Re :

A ) Vincenzo Falcone, Le ferriere di Mongiana, un’occasione mancata, Cittàcalabriaedizioni, 2007.

B ) Brunello De Stefano Manno, Le Reali Ferriere ed Officine di Mongiana, Cittacalabriaedizioni, gruppo Rubbettino, 2008. Prima edizione 1979 con prefazione di Gaetano Cingari.

C ) Parco Naturale Regionale delle Serre, opuscolo, www.parcodelleserre.it

Mongiana, piccolo comune calabrese sito nella Provincia di Vibo Valentia, fu, un tempo, uno dei centri metallurgici più importanti d’Europa e della Penisola italiana, cioè fine all’Unità dell’Italia. Oggi è diventato un centro di « archeologia industriale » dopo essere stato uno dei più imponenti e stabili esemplare delle « ferriere itineranti » (1) del Mezzogiorno. Queste si spostavano tra la marina di Stilo verso Pizzo passando da Mongiana, Serra San Bruno e Ferdinandea. 26 comuni tra cui Mongiana sono inseriti nei 17 000 ha che compongono il Parco Nazionale Regionale delle Serre nel territorio delle provincie di Vibo Valentia, Catanzaro e Reggio Calabria. (2)

Il primo libro citato, quello di Vincenzo Falcone, ci offre una dettagliata sintesi storica. L’Appendice contiene tre utilissime Schede. La prima presente sommariamente « Le risorse naturali della Calabria, a corredo delle ferriere di Mongiana» ; la seconda elenca cronologicamente « I principali avvenimenti che hanno caratterizzato la vita del polo metallurgico di Mongiana (1771-1874) ; infine, la terza scheda elenca « I direttori che si sono succeduti nella direzione del complesso metallurgico. » tra i quali il Reggente Domenico Fortunato Savino – 1864 – che progettò le due + quattro monumentali e dimostrative colonne doriche in ghisa poste davanti all’atrio della Fabbrica d’Armi, oggi sede del Museo (3). Seguono le referenze allo « Archivio di Stato di Catanzaro, atti della Mongiana » assieme ad una » Bibliografia essenziale ». Il libro è dedicato « Agli operai delle Ferriere di Mongiana e Ferdinandea, figli di una Calabria amata e invidiata per la sua natura bella e generosa, selvaggia e temuta per il suo carattere imprevedibile e in alcuni casi devastante, oppressa per sfruttare la sua fertilità e le sue ricchezze naturali, contraddittoria tra passato e presente, disprezzata, a volte, per i preconcetti sui suoi abitanti considerati ”rozzi e barbari”, abbandonata a se stessa dopo averne abusato. »

La tesi del libro è riassunta così : « Siamo di fronte a un evento di estrema importanza che mette in luce, per la prima volta, come una parte della popolazione calabrese si sia confrontata con il lavoro in fabbrica, anche se in condizioni molto difficili e disumane ; e come questa categoria di operai abbia dovuto pagare, successivamente, attraverso l’emigrazione, colpe non sue, addebitabili, invece ad una classe dirigente, specialmente quella post-unitaria, che si rifiutò di sostenere lo sviluppo dell’industria meridionale. Noi siamo convinti che questa esperienza secolare calabrese avrebbe potuto costituire l’avvio di un processo di industrializzazione vero e proprio della Calabria e dell’intero Mezzogiorno. » (p 9)

In effetti, il caso della Mongiana ha molto da dirci sulle condizioni dello sviluppo nazionale e locale e sulla transizione da un Modo di produzione feudale ad un Modo di produzione capitalista, condizioni sempre sovra-determinate, non solo dalla costellazione delle forze economiche, ma sopratutto dall’ideologia delle classi dominanti; l’inserimento nell’Economia mondiale risulta sopratutto determinato, non da un qualsiasi «interesse nazionale », ma bensì dagli interessi economici-culturali delle classe dirigenti, speso subordinate.

Le Ferriere di Mongiana ebbero i loro periodi fiorenti durante il regime borbonico e sopratutto durante l’intermedio rivoluzionario partenopeo e francese segnato, tra altro, dalla cosiddetta eversione feudale e da un inizio di riforma agraria, prelude di ogni possibile industrializzazione. Questa riforma agraria lanciata dai riformatori-rivoluzionari partenopei nel 1799 e ripresa in seguito sia da Joseph Bonaparte che da Murat, dovette attendere la fine della Seconda Guerra Mondiale per imporsi anche in un modo cooptato dalla Democrazia cristiana, ad esempio con la cosiddetta Opera Sila. Come analizzato da Paolo Cinanni, mentre i dirigenti borghesi-atlantici si adoperavano per ritardare la riforma agraria e l’ammodernamento socio-economico del Paese e del Meridione, nel 1949, nel contesto del Piano Marshall, si teneva il Congresso nazionale democristiano di Venezia con il quale fu scelto di favoreggiare l’emigrazione italiana di massa invece di pianificare l’assorbimento della manodopera rurale con lo sviluppo dell’industria e delle attività annesse. Fu una emorragia di oltre 2 milioni di concittadini. Dopo la crisi dei subprimes del 2007-2008, furono oltre 5 milioni a partire, sopratutto giovani e diplomati. Il PCI era stato cacciato dal governo nel 1947 aprendo così la via al primo colpo di arresto della modernizzazione della nostra Repubblica. Paolo Cinanni nota pure l’impatto devastante di questa emorragia nei ranghi dei militanti e dirigenti sopratutto nel Sud. (4)

L’autore sottolinea l’importanza dei dazi nella tenuta e lo sviluppo o al contrario della subordinazione delle Ferriere di Mongiana. Questo è particolarmente evidente sotto il regime di Joachim Murat dato che il Regno di Napoli doveva fare i conti con il blocus napoleonico – e con il contro-blocus imposto dalla flotta inglese che rendeva i scambi marittimi azzardosi. Questo stato di cose fu ancora più aggravato dalle preferenze doganali conferite alle merci provenienti dalla Francia. Se non altro per ragioni militari, Murat dovette rilanciare e modernizzare le produzioni di Mongiana sopratutto quelle delle armi. Si trattava di Reali Ferriere ed Officine, cioè di un’impresa sotto controllo dello Stato la cui gestione venne affidata al Ministero della Guerra e a volte, raramente, a quella delle Finanze. Questo influì fortemente sull’orientamento della produzione e sui volumi prodotti, fluttuanti a secondo che il Regno era in guerra o in pace. In effetti, sul luogo, altre ferriere private continuarono a coesistere con quella della Mongiana, con il suo corteo di corruzione e di brigantaggio. Durante l’ultimo periodo borbonico, con l’inizio dello sviluppo industriale – ponti, ferrovie, locomotive, navi moderne, ecc. – lo sviluppo della Mongiana venne speso contraddetto e bloccato tanto dall’influenza in Corte di concorrenti privati tale il Principe di Satriano, Filangieri, proprietario della ferriera privata di Cardinale, quanto dalle pressioni inglesi. Ad esempio, Rothschild pesò di tutto il suo peso a favore degli interessi inglesi – e del loro contrabbando.

Il regime borbonico sotto il re riformatore Carlo Borbone e il suo ministro Tanucci fu appoggiato dai pensatori più avanzati del tempo, sulla scia dell’immenso Giambattista Vico, come Pagano, Albanese, A Genovesi, Filangieri, Cirillo, Eleonora Pimentel Fonseca, V. Cuocco e G. Zurlo l’autore dell’importantissima Relazione sulle terre silane. Fu tra i primi a iniziare vere e proprie riforme socio-economiche in Europa. Non sorprende che le ferriere di Mongiana siano state concepite in questo ambiente, il nuovo re dovendo pure assicurare la difesa del suo regno. Sembra che la ferriera di Mongiana iniziò realmente con il figlio Ferdinando IV sotto il quale le riforme proseguirono, dopo che il re Carlo venne chiamato sul trono spagnolo. La creazione delle Seterie di San Leucio, un tentativo di riforma socio-economico monarchico-illuminato e primo esportatore del Regno (5) accompagnò quella assai diversa di Mongiana oppure quella del Panopticon napoletano, il Reale Albergo dei Poveri.

Come ben sappiamo la stagione delle riforme illuminate e socialmente avanzate fu durabilmente interrotta con la sanguinosa restaurazione borbonica appoggiata dal reazionario Congresso di Vienna e dagli Inglesi. Questi si erano impadroniti dell’Isola di Malte in cambio di un prestito e, nel medesimo tempo, esigerono la distruzione della Flotta napoletana, tra le più importanti del Mediterraneo, come prezzo per il trasferimento dei reali fuggiaschi a Palermo con il pretesto di non farla cadere in mano ai rivoluzionari partenopei con l’arrivo dell’armata del Generale Championnet a Napoli. L’autore napoletano La Capria nel suo saggio L’Armonia perduta attribuisce la duratura arretratezza di Napoli e del Meridione alla sanguinosa strage di massa dei Patrioti e rivoluzionari partenopei compiuta con lo scatenare della Vandea sanfedista del Cardinale Ruffo e dei suoi sanguinosi e barbari briganti (6) e con la consecutiva restaurazione borbonica. (7) Mi viene in mente la battuta di arresto del movimento sociale e intellettuale avvenuta con il massacro dei Communards in seguito alla sconfitta della Commune de Paris, 1871, oppure il disastroso effetto della migrazione di massa dei nostri concittadini nel dopo-guerra per la mancata riforma agraria mai seguita dalla necessaria industrializzazione e modernizzazione del Sud, e, più ancora, con la crisi dei subprimes del 2007-2008.

Ci vorranno i moti del 1831, quelli del 1848 e finalmente la travagliata unità italiana compiuta dalla monarchia sabauda e da Garibaldi a scapito della Repubblica per fare muovere le cose. Spesso sacrificando il Sud, e specialmente la Calabria, come fu il caso per la metallurgia della Mongiana, prima venduta ai privati assieme alla Ferdinandea – iniziata nel 1812 e inaugurata nel 1833 -, tra i quali Achille Ferrazi, vicino a Garibaldi, nel 1874. I problemi della metallurgia calabrese iniziarono sin dal 1860. Scrive Vincenzo Falcone : « Le miniere di Pazzano e gli stabilimenti di Mongiana vengono abbandonati, proprio mentre le produzioni siderurgiche calabresi ricevevano riconoscimenti nazionali ed internazionali (a Firenze, nel 1861 ed a Londra, nel 1862.) Con legge 21 agosto n.793, il polo metallurgico di Mongiana viene inserito nella lista dei beni demaniali soggetti a vendita che avverrà 11 anni dopo, a seguito della legge del 23 giungo 1873 ». ( p 171)

La cronologia del Falcone finisce così: « 1884. Avvio della fabbrica di Terni che assorbirà qualche operaio specializzato, proveniente dagli stabilimenti di Mongiana. » (p 171) Brunello De Stefano Manno spiega che la chiusura fu dovuta alla soppressione dei dazi da parte della nuova monarchia senza nessuno compenso in termine di investimenti e di ammodernamento della metallurgia calabrese; in oltre, il Piemonte non aveva nessuna metallurgia da proteggere e trovò più economico importare, sopratutto dagli Inglesi e dai Rothschild ai quali furono aperti i settori siderurgici e industriali del Paese, già spostati al Nord. « Il nuovo Stato lasciò languire le proprie ferriere, preferendo importare prodotti stranieri e soggiacere ai diktat finanziari palesi e occulti del Piemonte. Bastino per tutti i Rothschild che, nel 1871, riuscirono a imporre il blocco della produzione di locomotive finanche alla beniamina governativa Ansaldo. E, quando l’Italia decise di svicolarsi da tale dipendenza e diede vita nel 1884, alle acciaierie di Terni, fu costretta a innalzare una barriera di dazi protettivi ben più robusta di quella tanto criticata e rinfacciata in precedenza al ”retrogrado” governo napoletano. » (2008, p 124)

La soffocazione inglese dello sviluppo meridionale aveva preso una svolta drammatica con il quasi protettorato de facto imposto da Lord Acton e da Nelson. Ancora negli anni 1830-1840, il Ministero della Guerra aveva affidato lo sfruttamento del carbone fossile ”all’uomo sbagliato”, ”l’inglese G Beck, già concessionario sulla piazza napoletana di una compagnia britannica esportatrice di coke. (…) A tutto il 1845, è aperta una sola galleria nei pressi delle sorgenti del Novito e, contrariarmene ad ogni logica mineraria, lo scavo, iniziato dal basso, procede verso l’alto in modo che la bocca della miniera risulta inferiore a tutta la galleria. » (2008, p 138) Il carbone fossile e il coke dessero un gran vantaggio competitivo alla metallurgia britannica. L’errore di gestione non venne corretta prima del 1850. Comunque questo carbone fossile non risultò adatto per il coke di buona qualità e servì sopratutto « come combustibile per le locomotive e motori navali.» (idem, p 139)

Tra le ragioni addotte per il sotto-sviluppo meridionale e particolarmente della metallurgia di Mongiana troviamo in primo luogo l’isolamento dovuto alla mancanza di connessioni stradali e ferroviarie, la questione dei dazi protettivi, quella dei scarsi investimenti, scelta anche dovuta al favoreggiamento delle ferriere e miniere private in mano a potenti cortigiani. Scrive Gaetano Cingari: « Esisteva tuttavia un parallelo interesse dei produttori privati garantiti dalla tariffa protezionista e, tra essi, in primo luogo il Principe di Satriano, Filangieri, proprietario della ferriera calabrese di Cardinale » (2008, p 10) Dopo la Rivoluzione partenopea e il regime francese, la presenza e l’influenza inglese, forse ancora più gravosa dopo l’Unità, si fece più pesante aggravando le conseguenze nefaste della concorrenza e del contrabbando. Scrive il Falcone: « Il ferro che veniva prodotto dalle ferriere era soggetto ad una concorrenza spietata da parte dei privati che lo contrabbandavano a prezzi inferiori. » (2007, p 53) Questo metodo di fare influiva anche sulla qualità della ghisa e del ferro prodotto, spiegando in parte le continue lamentele, speso diversamente motivate, in provenienza dalle ferriere e fabbriche di Napoli. Come tanti Calabresi ed numerosi altri commentatori – si pensa all’antico detto ”un paradiso abitato da demoni”, già verificato con gran barbarie durante la Vandea sanfedista meridionale – Vincenzo Falcone deplora l’arretratezza sociale della nostra Regione, che, sin dal dominio di Ferdinando I il Cattolico e di Carlo V d’Asburgo, caratterizza il Meridione.

Scrive: « Nel 1804, nonostante le condizioni estremamente misere della popolazione, il Governo aumentò di cinque grana il rotolo dell’antico dazio del sale.

Tutto ciò provocò una spinta al contrabbando, a tal punto che i magazzini regi rimasero chiusi per un certo periodo di tempo.

Questa situazione di generale indifferenza e la mancanza cronica di strutture economiche sufficienti in grado di dare opportunità lavorative alla popolazione, contribuivano a trasformare un popolo brutalmente sfruttato, a sua volta, in un popolo di sfruttatori e di parassiti. La maggior parte della gioventù della piccola e media borghesia che in altre nazioni costituiva il fulcro del progresso economico, sociale, culturale e politico, nel mezzogiorno era spinta, quasi totalmente, all’ombra delle Università, della Curia e delle Segreterie regie, trasformandosi, così, in una moltitudine di cancellieri, scrivanti, preti e suore.

Scriva Ferdinando Galiani: « Bisogna dire che tre sono i grandi mali della Calabria: la prepotenza dei baroni, la soverchia ricchezza della manomorta e la sporchezza, la miseria, la selvatichezza e la ferocia di queste città e di questi popoli. » (p 20)

Viene da dire, parafrasando il principe di Lampedusa, « plus ça change, plus c’est la même chose », ma oggi con la latitanza complice di tutte le istanze garanti eredi della P2. ( Per le riforme a-costituzionali e la P2 vedi qui, in particolare il cosiddetto Piano di rinascita democratica … cioè, al tempo della strategia atlantista del terrore, affiancata dal Gladio e dai Stay behind, e degli Anni di piombo.) E con il riciclaggio del denaro della droga che inquina tutto come ripetano il PM Gratteri ed altri.

Sappiamo che i Borboni sfruttarono l’isolamento indotto dalla morfologia geologica-geografica, specialmente in Calabria, per isolare il popolo. Si preferiva il cabotaggio lungo le coste. Commuove il racconto di Cesare Pavese nel suo La Luna e il falò quando, da ragazzino, passando oltre la sua valle natia che per lui rappresentava il suo intero universo realizzò che vi erano tante altre valli che costituivano il Mondo intero. Questa visione retrograda borbonica peggiorò con la Restaurazione. A tal punto che la prima strada tra Mongiana e Pizzo, impresa che durò una decina di anni – già a quell’epoca ! – fu iniziata nel 1837 per orgoglio reale dopo la polemica dell’articolista Giuseppe Del Re che nel 1834 aveva criticato l’isolamento del luogo e difeso l’importazione di ferro e prodotti di ferro inglese per la loro migliore qualità. (2008, p 54) Seguì una modernizzazione degli impianti della Mongiana. L’Inghilterra utilizzava il coke sin dal 1775 (idem, p 25) Con le stesse motivazioni, il Re ordinò l’inaugurazione dei lavori della ferrovia Napoli-Portici nel 1839. (idem)

Credo che si debba aggiungere il fatto che le prime ferriere importanti, incluso durante il periodo normanno, quelle di Stilo, patria di Campanella come la Turingia con i suoi minatori socialmente avanzati lo fu per Tommaso Müntzer, erano situate sul mare Ionio. In questo contesto De Stefano Manno riuscì a rintracciare la nascita di Serra: « Grazie alla cortesia di Dom Basilio, prendevo visione della donazione di miniere e forni esistenti nel Circondario di Stilo e Arena, fatta nel 1094 da Ruggero il Normanno a favore di Bruno di Colonia,Santo fondatore dell’Ordine Certosino.» (p 18) Sappiamo tutti la superiorità dei Normanni in materia di armi a quell’epoca. La posizione di Stilo risultò poco comoda rispetto a al porto di Pizzo per raggiungere Napoli, capitale borbonica nella quale fiorivano le altre attività siderurgiche militari e civili più sviluppate come a Pietrarsa. Ancora oggi la questione della localizzazione dei centri economici capaci di tirare il migliore partito dei flussi commerciali nazionali e internazionali, come Gioia Tauro e la sua zona industriale, tutt’ora vuota e intenzionalmente mal collegata al Nord Italia e alla Mitteleuropa con una ferrovia moderna (8) in modo da favoreggiare i porti del Nord e il hub ferroviere di Savona. Per non parlare del necessario Ponte sullo Stretto parte vitale del corridoio Palermo-Amburgo senza il quale non esistono vere sinergie tra Sicilia, Calabria e Sud continentale, un suicidio economico-sociale e culturale aggravato dal federalismo fiscale e dalla regionalizzazione europeista delle nostre « élites compradores ». Immaginare poi con l’autonomia differenziata forma riscaldata dal solito Maroni del « federalismo competitivo » renzi-gudgletiano.(Vedi qui e qui)

Nei fattori di localizzazione del mancato pieno sviluppo della siderurgia della Mongiana dobbiamo aggiungere la doppia questione della foresta e dell’acqua disponibile. Il taglio senza regole della foresta spiega in gran parte l’itineranza delle ferriere prima dell’era industriale. De Stefano Manno spiega bene il problema e da conto dell’evoluzione della gestione di questa risorsa. La prima legge forestale vera e propria data dal 1773 (idem, p 34) ma non ebbe rigorosa applicazione. I problemi causati dai tagli indiscriminati portò alla legge forestale organica del 1809. A quel punto, la foresta venne concepita come una fonte di risorse rinnovabili con tagli che dovevano avvenire per rotazioni di parcelle ogni 40 anni, lasciando in piede i cosiddetti alberi ”speranza”, cioè riproduttori, un concetto tutt’oggi cruciale. (2008, p 116) De Stefano Manno spiega pure che tutti i legni non producono i stessi risultati nelle ferriere, il faggio, con meno impurità, porta a produzione di migliore qualità, con un ferro più puro e più elastico, un gran vantaggio per la produzione delle canne dei moschetti e dei cannoni. « … è proprio il carbone di faggio il misterioso quid che migliora la resistenza meccanica del ferro mongianese. (idem, p 137) Il bello sta che la Mongiana dispone della foresta di faggio più pregiata, i suoi intorni essendo l’unico abitato naturale originale del monumentale e antichissimo faggio bianco.

Ambedue gli autori chiariscono « le condizioni di vita e di lavoro » (2008, p 164) Utilizzeremo qui le informazioni fornite da De Stefano Manno per la loro antecedenza e la loro completezza. Gli operai delle ferriere e fabbriche della Mongiana, come pure i minatori, ad esempio quelli delle miniere « site lungo la dorsale del Monte Stella di Pazzano » (2008, p 141), costituiscono un caso di studio raro di un settore chiave della produzione che lo diventerà ancora di più con l’affermare del capitalismo industriale. Da questa prospettiva, l’autore farà risalire la specificità dei stabilimenti come pure dell’architettura urbana della Mongiana rispetto alle esperienze in GB e sul Continente nel campo metallurgico. Malgrado il suo isolamento in montagna a 922 m di altitudine sul Monte Cima, la località di Mongiana fu scelta per l’abbondanza di legno e di acqua – con forte diminuzione del flusso durante i mesi d’estate – e per la vicinanza delle miniere di Pazzano. Il primo nucleo stabilito attorno alla ferriera e alle fabbriche data del 1771 ma il Comune di referenza rimase Fabrizia distante una decina di chilometri e senza mezzi di comunicazione, a parte le vie mulattiere. Solo nel 1852 Mongiana si vide riconoscere lo statuto di Comune se non altro per facilitare l’amministrazione civile locale fin qui saldamente in mano delle forze armate, anche se le miniere, le ferriere come pure la fabbrica di armi rimanevano sotto controllo del Ministero della Difesa, con scarsi interludi sotto il Ministero delle Finanze, realtà che spiega forse la mancata priorità data alle produzioni civili.

« Il centro abitato fu fondato l’8 marzo 1771 sul Colle Cima come residenza per operai, artigiani, impiegati, dirigenti e guarnigioni militari impiegati a svolgere attività produttiva nelle Reali Ferriere e Fabbrica d’Armi impiantatavi dai Borboni. Quest’ultima riusciva ad occupare fino a 2700-2800 persone. » (Vedi qui) De Stefano Manno specifica : « Lo ”statino” degli addetti alla ferriera nel marzo 1861 da 762 unità, otre a 250 carbonari, 90 minatori, 100 armieri, 110 mulattieri e bovari; e con essi tecnici e operai specializzati, dai capi officina ai macchinisti, ai forgiari, ai limatori, agli accieri, ai fornacieri, agli staffatori, ai ribattitori, ai raffinatori, ai magliettieri: un’occupazione di buona dimensione per quei tempi e talora di ottima capacità tecnica alla quale deve sommarsi lo stuolo di artigiani, di piccoli commerciati, di manovali generici che vi era collegati nei mesi di più forte produzione. » (2008, p 9) Si aggiungono gli altri artigiani e professionisti che si trovano usualmente nei piccoli centri urbani. Come vedremo a Mongiana tra questi erano inclusi i giudici, i maestri, un ”medico” e un farmacista.

Più ancora che per le Seterie di San Leucio, vale la pena sottolineare « le condizioni di vita e di lavoro » nei stabilimenti della Mongiana paragonandole con quelle prevalenti durante le stesse epoche pre-capitaliste e capitaliste in GB e sul Continente. Il regime francese dopo la Rivoluzione napoletana lasciò un forte segno che fu soltanto modificato con la Restaurazione. Ad esempio, a parte l’eversione del feudalismo, anche con il Codice Civile e l’uguale diritto di tutti gli eredi e con l’inizio di una riforma agraria, il regime Murat tentò di razionalizzare l’economia del Regno. Furono così create nel 1810 « le Società agrarie in ogni capoluogo di provincia, trasformate in società economiche due anni dopo con il decreto del 30 luglio 1812. Per quanto riguarda i servizi pubblici, bisogna ricordare quello postale (con il contributo dei Comuni) e la scuola pubblica primaria (gli stessi Borboni avevano avvertito la necessità di migliorare, per quanto possibile, l’istruzione dei sudditi. Con decreto del 14 agosto 1806, venne, infatti, stabilito di creare scuole gratuite al fine di diffondere l’istruzione primaria. Tra le altre innovazioni introdotte dal governo napoleonico, si possono ricordare sia la legge di eversione del feudalismo che quella di soppressione degli ordini religiosi, con l’obiettivo di creare un largo ceto di piccoli proprietari.

Purtroppo, poche famiglie ebbero la possibilità e la fortuna d’investire nella maniera più redditizia i loro risparmi, per cui i risultati non furono quelli previsti.» (2007, p 45)

Nel 1811 per sopperire alla mancanza di manodopera in quello luogo isolato in montagna, in particolare i minatori, si trasferì alla Mongiana « i lavoratori delle saline chiuse, esentandoli dalla tasse della patente e del testatico.» (idem, p 55) Oltre ai professionisti essenziali già menzionati, si pensò « istituire una Cassa degli Operai (che non ebbe, però, mai pratica attuazione), per l,assistenza di invalidi, vecchi, vedove, orfani e per le doti.» (idem)

« Difficile era anche ottenere animali per i trasporti. Si fece, allora, ricorso ad un espediente efficace; mentre da minatori, carbonai e fondatori, per essere mestieri duri, non si pretese nulla, a falegnami, forgiatori, staffatori, guardaboschi fu posta la clausola di presentare due muli, i cui servizi sarebbero stati retribuiti a prezzo di tariffa.

Il 2 giungo del 1811, il Governo emanò un decreto che esentava dalla coscrizione tutti cloro che ne facevano domanda, purché si impegnassero a lavorare negli stabilimenti di Mongiana.» (idem) A questi ”filiati” si conferiva pure « degli apprezzamenti di terreno e 40 ducati per costruire una barracca dove abitare. » (idem, p 39) In generale, sin da Carlo III « per assicurare la prima manodopera necessaria, si accordarono franchigie dall’autorità baronale e diritti di asilo, per cui anche i disertori ed altri fuorilegge furono attratti dall’iniziativa, costituendo la prima popolazione del luogo.» (idem)

Il De Stefano Manno da una interessantissima informazione sulla divisione del lavoro tra i mulattieri « filiati » di Mongiana e glia asinai della miniera di Pazzano. In genere, ai mulattieri era riservato il trasporto più pesante dei prodotti verso Pizzo o altri luoghi lontani, agli asinai quello dei sacchi di minerali e di carbone vegetale. Purtroppo, la produzione non era costante, voi i ritmi stagionali, voi le fluttuazioni della domanda, per cui, il comando militare doveva vegliare a mantenere una certa equità nel trasporto per « non fare mancare la sussistenza.» (2008, p 166)

A Mongiana l’orario di lavoro era di 8 ore al giorno. « Nonostante tutto, le condizioni di vita a Mongiana non raggiunsero mai i livelli drammatici registrati in altri paesi europei. Qui, anche in funzione dei gravosi compiti, rimase sconosciuto il fenomeno dello sfruttamento delle donne e il lavoro minorile si limitò a funzioni gregarie con orari e turni di lavoro blandi.» (idem p 167) I figli degli operai avevano accesso alla scuola gratuita che gli indirizzava verso il tipo di professioni adatte alla montagna e ai stabilimenti del luogo. Viene precisato che « è istituita una Cassa degli Operai, una specie di Previdenza Sociale ante litteram, che assegna pensioni agli anziani che abbiano prestato almeno 35 anni di servizio. (…) Riguardo alle operazioni assistenziali non bisogna credere che sia tutta farina del sacco del Governo, o che l’onere sia a carico dello Stato. Come oggi, così era ieri: le opere sono autofinanziate, a pagare sono gli operai e la Direzione trattiene un grana per ogni ducato da esse percepito.» ( idem, p 47)

I minatori erano pagati a cottimo.« Un minatore, non capo-galleria, percepiva 4 ducati ogni cento cantaia (circa una tonnellata!) di minerale consegnato all’esterno; in media riusciva a estrarre cinquanta cantaia la settimana e, quindi, riusciva a racimolare 8 ducati al mese. Se, come spesso accadeva, il lavoro veniva interrotto a causa di allagamenti conseguenti a piogge, era giocoforza risparmiare sui già miseri guadagni » (idem, p 171) I mulattieri e asinai erano pagati secondo il trasporto, sacchi ecc. « Rispetto a quelle di minatori, carbonai, trasportatori e operai, le paghe dei capi officina e degli specializzati, quali limatori, tornitori e modellatori, erano superiori del 20 per cento, attestandosi in media a 12 ducati al mese. Il raffronto delle paghe in vigore per quaranta anni, dal 1820 al 1860, evidenza solo lievi aumenti, ma c’è da tenere presente che durante il Regno borbonico la moneta era stabile, l’inflazione sconosciuta e il potere d’acquisto rimase inalterato. » (idem, p 172)

De Stefano Manno fa risalire un altro aspetto distintivo dello sviluppo pre-industriale e proto-industriale pubblico della Mongiana, cioè la sua architettura urbana. Se i stabilimenti e le strutture connesse – canali, salti dei fiumi, ecc. – erano determinati dalla morfologia e dalle tecniche allora disponibili, «le case degli operai» valgono di essere messe a raffronto con l’urbanità industriale imposta dall’alto, con buone intenzioni sempre paternalistiche e a volta eugenisti che, in Inghilterra e altrove sul Continente.« Non si tratta di una cellula abitativa standard, quanto piuttosto di una tipologia ripetitiva dello stesso schema, pur essendo tradito e adattato alle singole esigenze familiari. Siamo di fronte a una « architettura senza architetti »; l’intero paese si è sviluppato in un modo spontaneo lungo gli assi di penetrazione, sui declivi persistenti e intorno ai singoli poli produttivi. Il paese fu realizzato materialmente dai suoi abitanti-operai e solo i principali corpi produttivi furono disegnati da tecnici e realizzati da imprese edili.» ( idem, p 214) Abbiamo visto che, sin dall’inizio, gli operai ”filiati” o meno, dovevano provvedere loro stessi alle costruzioni delle loro ”barracche”.

Spiega l’autore: « Il rapporto operaio-fabbrica non fu codificato in termini spazialmente rigidi: mancò la capacità di produrre una istituzione tipica dell’organizzazione produttiva ottocentesca. In altri termini mancò la fabbrica-villaggio come universo avulso dal contesto ambientale, chiuso in proprie regole, proiettato verso un’effimera dimensione ”positiva”, tale da farla spesso assurgere a modello di nuova organizzazione sociale derivata dalla razionalizzazione dei processi produttivi della fabbrica stessa (…) mancarono i vari Ledoux, Renard, Saltaire, quelli cioè che avevano tentato di conciliare gli interessi del capitale con quelli della classe operaia. Costoro immaginarono organismi ”morali”, ricorrendo al linguaggio nobile di un neoclassicismo capace di superare, ma solo in astratto, ogni contraddizione. Per loro le fabbriche furono edifici ricchi di simbologia, mezzi di comunicazione ideologica, portatrici del nuovo messaggio di prosperità legato al nascente mito della macchina. » (2008, p 217) A Mongiana prevalse un tipico e individualista « élan vital » calabrese a compenso della scarsa pianificazione pubblica.

Per apprezzare l’originalità di questa « architettura senza architetti » vale forse la pena contrastarla con la costruzione post-terremoto del 1873 di Filadelfia, Calabria, un tipo di urbanesimo moderno pensato al tavolino – con ovvi richiami ad antichi schemi greci e romani – che influenzerà, ad esempio, molte Città nel Nuovo Mondo. (Vedi qui)

il sistema produttivo era sovra-determinato dalla gestione paternalista della forza di lavoro e dal regime protezionista. Non vi era « libertà del lavoro » nel senso marxista del termine, anche se, come nota l’autore, i grandi imprenditori inglesi e anglo-sassoni, specialmente nei settori siderurgici, erano « fautori dell’idea di liberalismo come sinonimo d’industrializzazione, (lasciando) intendere che tale libertà era un presupposto a operare fuori da qualunque costrizione, poiché una qualunque regolamentazione padrone-operaio avrebbe impedito il rapido e fruttuoso sviluppo dell’industria. » (idem, p 169)

La problematica era quella dello « sfruttamento scientifico della forza-lavoro » (idem, p 166) ma, ieri come oggi, questo ragionamento, valido dal punto di vista della composizione tecnica del processo di produzione, veniva portato avanti nell’unica ottica dell’accumulazione privata dei possessori dei mezzi di produzione. Di fatti, l’offensiva libro-scambista britannica atta a distruggere le barriere opposte dal Modo di produzione feudale allo sviluppo capitalista debbi subito fare i conti con la reazione protezionista, tipo Friedrich List, delle Formazioni sociali nazionali meno sviluppate. Oggi, con l’avvento nel Dopo-Guerra dello Stato Sociale – pianificazione, credito pubblico, imprese statali, monopoli naturali e previdenza sociale – il quale fece scaturire le cosiddette 30 Gloriose secondo Jean Fourastié, e con il suo disastroso smantellamento, accelerato sin dagli Anni 80, della competitività macro-economica garantita dallo Stato Sociale come base per una produttività micro-economica fiorente, pubblica o privata che sia. Non a caso, a parte l’epoca normanna, il mezzogiorno iniziò a svilupparsi realmente con la Prima Repubblica e la sua Costituzione che sanciva l’economia mista pianificata appoggiata dal credito pubblico e dunque capace di contrastare le disparità regionali. Se rimane vero che il Mezzogiorno fu il parente povero degli investimenti con una volontariamente fallita riforma agraria dopo la cacciata del PCI dal Governo nel 1947, tuttavia il disastro vero e proprio del nostro Sud risale alla privatizzazione di Bankitalia – 1981-1983 – che aprì la porta alle privatizzazioni e deregolamentazioni – IRI ecc – con una forte accelerazione dopo il vertice della Bolognina che coincise con l’adozione dello Trattato di Maastricht e la salita dell’ineffabile Draghi sul Britannia. (9) Il disastro del federalismo fiscale per i LEP e LEA si iscrive in questa logica; l’autonomia differenziata che abolirà de facto l’unità italiana, e che ci riporterà ad una frammentazione peggiore di quella che attristava Machiavelli, porta solo questa logica patologica al suo termine.

Ambedue gli autori menzionano l’attitudine degli operai e dei cittadini di Mongiana durante i vari moti storici. Dobbiamo comunque tenere conto del fatto che la gestione degli stabilimenti e del luogo era sotto controllo del Ministero della Guerra e del Comando militare. Si produceva sopratutto ghisa e armi. Sembra che il regime francese, con la sua modernizzazione in chiava anti-feudale socialmente orientata e protezionista, sia stato bene ricevuto anche se i Sanfedisti di Ruffo diedero priorità alla presa del luogo per la presenza della sua armeria. Duranti i moti del 1830-1831 Mongiana rimase calma. La Rivoluzione del 1848, la Primavera dei Popoli, vide l’occupazione momentanea della Mongiana dai rivoluzionari di Catanzaro anche loro attratti dalla sua Armeria. Non trovarono molto. « Gli storici si sono chiesti come mai i due cannoni non furono poi messi in campagna contro i borbonici e perché i ribelli, molto più numerosi, persero l’occasione di sconfiggere (il generale ) Nunziante. Forse, al di là della palese disorganizzazione dimostrata dai vertici della rivolta, ci si attendeva di più dallo stabilimento, sia in armi che in proseliti. Le attese sono andate deluse, pochissimi, tra cui Savino, hanno aderito fornendo più che altro appoggio morale. L’intera classe dirigente si è defilata e nessuno operaio ha voluto correre il rischio di essere radiato dall’unico stabilimento che in zona garantisce lavoro. Il solo Savino, uomo di maggior cultura e di dichiarate idee liberali, relegato in un avamposto dove le uniche attività culturali sono le quattro chiacchiere scambiate con i notabili del luogo, si è esposto in prima persona. Ma non pagherà duramente il suo essere liberale: deluso e costretto ad allontanarsi da Mongiana, sarà richiamato d’urgenza dalla Direzione che lo difenderà a spada tratta dalle accuse. » (2008, p 73)

Nel 1860, la guarnigione composta da 25 uomini contro una colonna di garibaldini di 1370 uomini non oppose resistenza. In seguito « Massimino ( il nuovo direttore liberale ) si trova a gestire una situazione esasperata dal mancato pagamento dei salari e si trova a capo di un paese aizzato all’alba del Plebiscito di Annessione dal risorto partito borbonico e dai preti scomunicatori dei liberali, diavoli negatori della religione, apportatori di fame e disonore. Tutto questo soffiare sul fuoco incendia gli animi. A Pazzano, tra il 5 e 6 ottobre, i mulattieri interpretano lo scontento al grida ”Viva Francesco II”. Tre giorni dopo appaiono nei boschi due bande di guerriglieri borbonici (…)

Cartina di tornasole del diffuso malcontento sarà il Plebiscito per l’Annessione del 21 ottobre. In tutta la provincia di Catanzaro, caratterizzata dalla vitoria del partito favorevole all’Annessione, escono dalle urne 615 voti contrari di cui più di un terzo proviene da Mongiana e Fabrizia dove, caso più unico che raro, la vittoria del ”No” è schiacciante. A Serra, invece, i ”liberali” prevalgono e dalle urne esce un numero di ”Si” di gran lunga superiore al numero totale degli aventi diritto al voto!» (2008, p 83)

Ma il malcontento continua. Il colonnello Massimino « propone ai rivoltosi di nominare un portavoce, la scelta cade sul commerciante De Marco. (…) Grazie al suo coraggio e alla presenza di spirito del suo interlocutore gli animi si raffreddano e il moto, pilotato dai preti, dai reazionari e forse anche dai stessi liberali, non ha conseguenze. La folla rifluisce alla notizia che le guardie nazionali di Serra e di Arena sono in marcia per sedare la rivolta e quando comprende che la notizia dello sbarco dei borbonici e priva di fondamento. » (idem, pp 84-85)

In 1870, in un tentativo di salvare la metallurgia di Mongiana ormai destinata alla chiusura, il Segretario comunale Zefferino Sadurny scrisse un lungo e dettagliato esposto nel quale fa risalire l’attitudine lodevole dei Mongianesi dato che sin dall’origine del centro abitato « fra questi abitanti non successe mai un delitto di sangue, non un furto, non un reato qualunque: anzi messi i poveri mongianesi in questi ultimi tempi a prove durissime, rispettano ancora come cosa sacra la legge, le persone, la proprietà e muoiono onoratamente di fame. Una sola macchia sembra che oscuri questa gloria tutta propria dei mongianesi, un attentato cioè contro la persona del compianto ingegnere di Mine Enrico Garban il quale resse a poco questo stabilimento, ma l’assassino che in un bosco esplose proditoriamente contro di lui un’arma a fuoco, che fortunosamente gli cagionò se non una lieve scalfittura al braccio, se rimase ignorato sfuggendo ai rigori della giustizia, non fuggì certamente all’universale esecrazione dei mongianesi. » (2008, p 103)

Forse quello che caratterizzerà di più la sorte di Mongiana dopo l’Unità, oltre alla sua prossima chiusura, è l’emergenza di Achille Fazzari, amico calabrese di Garibaldi e grande collezionista, presto in possesso degli stabilimenti della Ferdinandea, una figura che avrebbe potuto servire di modello a quella del sindaco parvenu don Callogero Sederà messo in scena nel Gattopardo dal Principe di Lampedusa. (Vedi 2008, p 190 e qui)

Il Reggente Domenico Fortunato Savino. « l’ingegnere costruttore » – 1864 -. come, prima di lui Francesco Giuseppe Conty – 1771- e il figlio Massimiliano Conty – 1791 -, il tenente colonnello Alessandro Massimino – 1860-1863 – e il maggiore Crescenzo Montagna – 1861 -, fu tra i direttori più marcanti del complesso metallurgico calabrese. Con un paio di altri ingegneri scelti, Savino, di origine salernitana, aveva compiuto un esteso viaggio di studi all’estero. « Sarà lui a rimettere in sesto le macchine, a redarre i progetti e a decidere la costruzione degli immobili nella forma giunta fino a noi. (…) è il progettista della Fabbrica d’Armi, il realizzatore della Caserma, della nuova Fonderia, di officine, strade, canali e, non ultimo, dello stesso cimitero in cui un giorno sarà sepolto. A lui si ci rivolge, timidamente all’inizio e poi di frequente, per dirimere controverse questioni tecniche. Savino è l’uomo dalle mille risorse che modifica e migliora macchine difettose, che realizza i carrelli mobili degli altoforni e che, su suggerimento di D’Agostino e Panzera, modifica e installa una macchina a vapore per immettere aria incandescente negli altoforni. E sempre lui ad ordinare una macchina a vapore per aumentare la forza motrice necessaria alla Fabbrica d’Armi. » (2008, p 68)

Queste qualità di adattamento e di inventività erano particolarmente necessarie a Mongiana non solo per l’isolamento in montagna ma anche per la seria di flagelli che la colpirano a ripetizione. Ad esempio, il terribile terremoto che colpì la Calabria nel 1783, l’epidemia di vaiolo del 1784-1785, le alluvioni del 1792-1795, il colera nel 1848, e di nuovo le alluvioni del 1854. (2007, p 12)

Possiamo concludere questa rapida sintesi di questi due libri importanti, sottolineando la qualità delle produzioni della metallurgia meridionale e particolarmente del complesso siderurgico della Mongiana. Questo non concerna solo le armi, notabilmente i fucili e moschetti, ma l’eminente contributo alla costruzione dei primi ponti sospesi in ferro e le prime navi a vapore. Non per niente, i due autori menzionano con rammarico come la qualità della produzione della Mongiana veniva premiata proprio nel momento in cui il governo piemontese avviava la chiusura. « 1862- Le miniere di Pozzano e gli stabilimenti di Mongiana vengono abbandonati, proprio mente le produzioni siderurgiche calabresi ricevevano riconoscimenti nazionali e internazionali (a Firenze, nel 1861 ed a Londra, nel 1862). Con legge del 21 agosto n. 793, il polo metallurgico di Mongiana viene inserito nella lista dei beni demaniali soggetti a vendita che averà 11 anni dopo, a seguito della legge del 23 giungo 1873. » ( 2007, p 171)

De Stefano Manno espone le innovazioni metallurgiche che furono necessarie per costruire il Ferdinandeo, il Ponte sospeso sul Gariglione progettato dall’ingegnere Luigi Giura e inaugurato nel 1832 e il ponte gemello Cristina inaugurato nel 1835. Furono allora superate le critiche indirizzate ai Napoletani dagli esperti esteri. In effetti, « Mentre si procedeva a sbancare le rive del Gariglione, causa il vento, a Parigi crollò il ponte sospeso progettato dal grande accademico Claude Louis Navier. Per precauzione, in attesa di essere rinforzato e tirantato, gli Inglesi chiusero al traffico il ponte in ferro di Driburgh sul Twed.» ( 2008, p 202) Gli ingegneri napoletani svilupparono processi innovativi per raggiungere la necessaria « rigidità rafforzata » in modo che se il Ferdinandeo era meno lungo « dall’inglese, dall’altra (parte) ha una luce, cioè la parte effettivamente sospesa, più lunga. » ( idem, p 202) Per finire, l’autore nota che « I Nazisti in ritirata, lo fecero salare e danneggiarono alcune delle catenarie. Sostituite queste, oggi il ponte costituisce un vanto italiano.» (idem, p 202) Fu così dal punto di vista tecnico per il ponte gemello, confutando similarmente « la vecchia nomea di produttori di materiale scadente » quelli di Mongiana « dimostrarono la superiorità di caldaie, ancore, catene, tubi, pompe, stufe, busti per monumenti e, da buoni managers, con un pizzico di legittima autoesaltazione dopo l’incessante pioggia di critiche, si fregeranno delle perfette fusioni delle travi e delle catenarie prodotte per il ponte Cristina sul Calore. » ( 2008, p 64)

Smentendo le accuse sulla « cattiva qualità dei manufatti e sull’imperizia delle maestranze meridionali, l’autore sottolinea come i Cantieri di Castellammare di Stabia « impostano e varano in meno di tre anni la pirofregata Messina ed ai cantieri San Rocco di Livorno ne occorreranno quattro per la gemella Conte Verde. In tre anni Castellammare vara la prima monocalibro del mondo la Dulio, e all’Arsenale di La Spezia ce ne vorranno quasi cinque per la gemella Dandolo.» ( 2008, p 88)

Mongiana sembra d’avvero essere la parabola del mancato sviluppo del nostro Mezzogiorno.

Paolo De Marco.

Note:

1 ) Il concetto di « ferriere itineranti » è dovuto a Brunello De Stefano Manno e al suo collega Matacena, 2008, p 26 . Si spiega per le condizioni di produzioni prevalenti prima dell’utilizzo del coke e dei trasporti moderni per il carbone e il minerale. L’autore cita il proverbio « pas de fer sans forêt » (p 27), e senza acqua … Ma servono pure strade, ferrovie e sbocchi marittimi.

2 ) Per la lista di questi comuni vedi www.parcodelleserre.it . Per i suoi megalitici, Nardodipace viene detta la « Stonehenge italiana ». Sembra che all’inizio degli Anni 1970 un incendio boschivo rivelò un tempio preistorico quasi intatto, che fu subito distrutto – forse per cancellarne la memoria o forse per altre ragioni meno ragionate -, le pietre essendo utilizzate per la costruzione di strade, vedi http://rivincitasociale.altervista.org/archeoastronomia-lelefante-campana-megaliti-nardodipace-la-citta-della-porta-altri-tesori-sconosciuti-della-calabria-06-marzo-2017/

3 ) Vedi www.museorealiferrieremongiana.it . Scrive il De Stefano Manno: « Ideata nel 1851, la Fabbrica fu realizzata nel 1852. L’edificio d’ingresso è interessante da molti punti di vista: innanzitutto è particolare il fronte, con la trabeazione interamente in ghisa, composto da due imponenti colonne, alte 4,80 metri. Interessate è inoltre l’architrave istoriato, fuso nello stesso metallo. Poi, l’articolazione dell’atrio, due colonne e quattro semi-colonne, sempre di ghisa, alte la metà di quelle esterne, compongono una sorta di serliana ”spaziale”. (2008, p 201)

4 ) Vedi sui Paolo Cinanni qui e la Nota 11 qui e su Rosario Migale qui.

5 ) Maria-Antonietta Macchiocca nel suo libro L’amante della rivoluzione, Mondadori, 1998, ne da un’analisi molto negativa, facendo di San Leucio una cosa ben diversa dello « Hameau de la Reine » Marie-Antoinette ma quasi un lupanare reale, uno « harem » organizzato, ignorando così il tentativo paternalista di creare nuove relazioni di lavoro pre-industriali, incluso la scuola per i giovani. Scrive la Macchiocca: « Si tratta di una colonia di lavoro vicino a Caserta nella quale il re aveva riunito una trentina di famiglie i cui membri erano impiegati in lavori agricoli e nella manifattura della seta. I lavoratori erano anche i gestori dell’attività. Le leggi erano state concepite per essere « atte alla felicità » e perfino i matrimoni dovevano essere basati sulla « libera scelta » degli sposi, svicolati dalle ingerenze dei parenti. L’usanza della dote era stata abolita e il re aveva messo a disposizione un’abitazione arredata per ogni famiglia i cui membri erano impiegati nelle attività lavorative. Inoltre, vi era la decisione regale per cui i beni lasciati in eredità fossero divisi equamente tra i beneficiari. Cosa straordinaria per l’epoca, si era stabilito che tutti i fanciulli imparassero almeno a leggere e a scrivere. Tuttavia, non bisogna mitizzare – come fecero molti intellettuali e giacobini di allora – questa sorta di sperimentazione sociale: in realtà la colonia di San Leucio costituì esclusivamente un originalissimo amusement du Roi. » p 133.

Rimane che San Leucio fu il più gran esportatore del Regno. Per parte mia, credo che si debba dare il giusto peso alla « reazione » provocata dalla decapitazione di Marie-Antoinette, la quale era la sorella della regina Carolina, sposa di Ferdinanda, subito caduta sotto l’influenza degli Inglesi tramite Lord Acton e la cortigiana Lady Hhamilton, per non parlare dei banchieri Rothschild e del tristemente celebre banchiere Andrea Backer, il quale tradì la Sanfelice.

Una idea più metodologica della rivoluzione partenopea e della monarchia borbonica dal punto di vista storico si trova nel Eleonora Pimentel Fonseca, di Antonella Orefice, Salerno Editrice, 2019.

6 ) Vedi IL CARDINALE RUFFO ed i suoi Briganti ( Mammone e Fra diavolo) – Cose di Napoli

7 ) Idem, p 33. Una tale decapitazione delle forze vive successe nel Meridione dopo la cacciata del PCI dal governo nel 1947 seguita dalla Conferenza nazionale democristiana di Venezia del 1949 che aprì la porta all’emigrazione di massa di oltre 2 milioni dei nostri concittadini, evento cruciale ben analizzato da Paolo Cinanni. L’emorragia si ripeterà in modo ancora più grave con la crisi dei subprimes del 2007-2008 quando il nostro Paese vide partire oltre 5 milioni di cittadini e lavoratori, sopratutto giovani.

8 ) Vedi Calabria sognata: Calabria, sognare quello che potrebbe essere in http://cotroneinforma.org/wp-content/uploads/2017/10/132.pdf , p 8

Vedi pure sulla mobilità moderna: http://rivincitasociale.altervista.org/mobilita-trasporti-cattive-strade-privatizzazioni-giungo-2018/

Per lo smantellamento dello Stato Sociale, vedi:

1 ) http://rivincitasociale.altervista.org/smantellamento-dello-stato-sociale-o-welfare-state-anglo-sassone-e-politiche-neoliberali-monetariste-viste-sotto-langolo-del-contratto-di-lavoro/ come pure la Categoria Lavoro del medesimo sito, e

2 ) Sulla Sanità: http://rivincitasociale.altervista.org/la-sanita-tra-tagli-e-corruzione-una-vittima-eccellente-del-federalismo-fiscale/ . Per i disastri del neoliberalismo monetarista versione Davos e Big Pharma, vedi pure: http://rivincitasociale.altervista.org/sars-cov-2-brevesflash-newsbreve/