, come pure Wallerstein, elaborava il concetto di economia-mondo di Braudel, come un insieme gerarchizzato con un Centro, una Semi-periferia ed una Periferia, il tutto dominato dal Centro. Questa visione era rimossa ad es. da quella di Jalée ed altri che insistevano sopra un mondo essenzialmente segnato dallo sfruttamento, dunque da una logica da rimettere in causa. Qui invece, l’importante consisteva solo a prevenire la caduta nella Semi-periferia o la Periferia, secondo il proprio punto di partenza, ben inteso dopo avere messo da parte la strategia del « delinking » utilizzata tempo fa dalla Unione Sovietica, dalla Cina, dal Vietnam, Cuba ecc … e, temporaneamente, dagli Stati-Uniti subito dopo l’Indipendenza quando decisero politicamente la loro bancarotta per sbarazzarsi dei loro creditori britannici. Così, in questa macabra commedia borghese, non vi è salvezza fuori dal Centro e di conseguenza fuori dal suo catechismo. Il terzo-mondialismo classico, per parte sua, presentava il grande vantaggio dell’apertura di un ampio dialogo sulla ricerca di alternative possibili, dalla decolonizzazione – vedi ad es., i discorsi di Aimé Césaire e di P. Lumumba – alla Tricontinentale, dalle lotte di liberazione anti-imperialiste alla rimessa in causa dello cosiddetto « scambio ineguale », oppure dal « défi américain » e fine alla creazione di zone monetarie capaci di multinazionalizzare il ruolo regaliano – o sovrano – della moneta di riserva con la creazione delle zone euro, yen e speriamo presto, renminbi.

5 ) Così il falso dibattito iniziato anni fa da Braudel che opponeva le metropoli (mercanti, feudali ?) presunto supporto dell’autoritarismo e il mercato rappresentato dai piccoli produttori indipendenti, vettori designati della libertà. In effetti, una analisi anacronistica del feudalismo nata da un vasto studio del mondo mediterraneo portò a questa conclusione, mentre era ovvio che per Braudel era la proprietà di Stato in linea di mira, in particolare sotto la forma istituzionalizzata dal socialismo reale. A mia conoscenza, questo anacronismo di Braudel fu strumentalizzato per scartare la realtà ed i suoi dibattiti teorici e storici. Ad esempio, quelli relativi all’azienda globale – big corporation – analizzata sin dagli anni 1920 da Means e poi da Berle and Means, ma sopratutto la teoria dei monopoli e degli oligopoli presentata da Sraffa, Chamberlin e Joan Robinson spinti per conto loro da tendenze reali e palesi.

Ma ce di più: la sinistra deve pure fare i conti con l’attitudine chiaramente espressa da Lenin secondo il quale la piccola proprietà privata fa il letto del capitalismo. Certo questo non impedì in seguito Lenin, sempre pronte a rimettersi alla « scuola della vita », a sviluppare la strategia della NEP. Non di meno vi era qui una contraddizione irrisolta ma sfortunatamente rannicchiata nel cuore teoretico-pratico di una importanza strategica vitale che costò la vita a molti compagni – tra i quali Bucharin – e che provocò dei dolorosi conflitti all’interno del movimento comunista, tutte tendenze considerate.

E dovuto a Pierre-Philippe Rey il chiarimento cruciale in materia grazie alla sua ripresa dell’analisi dei rapporti tra la proprietà fondiaria – la rendita – ed il capitalismo agricolo di Marx, l’idea che un singolo individuo può simultaneamente essere il vettore di due modi di produzione diversi ma coesistenti – secondo me compatibili – relazione nella quale uno modo esercita il suo dominio sopra l’altro. Questa è una idea maggiore; ho cercato di riformularla nella mia teoria della « sovrappiù sociale ». La sua ampia diffusione spazzerebbe via in pratica molti falsi dibattiti sull’autoritarismo e la libertà, oppure sull’egualitarismo e la libertà. In questo contesto di coesistenza a dominanza dei modi di produzione, la perpetuazione della piccola proprietà privata – commerci e PMI, inquadrati ed appoggiati fra l’altro dai Fondi operai – costituirebbe al massimo un peccato veniale, una sopravvivenza del pluralismo sociale e culturale, fornendo un utile baluardo supplementare di considerevole importanza contro ogni velleità di reazione nietzschiana. Vedi ad es., la reazione realmente isterica di Gustave Flaubert durante l’avvenimento della Commune di Parigi, vedi la sanguinosa repressione dell’esperienza di Carmaux o ancora la parola d’ordine padronale sentita nel 1936 : « meglio Hilter che il Front populaire ».

Il pensiero ambientalista e la teoria dello sviluppo sostenibile contribuiranno senza dubbio a erigere nuove ed efficaci barriere contro la reazione a fondo primitivo e barbaro. Le loro critiche del produttivismo prometeano – particolarmente quelle del Rapporto Brundland e sopratutto di Rudolph Bahro – favorendo l’internalizzazione di nuovi istinti psicologici ed economici permetteranno una migliore integrazione dialettica dell’essere umano con la natura, relegando al passato i riflessi nietzschiani più primitivi. Detto questo, il ruolo negativo che si vuole fare giocare al mito di Prometeo in questa storia non è degno di essere posto sotto la luce civile del divenire storico. Al contrario di quello che pretende una certa archeologia filologica fasulla – ispirata da Nietzsche e Heidegger – Prometeo non è la fonte dello sfruttamento distruttore della natura né il superamento di quest’ultimo, idoneo a rilegare definitivamente questi istinti nietzschiani nella catasta di letame della Storia. Oggi si deve ancora fare i conti con le regressioni imperialiste di George W. Bush and Cie., ed il loro questionamento degli Accordi di Tokyo e Kyoto.

6 ) Questo giudizio perspicace è del reazionario von Mises.

7 ) Ancora insidiosamente enunciata nell’etica protestante weberiana e le sue enormi forzature della Storia: le Città cattoliche di Amalfi o di Firenze e Venezia avevano già percorso la storia del capitalismo nascente prima della Olanda, dell’Inghilterra puritana e dei settari del Mayflower; anche T. Müntzer avrebbe avuto a ridire rispetto alle libertà con le quali certi si autorizzano con la Storia per servire le loro proprie finalità ideologiche.

8 ) Sin dagli anni trenta, una seria di commissioni canadesi aveva mostrato che il New Deal americano conteneva del buono. La crisi forzò lo Stato liberale canadese – e i governi provinciali tra i quali quello del Quebec – a cedere più fondi pubblici alle municipalità sull’orlo della bancarotta, come pure alle agenzie di carità in carica dell’assistenza pubblica. Dopo la seconda guerra mondiale, si realizzò che sarebbe stato più razionale e meno dispendioso riconoscere questa assistenza temporanea, diventata permanete vista il contesto socio-economico, come un diritto cittadino concependo il sistema come uno sistema di assicurazione sociale. I vantaggi erano moltiplichi, i lavoratori finanzierebbero i piani contributivi permettendo così un accumulo di questo risparmio istituzionalizzato tramite un sistema attuariale capace di ottimizzare al meglio la piramide demografica. Lo Stato centralizzerebbe l’offerta dei servizi coperti da questo sistema di assicurazione più razionale, e dunque meno costoso, del sistema di assistenza, il padronato e lo Stato traendo profitto del controllo dei fondi sociali in questione. Il partito comunista canadese menò a questo proposito una battaglia esemplare per il controllo popolare del sistema di assicurazione contro la disoccupazione – ammortizzatori sociali : benché le sue domande non siano state ritenute esse rivelano chiaramente tutte le poste in gioco della questione nei suoi aspetti particolari e generici.

Prima ancora, nei Stati Uniti, si videro gli New Dealers fare appello alle conferenze di Sir William Beveridge e di Keynes per convincere F. D Roosevelt e il padronato del fatto che le potenzialità contro-cicliche dei mini programmi sociali offerti dallo Stato potevano fare miracoli per ammortire gli effetti dei cicli economici e sopratutto delle crisi.

Oggi l’Amministrazione Bush ritorna molto logicamente al sistema caritativo abbandonato nelle mani di agenzie di carità private, visto che la sua volontà di smantellamento di ogni vestigio di Welfare State dimora completa – anche nella sua versione famelica americana.

Non sorprende allora la creazione del gulag americano delle prigioni e delle camere di esecuzione sopratutto destinate alle classi laboriose e per colmo appartenenti alle minorità. Gramsci nelle sue analisi su « Fordismo e sessualità » distingueva già tra pedagogia coercitiva borghese e pedagogia positiva moderna e progressista. Di fatti! L’analisi vale ancora di più per il post-fordismo. E poco importa se i « twenty-something », così adulati ma facilmente sacrificati dai maestri della nuova economia, siano spinti a sostituire i stimolanti troppo « industriali » e « antiquati » come il caffè, il tè e la sigaretta con dei prodotti più « cool » come il cannabis, la cocaina ed il crack! Queste pericolose stravaganze furono già cooptate anni fa e erette allo statuto di modo di vita da i vari Ginsberg, Burroughs ed altri Ken Kesey per non dire nulla sulle tinte « day glow » riutilizzate – a buon fine ? – da un Steve Jobs ed il potenziale stroboscopico delle televisioni private che offrano decine di canali tutti caratterizzati dalla stessa oscena vacuità ma controllabile con la provvidenziale fortuna del zapping. Forma concreta di quello « flow of consciouness » che non ha più niente a che vedere con un James Joyce ed il suo « commodius vicus of recirculation » preferito. La morale è sempre la stessa: si rischia meno a Queens che nel South Bronx. I ricorsi borghesi non auspicano niente di buono per la cultura!

9 ) Nell’epoca delle mobilizzazioni contro i « licenziamenti borsistici » esiste forse un solo commentatore di buona fede per sostenere che non esiste libertà fuori del mercato, cioè del diritto esclusivo accaparrato dalla proprietà privata e dai suoi rappresentanti, di determinare soli le condizioni di redditività del capitale e dell’utilizzo della manodopera? Non è più recepibile la risposta ad un tempo fatta ad un eletto da Casimir Perier: « Gli operai devono sapere che non esistono rimedi per loro se non la pazienza e la resinazione ». Numerosi cittadini della République rispondono chiaramente no alla prima domanda e intendono opporre una lente ma sicura marcia motivata dal indomabile desiderio di trasformare le condizioni materiali di esistenza, alle pretese degli usuali epigoni del capitale. Sono numerosi quelli che verrebbero con gioia i spazi reali di libertà de-moltiplicarsi a misura che i diritti di questa proprietà privata verrebbero controbilanciati da altre forme di proprietà, collettive e pubbliche. Ma il tradimento di certi cleri non può essere mai totalmente escluso e lo è ancora meno quando gli intellettuali organici del proletariato sono esclusi delle istituzioni accademiche e mediatiche. Alain Touraine con i suoi sapranno presto allontanare scientificamente tutti i nostri dubbi in materia!

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