Commenti disabilitati su EUROPA DELLE NAZIONI, EUROPA SOCIALE E COSTITUZIONE : Europa sociale o Europa del capitale ?

INDICE:

Prefazione

Introduzione

Esecutivo, Legislativo e Giudiziario; Consiglio, Commissione e Parlamento europei.

Democrazia partecipativa e democrazia industriale europee.

Coesione economica e Europa sociale.

A ) Filosofia generale: Europa sociale intesa come necessaria mediazione regionale.

B ) Parametri economici generali.

Strumenti specifici:

Come completare onestamente il dispositivo di coordinamento sotto-giacente ai Criteri di Maastricht ed al Patto di Stabilità?

Carta sociale fondamentale.

Difesa e politica straniera.

Immigrazione.

Preambolo e laicità.

Per ristabilire i fatti contro il nuovo oscurantismo sionista di destra.

Le radici umane e Adamo.

La genesi culturale nel suo sincretismo e la purezza di estrazione « divina ».

Mai cessare di questionare i propri presupposti.

Cosa sono il razzismo e l’antisemitismo?

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Prefazione

Ripropongo qui il mio testo del 2004 intitolato « Europa delle nazioni, Europa sociale e Costituzione ». Il testo originale in francese è accessibile qui: http://www.la-commune-paraclet.com/europeFrame1Source1.htm#europe .

Questo saggio si iscriveva nel contesto della critica del tentativo di imporre una costituzione europea nettamente neoliberale, spinelliana e filo-semita nietzschiana, movimento che diede luogo alla vittoria referendaria del NO in Francia del 29 maggio 2005. (https://fr.wikipedia.org/wiki/R%C3%A9f%C3%A9rendums_relatifs_%C3%A0_l%27Union_europ%C3%A9enne ) Si proponeva di concepire la necessaria integrazione pacifica europea nel quadro di una Europa sociale fondata sull’Europa delle nazioni, un obbiettivo oggi più urgente di prima. Lo spirito di integrazione qui proposto è uno di emulazione democratica ideato per favorire e generalizzare al livello europeo in modo cumulativo i migliori programmi nazionali. La base di questo processo di emulazione è l’opting out nel quadro di una chiara divisione dei poteri tra i stati membri e la UE e una chiara specificazione delle competenze governative tra Consiglio europeo, Commissione, Parlamento di Strasburgo, Corte europea e Stati membri.

Scrivere una rigida « costituzione europea » non è la strada più idonea per raggiungere questo meritevole obbiettivo, la flessibilità dei trattati inter-governativi rimane la strada migliore. Una costituzione può solo essere modificata, processo necessariamente arduo, un trattato può sempre essere rinegoziato.

La sconfitta referendaria di questo progetto costituzionale anti-democratico diede luogo ad un vero e proprio golpe istituzionale. In effetti, l’essenziale ne fu ripreso nell’attuale Trattato di funzionamento della UE senza consultazione dei popoli dei paesi membri. Perciò, nel leggere questo saggio basta pensare « Trattato di funzionamento della UE » la dove scrivo « costituzione ». Sottolineo che il Patto di Stabilità e di Crescita qui menzionato rimanda a quello negoziato da Chirac-Jospin, cioè ad un testo ancora compatibile con un programma socialmente progressista come quello della « gauche plurielle » con la sua legge quadro sulle 35 ore settimanali.

Per quello che concerna l’attuale cosiddetto Fiscal Compact, oggi tecnicamente nullo e non avvenuto perché non trascritto nel diritto europeo prima della scadenza, rimando al testo seguente: “Noi dichiariamo la morte del Trattato di austerità”, di Jean-Luc Mélenchon – Emmanuel Maurel – Younous Omarjee http://contropiano.org/news/internazionale-news/2019/03/07/noi-dichiariamo-la-morte-del-trattato-di-austerita-0113088

Il tentativo contro-natura di costruzione di una Europa spinelliana, neoliberale e monetarista è finalmente e miserabilmente fallito. Lo dimostrano la fine lamentabile del tentativo di imporre il cosiddetto « sentiero di consolidamento fiscale » – cioè l’austerità a tutto campo – e la gestione caotica dell’immigrazione.

E così arrivata l’ora di riaprire il dibattito sul necessario processo di integrazione europeo, dunque sulla necessaria costruzione di una Europa sociale ancorata nell’Europa delle Nazioni.

Il Trattato di Funzionamento della UE consolidato nel 2016, emana dal cosiddetto mini-trattato di Lisbona. Quest’ultimo fu imposto anti-democraticamente, cioè generalmente senza referendum, dopo la sconfitta referendaria nel 2005 del progetto di costituzione europea qui criticato, in Francia e nei Paesi Bassi. Anche il Trattato di Lisbona fu sconfitto per referendum in Irlanda nel 2008 ma poi approvato dopo pensanti pressioni europee in ottobre 2009. (https://fr.wikipedia.org/wiki/R%C3%A9f%C3%A9rendums_relatifs_%C3%A0_l%27Union_europ%C3%A9enne )

Perciò le mie critiche non hanno preso una riga. Basterà tenere conto degli effetti deleteri delle politiche della BCE – liquidità sotto forma di Facilities I e II, FSEF, MES,OMT, QE ecc- e del cosiddetto Fiscal Compact il quale aggravò l’austerità neoliberale-monetarista già contenuta nel Patto di Stabilità ( e di Crescita). Per questi ultimi vedi « Debito pubblico e sciocchezze marginaliste: il caso italiano », http://rivincitasociale.altervista.org/debito-pubblico-sciocchezze-marginaliste-caso-italiano-3-marzo-2017/ Per il sistema della finanza speculativa egemonica vedi il Compendio di Economia Politica Marxista nella Sezione Livres-Books del mio vecchio sito www.la-commune-paraclet.com e gli articoli pertinente nella Sezione International Political Economy del stesso sito.

Oggi alla denuncia del neoliberalismo monetarista filo-semita nietzschiano degli Eurocratici dobbiamo aggiungere la denuncia dell’assurda narrazione climatologica. Questa drammatizza un riscaldamento « globale » (?) del Pianta imputandone la colpa al CO2, cioè a tutti i « gentili » consumatori, mentre il CO2 è necessario alla crescita della vegetazione e delle culture. Poco importa se l’ « impronta ecologica » delle masse sempre più impoverite del popolo sia ridotta rispetto a quella dei loro dirigenti e dei loro vari servi in camera, come dimostrato dai Gilets jaunes in Francia. Si tratta solo, con centinaia e centinaia di miliardi di euro di sovvenzioni e di « certificati verdi » oggi finanziarizzati, aprire una nuova frontiera alle montagne di capitale speculativo oggi nuovamente confrontato alle contraddizioni del processo di accumulazione capitalista ed alla volontà maldestra e esitante delle banche centrali di uscire dei loro processi di creazione ex nihilo di moneta e di credito con vari tentativi di « normalizzazione », cioè il cosiddetto « reset ». (Vedi i testi disponibili nella Categoria « Ecomarxismo » di questo medesimo sito http://rivincitasociale.altervista.org , in particolare il testo intitolato « Clima e indottrinamento ». )

Paolo De Marco, San Giovanni in Fiore, Marzo 2019

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Le lettrici e i lettori vorranno pure consultare i documenti seguenti:

” Voyage à l’intérieur du projet de constitution “ www.humanite.presse.fr (11/09/2003)

” La Constitution sur l’avenir de l’Europe est au bord de la crise “ www.lemonde.fr (04/06/2003)

” La difficile remise en question de l’équilibre du Traité de Nice “ (idem)

” Une constitution pour sanctuariser la loi du marché “, Bernard Cassen, in Le Monde diplomatique, janvier 2004.

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EUROPA DELLE NAZIONI, EUROPA SOCIALE E COSTITUZIONE

Europa sociale o Europa del capitale ?

Introduzione

Ho vissuto tutta la mia adolescenza in Francia, paese di tradizione giacobina, e una gran parte della mia vita adulta in un paese federale. Benché lentamente maturati, i concetti di fondo di questo testo preliminare meriterebbero alcune elaborazioni. Pero questo esercizio di delucidazione, di approfondimento e, eventualmente di scelta, non avrebbe gran senso se non si istituisse sin dall’inizio come un lavoro collettivo. In tal modo, gli errori e le lacune anche grave, purché corrette come tali da una critica fondata e costruttiva, costituiranno dei momenti forti per il processo di riflessione razionale che ne seguirebbe (per parafrasare un motto sull’importanza degli errori a rilevanza metodologica di Schopenhauer sfortunatamente denaturato da uno Heidegger vittima della sua usuale furbizia di « dottore » nietzschiano e nazista.) Il tuono è « normativo », una scelta che non sorprende essendo questo testo una critica marxista del progetto costituzionale europeo. Dovrebbe andare da se che ogni testo costituzionale europeo situato a ribasso di una legislazione nazionale qualsiasi in materia di laicità, di difesa della proprietà collettiva alla pari con quella della proprietà privata, o ancora di diritti sociali fondamentali, dovrà essere scartata senza troppo cerimonie almeno finché questi crimini di lesa-cittadinanza non siano definitivamente corretti. Ne segue che nessuno testo costituzionale dovrebbe mai essere adottato prima di essere sancito dai parlamenti dei paesi membri, o meglio ancora, da un referendum in ogni paese membro. La stessa regola dovrebbe prevalere per i trattati specifici, ad esempio i Two and Six Pack ed il Fiscal Compact. Imporli con il solo voto in Parlamento, abusando pure dell’Articolo 11 contro la sovranità del popolo, è contrario alla lettera ed allo spirito della Costituzione italiana.

Introduzione.

Le contraddizioni fanno parte integrante del divenire storico. Non è sempre possibile ed a volta nemmeno desiderabile risolverle. Importanti sono allora gli obbiettivi principali e secondari assieme alle mediazioni istituzionali e politiche adoperate per raggiungerli, superando o preservando le contraddizioni iniziali.

La costruzione europea non si capirebbe senza l’accettazione preliminare di questo approccio simultaneamente dialettico e funzionalista. Il fallimento della Conferenza intergovernativa si spiega unicamente dal fatto che le mediazioni istituzionali proposte non erano adeguate. Questo è simboleggiato dal nervosismo sulla ponderazione indotta dall’Accordo di Nizza ma non può essere riassunto in esso. La posta in gioco è ben più seria. Da un lato, si tratta della natura sociale dell’Europa che ci viene proposta, e dall’altro lato dell’avvenire costituzionale ideato per essa, sia questo « federale » oppure « confederale », per utilizzare una terminologia convenuta. Nel contesto attuale, la posta in gioco principale consiste nel sapere quale equilibrio costituzionale sarà instaurato nelle relazioni di potere che prevaleranno all’interno di questa Europa.

Questo va ben oltre ad una semplice questione di equilibrio politico o di allocazione delle risorse. In fondo, nell’attuale tappa della costruzione europea, si tratta di niente meno che dell’indipendenza dell’Europa. Questa indipendenza deve essere garantita dalla coesione di tutti attorno ai suoi principali assi di integrazione, e di conseguenza, esige anche la preservazione dell’uguaglianza sociale di tutti i suoi membri, cittadini o Stati.

Se la costruzione europea si fece fin qui, e continuerà a farsi, passo dopo passo, la saggezza vorrebbe che nella fase attuale non si rimettesse in questione il concetto di « Europa delle Nazioni ». La priorità immediata consiste dunque a concepire il livello di coesione economica e sociale necessario per completare il dispositivo monetario – e di conseguenza necessariamente economico – dell’Euro, gestito dalla Banca Centrale Europea istituita con una larga autonomia in materia di gestione degli aggregati monetari.

Questa necessaria ricerca di coesione prese la forma di un progetto « costituzionale » mirato all’armonizzazione ed all’adattamento delle istanze esistenti. In questa ottica, i Criteri di Maastricht ed il Patto di Stabilità e di Crescita dovevano essere concepiti solamente come fase transitorie mirate essenzialmente all’implementazione ed al consolidamento dell’Euro come moneta comune. Ma, in realtà, questo cammino verso la costituzionalizzazione dell’Europa si compie in un quadro doppiamente contraddittorio: Avendo ammesso la Gran Bretagna nel suo seno, la UE non era più coerente con la creazione dell’Euro e della BCE. In effetti, la GB non appartiene alla Zona Euro. Non è dunque sottomessa alla sua disciplina benché contribuisse ad influenzarne fortemente le politiche economiche generali o settoriali. Questo è notabilmente il caso per quello che concerna le « direttive » adottate dalla UE e implementate in seguito indifferentemente da tutti i Stati membri, appartenenti o meno alla Zona Euro.

Oggi si aggiunge un allargamento formale accelerato che assomiglia a fare paura all’allargamento forzoso imposto dal Cancelliere Kohl alla Germania, con l’unico effetto duraturo dello smantellamento della vitalità incarnata nel cosiddetto « modello renano » che aveva prevalso fin qui. (Notiamo che con la caduta del Muro e poi con lo smembramento della USSR, né l’unificazione della Germania, né l’allargamento della UE all’Est, non sarebbero stati compromessi da un può più di moderazione e da un può meno di imperialismo massonico e brussellese. Al massimo, senza badare ad una corsa inutile vero un obbiettivo già in parte raggiunto, si doveva tenere conto degli interessi vitali della Federazione russa, anch’essa un grande paese europeo. In tal modo sarebbe stato rafforzato, in armonia con lo spazio economico europeo, il grande insieme stabilizzatore costituito dalla Comunità dei Stati Indipendenti, anche perché l’unificazione europea era già accettata da Mosca. Il disastroso impulso anti-russo è del tutto straniero alla logica europea razionalmente concepita.)

Queste nuove e antiche contraddizioni furono portate al loro parossismo dal miraggio costituzionale concepito come unico sbocco in vista della creazione della necessaria coesione. Fecero perdere di vista gli obbiettivi reali in favore di querele e di conflitti per così dire anticipati. L’evoluzione della costellazione delle forze interne all’Unione europea allargata, divenne un incubo. In tal modo il cammino costituzionale non poteva essere altro che la traduzione in meccanismi istituzionali, scolpiti nel marmo, di questa frivola e timorosa visione. Come d’obbligo il progetto costituzionale dovette pure scegliere una formula di modifica all’unanimità. Si riconobbe in tal modo l’intera difficoltà per l’Europa delle Nazioni compiere questo passo costituzionale almeno finché l’unanimità concreta non si sarà realizzata sulla questione dell’indipendenza europea, oppure sopra quella della compatibilità della coesione economica con il principio di sussidiarietà. Così l’Europa del capitale prevalse sull’Europa sociale desiderata dai cittadini.

Comunque questa doppia ricerca va avanti secondo i mezzi europei usuali. Citiamo come esempi i meccanismi di « cooperazione rafforzata » e le iniziative comuni ai membri della UE che desiderano parteciparvi, tali EADS, Eurofighter ecc. In oltre, sappiamo che 4/5 di tutte le leggi adottate dai paesi membri non sono altro che traduzioni nazionali delle direttive europee dettate con metodi per dire poco censitari. Per ora la UE sembra più uno spazio decisionale per i grandi azionisti europei e stranieri nonché un vero e proprio spazio democratico per i cittadini dei suoi popoli membri. Lo Spazio di Schengen non ha tanta difficoltà per imporre uno protezionismo umano realmente mal concepito sopratutto se si guarda ai tassi di fecondità sintetica che prevalgano nei paesi membri. Altre iniziative di più alto rilievo, ben che per ora sfortunatamente meno consensuali tra i dirigenti, puntano all’orizzonte, tale l’anticipazione di una difesa europea indipendente comune con la creazione di uno Eurocorps.

In ogni caso un processo istituzionalizzato dell’importanza di quello che condusse alla redazione del progetto costituzionale, per poi essere proseguito tramite le conferenze intergovernative, non può più essere scartato. Di conseguenza, conviene prendere atto dei suoi aspetti positivi. Nell’incapacità di risolvere tutte le contraddizioni, importa ricercare i mezzi più idonei per cancellare le più ovvie, cercando nel medesimo tempo le mediazioni le più adatte a l’epoca attuale. Queste devono potere sostenere la marcia armoniosa dell’« Europa delle Nazioni » verso una confederazione capace di assicurare la sua indipendenza politica ed economica nel rispetto dell’uguaglianza e della sovranità ultima di tutti i suoi membri e di tutti i suoi cittadini.

Esecutivo, Legislativo e Giudiziario; Consiglio, Commissione e Parlamento europei.

Andiamo subito al dunque: Il principale difetto del progetto costituzionale attuale consiste nel avere voluto scartare il dibattito sulla natura e la portata di un confederalismo compatibile con la preservazione dell’« Europa delle Nazioni ». Il prezzo pagato fu l’irriducibile confusione istituzionale che predomina per quello che riguarda il cuore del soggetto, cioè i rapporti tra i livelli esecutivo, legislativo e giudiziario europei. Da qui, la distribuzione dei ruoli (l’interpretazione istituzionale della sussidiarietà in Europa) come pure la distribuzione dei poteri non potevano non essere zoppicanti … potevano solo confondersi disastrosamente con la ponderazione demografica tra paesi membri, mentre non veniva trattato il problema del ruolo specifico del Parlamento europeo. Conviene dunque sgomberare questa confusione iniziale, assieme al suo fondo di commercio, cioè il timore di una Mitteleuropa. Dobbiamo pure sgomberare il miraggio di una federazione che tenderebbe inevitabilmente verso una omogeneizzazione esagerata.

Una ponderazione strettamente demografica all’interno del Parlamento europeo non presenterebbe nessuno pericolo, prossimo o lontano, purché i rapporti tra Esecutivo, Legislativo e Giudiziario europei siano chiaramente definiti.

Mentre condurremo questo esercizio, non dimenticheremo che le contraddizioni secondarie non devono essere concepite come degli ostacoli insuperabili purché le mediazioni appropriate siano ideate e purché gli obbiettivi vitali della costruzione europea – indipendenza politica e coesione economica – siano preservati. Così facendo vedremo che il concepimento del Consiglio europeo e della Commissione può essere semplificato e razionalizzato, in modo da indurre una reale presa in conto del ruolo del Parlamento europeo. Questo deve essere capace di rispondere al meglio ai desideri di tutti i cittadini europei in modo da potere cancellare con un certo tatto le diatribe scatenate dal vertice di Nizza. Questo permetterebbe in oltre la risoluzione della dolosa contraddizione tra Zona Euro e UE allargata. Si aprirà così la porta ad una dinamica imprescindibile, cioè quella della marcia differenziata dei vari paesi della UE allargata, senza minimamente mettere in pericolo la coesione ultima dell’insieme. Nel lungo termine, la magia europea, la persuasione con i fatti, opererà sempre il suo fascino in modo che l’integrazione non provocherà più nessuna lacerazione costituzionale.

(Nota aggiuntiva: Oggi, l’assenza di una tale distribuzione delle competenze esecutive e legislative come pure il sotto-sviluppo del Parlamento di Strasburgo fanno si che la Corte del Lussemburgo usurpa il ruolo del Parlamento. Detta la legge comunitaria a favore del capitale e delle élite filo-semitiche nietzschiane attualmente sovra-rappresentate, invece di limitarsi all’interpretazione delle leggi esistenti secondo le sue possibilità e le sue competenze proprie. Questo porta ad una armonizzazione pseudo-giuridica all’interno della Unione europea. Si tratta qui ben più di un processo subordinato alla difesa del principio della « concorrenza libera e senza ostacoli » che di una reale difesa degli interessi delle classe laboriose. E un processo pseudo-giuridico in un senso preciso perché fa astrazione della sovranità giuridica delle costituzioni nazionali dei paesi membri. La sovranità democratica dei popoli viene così surrettiziamente espropriata.)

I sostenitori sinceri del federalismo scartano ogni velleità di egemonia in Europa ma insistano sulla democratizzazione delle istituzioni e dei processi. Questo perché si tratta di ottimizzare le risorse dell’Europa nel rispetto dei contributi e dei bisogni specifici dei paesi membri e nel rispetto dell’uguaglianza intrinseca di tutti i suoi cittadini. Pero, il principio di sussidiarietà inerente al concetto di confederazione dell’« Europa delle Nazioni » non è per niente antitetico alla democratizzazione dell’Unione: ne costituisce invece il principio di base, il solo suscettibile di permetterne la realizzazione materiale, ovviamente a condizione che siano ben definiti il ruolo e l’estensione delle istanze e della spartizione dei poteri. In questo quadro preciso, la democrazia rappresentativa, troppo spesso confusa in modo riduttivo con l’insieme dei processi democratici, potrà operare secondo il suo principio vitale, cioè una/o deputata/o per ogni circoscrizione elettorale comportando più o meno lo stesso numero di elettrici e di elettori di ogni altra.

Durante la tappa attuale della costruzione europea, sembra che saremo « condannati » a funzionare con un doppio Esecutivo: da un lato quello del Consiglio europeo e dall’altro quello della Commissione europea rimodulata per agire come potere esecutivo nato direttamente dal Parlamento europeo. Questo non rappresenta uno difetto grave, al contrario. Questo raddoppiamento, funzionale ma non generale, permetterebbe di sopprimere una volta per tutte uno degli ostacoli maggiori alla democratizzazione dell’Unione europea.

Sappiamo che uno di questi ostacoli alla democratizzazione rileva dal peso demografico, necessariamente mutevole col tempo, di ogni membro dell’insieme statale europeo. Queste evoluzioni temporali imprevedibili influenzano il peso politico specifico di ognuno di loro. La democrazia rappresentativa di Strasburgo ne è la concretizzazione. In oltre, il Consiglio europeo, oggi per così dire simile ad una presidenza forte, continuerebbe ad agir come una Seconda camera (rinnovando in modo democratico e funzionale il ruolo attualmente devoluto ai differenti senati oppure alle camere di Stati o territori membri.) Come di dovere, la Commissione diventerebbe il potere Esecutivo nato direttamente dalla rappresentanza dei pariti politici e delle coalizioni di partiti democraticamente eletti al Parlamento europeo. Non sarebbe allora niente altro che un Gabinetto ministeriale avendo ufficialmente a sua testa il capo del partito politico che avrà ottenuto il più gran numero di elette/i, purché riuscisse a riunire una maggioranza parlamentare attorno ad esso. Altrimenti, il Consiglio europeo chiamerà il capo del partito della coalizione suscettibile di riunire una maggioranza parlamentare, e così via secondo i meccanismi ormai ben noti. Nondimeno questo avverrebbe con la dovuta attenzione all’eliminazione di ogni arbitrario, e di conseguenza delle possibilità di manipolazione di una istanza sopra l’altra. In ogni caso, il numero « sostanziale » di ministri derivato da questo sistema, oltre al Primo Ministro, sopprimerà il falso problema del numero di rappresentanti permanenti attribuito ad ogni paese membro all’interno di questo Esecutivo. Non importerebbe il ruolo ministeriale di ognuno di loro, perché tutti i Stati membri avrebbero la garanzia di essere rappresentati in modo egalitario all’interno del Gabinetto ministeriale. Nel caso, per definizione raro, uno Stato membro non sarebbe rappresentato nelle coalizione di governo si farà appello ad un tecnico del detto paese.

In questa ottica, l’essenziale consiste nel sapere quale ruolo e quali poteri saranno rispettivamente devoluti al Consiglio europeo ed alla Commissione. In effetti, questa questione suppone la definizione chiara della forma di sussidiarietà scelta dall’Unione europea. Di questa scelta non si può certo fare almeno, ma si tratta di una scelta che dovrà essere sufficientemente giudiziosa per conciliare realismo politico e uguaglianza tra paesi membri. L’esercizio non è poi così semplice, ma potrà essere benefico per la tappa attuale e di buon auspicio per l’avvenire dell’Europa purché non si perdesse di vista quello che fu detto al soggetto delle contraddizioni secondarie e delle mediazioni.

In generale gli Esecutivi attuali dispongono del controllo dell’iniziativa legislativa, i parlamentari essendo ridotti ad un ruolo sussidiario, di rubber stamp, in buon inglese. E un ruolo ancora confinato dalla disciplina di partito. Il parlamentare è semplicemente ridotto a presentare progetti di legge individuali tra i quali solo alcuni saranno ritenuti secondo modalità variabili per ogni Parlamento. In oltre, gli Esecutivi controllano le burocrazie e, di conseguenza, tramite loro, controllano i cruciali processi di raccolta e di articolazione dell’informazione necessaria all’elaborazione dei progetti di legge, come pure al loro pilotaggio parlamentare ed extra-parlamentare, cioè, in fin dei conti, alla loro messa in applicazione una volta questi progetti sanciti dal Parlamento e, a volta, direttamente dal Consiglio costituzionale.

Il Consiglio europeo disporrebbe dell’iniziativa legislativa esclusiva per tutti le competenze oggi rilevanti dalla regola dell’unanimità. Il vantaggio sarebbe di sopprimere tutte le pericolose divisioni che rischiano essere strumentalizzate da certi paesi membri o ancora dalle mass-media, oppure dai gruppi di pressione. Nel corso del tempo, la solidità della costruzione europea imporrà la revisione dei domini rilevanti da questa regola. Per ora, la diplomazia dei paesi membri opera come burocrazia specializzata all’interno del Consiglio europeo, benché il Consiglio europeo dovrebbe avere accesso a tutte le risorse burocratiche a disposizione della Commissione. Tutte le competenze non coperte dalla regola dell’unanimità rileveranno dalla Commissione o dal Parlamento europeo ma necessiteranno l’approvazione obbligatoria del Consiglio europeo nella sua capacità di Secondo Camera parlamentare: la Commissione inizierebbe i progetti di legge nei domini rilevanti delle sue proprie competenze, dopo di che questi progetti seguirebbero il percorso ordinario di prima, seconda e terza lettura con l’usuale passaggio da una camera all’altra.

In realtà, per appianare le difficoltà che confrontano le nuove dinamiche decisionali, durante tutta questa fase transitoria prevista, il Consiglio europeo otterrà un diritto di informazione preliminare per tutti i progetti di legge considerati dalla Commissione quando questi progetti esibiscono una incidenza specificamente economica o monetaria. Conviene sempre impegnarsi per conservare la flessibilità necessaria al sostegno della dinamica peculiare della costruzione europea. In questa ottica, per quello che concerna le legislazioni adottate nell’ambito delle loro competenze dalla Commissione oppure dal Parlamento europeo, i membri del Consiglio europeo, come pure i membri dei parlamenti nazionali, conserveranno il loro diritto di opting out. Ben inteso, questo rifiuto legale di partecipare a delle decisioni comune senza pero poterle bloccare sarebbe esercitato senza compenso finanziario ma anche senza nessuno trasferimento fiscale – punti fiscali – verso l’Unione. Un tale trasferimento è usualmente legato alla concretizzazione dei programmi specificamente europei che alcuni membri giudicheranno utile e benefico organizzare in comune.

Non fraintendiamo inutilmente il senso e lo scopo di questo opting out: E tutto il contrario di una Europa à la carta e dunque tutto il contrario di una dissoluzione della coesione europea. Questo perché l’opting out è solo una mediazione, l’esatto lato « negativo » ma probabilmente transitorio del processo generale verso una integrazione liberamente scelta, costruita per emulazione concreta. In fatti, preservando le dimensioni della sovranità dei Stati membri che caratterizzano l’« Europa delle Nazioni », questo opting out permetterà paradossalmente di inquadrare le necessarie cooperazioni rinforzate. Si favorirà così non una Europa da due velocità ma la costituzione di differenti cerchi di coesione già previsti da Jacques Delors senza pero che questi « cerchi » ( con al centro un nocciolo duro o meglio ancora dei pilastri) nuocessero o siano percepiti come suscettibili di nuocere alla coesione ed all’uguaglianza formale di ogni paese membro.

La regionalizzazione può certamente essere giudicata positiva sul piano amministrativo ma non dovrebbe essere strumentalizzata per dissolvere i Stati-nazioni attualmente esistenti in uno informe magma europeo destinato all’ineluttabile aggravio delle disparità economiche esistenti. Questi Stati-nazioni, depositari supremi della sovranità democratica dei loro popoli rispettivi – contro la sovranità di diritto divino, teocratica o meno, di pochi « esclusivamente eletti » – sono in realtà nati da un lungo processo di pacificazione culturale, spirituale e politica in Europa. Questa evoluzione progressiva data almeno dalla codificazione delle leggi della guerra – giusta o ingiusta -, dalla solidarietà tra le avanguardie dell’intelligenza europea e poi, sopratutto, dal Trattato di Westfalia il quale tentava di stabilire una bilancia del potere che portava con se il seme del concetto della « sicurezza collettiva » tra soggetti statali piccoli o grandi ma di pari dignità.

Con questo opting out si vieterebbe dovere costituzionalizzare quello che le federazioni chiamano « il potere di spendere ». Una tale costituzionalizzazione possiede tutto il potenziale per avvelenare le relazioni tra i paesi membri, a misura che sarà coniugata con i pseudo-problemi di una rappresentanza democratica mal definita con rispetto alla questione della distribuzione delle competenze tra i vari livelli di governo, oppure tra le differenti istanze decisionali all’interno del livello di governo considerato.

Per contro, in questa ottica dell’opting out, due cose si imporranno naturalmente: prima, il termine costituzionalmente previsto per l’esercisco dell’opting out da parte di uno Stato membro da un programma al quale avrebbe previamente deciso di partecipare; questo caso risulta diverso dal semplice opting out da un programma non ancora messo in opera, dunque da una scelta iniziale di non partecipare. Secondo, in casi specifici, l’enumerazione di eventuali penalità lascerà il posto alla considerazione dei compensi quando questi risulteranno necessari, in modo transitorio, per causa di disorganizzazione importante di un programma già in corso (ad esempio l’uso dei punti fiscali coinvolti.).

Tutti questi problemi possono essere risolti con le appropriate mediazioni: ad esempio, il termine per l’opting out di un programma esistente annunciato da un governo nazionale sarebbe di una durata massima di 6 anni – prendendo in conto il fatto che la durata normale di una legislatura sarebbe fissata a 5 anni. In questo modo, l’opting out eventuale diventerebbe automaticamente una posta elettorale interna, e dunque rappresenterebbe una decisione da fare sancire dagli elettori nazionali, i quali sono pure degli elettori europei. In altre parole, lungo da costituire una catastrofe, la dinamica del opting out permetterebbe un utile controllo democratico dell’approfondimento della costruzione europea.

Importa notare che questa concezione della costituzionalizzazione dell’Europa deve progredire con prudenza. Permette di relativizzare i problemi legati simultaneamente alla ripartizione dei poteri ed al peso respettivo di ogni paese membro. Oggi questo si rifletta nella complessità, se non nella confusione, delle istanze decisionali europee, e per via di conseguenza, nella paura sotto-giacente rispetto alle tentazioni egemoniche degli uni o degli altri, oppure, all’inverso, nel rischio di paralisi dell’Unione. Questi due timori sono simboleggiati dal rigetto degli « squilibri » instaurati al vertice di Nizza ed amplificati ancora dall’imprudenza e dalla mancanza di sagacità europea di certi paesi, giovani o vecchi, durante l’intervento illegale degli Stati-Uniti in Iraq.

Aggiungiamo che l’equilibrio istituzionale e democratico qui analizzato disporrebbe dei suoi propri contro-poteri interni secondo la geniale intuizione moderna di Montesquieu. Così, la sovranità di ogni paese membro sarebbe protetta in permanenza: in effetti, malgrado tutte le devoluzioni considerate ad un momento o all’altro – o più specificamente secondo le « epoche di ridistribuzione » socio-economiche considerate – il Consiglio europeo ed i Parlamenti nazionali disporranno di un diritto di veto, oppure in modo politicamente più plausibile, dell’opting out il quale, al contrario del veto, non provocherà danni agli altri membri.

In questo senso e secondo questi principi, per tutti i poteri devoluti al Parlamento europeo ed alla Commissione che oggi rilevano di decisioni presi alla maggioranza – o più esattamente che non rilevano dell’unanimità riservata alle prerogative del Consiglio europeo – si dovrà prevedere la possibilità, per il Parlamento europeo e per il suo Esecutivo proprio, di verificare la solidità democratica delle decisioni dei membri del Consiglio europeo che avranno utilizzato il diritto di veto contro la loro decisione democratica europea: questa verifica si farebbe per via referendaria presso l’elettorato dei paesi che avranno utilizzato il loro diritto al veto. Una vittoria di 50% più uno voto costituirebbe una sconfessione per i detti membri del Consiglio europeo.

In ogni caso questa strada sarebbe riservata a casi o dossier molto specifici. In oltre, né la Commissione né il Parlamento potrà scegliere questa strada senza avere ottenuto l’approvazione di 50 % dei Stati considerati rappresentare 60 % della popolazione, rispettivamente nel quadro dell’Europa allargata oppure della Zona Euro. Di più, la « devoluzione » definitiva – i.e., istituzionale – di una competenza che richiede l’unanimità ad una logica di maggioranza necessiterebbe l’unanimità di tutti i Stati membri oppure l’approvazione di ogni Stato implicato quando questa devoluzione sarà necessaria alla messa in opera di un programma comune.

All’immagine della PAC, programma che divenne consustanziale con l’Unione europea, conviene lasciare le tendenze di fondo e la verità dei fatti imporsi sul terreno come obbiettivazione concreta di un interesse comune, anche se potrà sembrare temporalmente imperfetto. Per contro, quando tutti i Stati membri saranno diventati membri a parte intera di programmi comuni – come la PAC – , la Commissione disporrà del potere di prenderne atto e di sancire con una semplice maggioranza la costituzionalizzazione europea comune di questo programma. I successi comuni si addizioneranno così ai successi comuni e serviranno da esempio. In questo caso preciso, il programma sarà reso perenne senza implicare il trasferimento di nessuno potere di spendere supplementare in termine di ratio del PIL sia rispetto al livello di finanziamento in vigore a quel momento, sia secondo una formula accettata all’unanimità da tutti i paesi membri. Questi Stati membri conserverebbero comunque il loro diritto all’opting out relativamente a scelte addizionali ulteriori. In altre parole, la sovranità statale di ogni Stato membro rimane il mezzo di controllo ultimo del budget specificamente europeo, senza pero fare artificialmente ostacolo alla marcia verso una coesione sempre più compiuta, né, ben inteso, provocare una breccia inaccettabile nel principio di sussidiarietà che costituisce il cuore del concetto dell’Europa delle Nazioni.

Democrazia partecipativa e democrazia industriale europee.

Abbiamo fornito qui sopra gli elementi fondamentali della democrazia rappresentativa cercando di adattarli all’Unione europea. Questi equilibri anche se sagacemente stabiliti non bastano. L’Europa non può esistere senza sviluppare al suo proprio livello la « democrazia partecipativa » e la « democrazia economica e sociale. »

La prima coinvolgerebbe istituzionalmente i gruppi di pressioni ed i sindacati in tutti i processi che implicano le competenze devolute al Parlamento (e dunque alla Commissione) come pure in tutti i casi di co-decisione. Per quello che riguarda il Consiglio europeo, almeno finché non abbia concesso la devoluzione di alcune delle sue competenze, i processi che lo riguardano rilevano necessariamente dei parlamenti nazionali. Oppure, secondo i casi, di grandi mobilitazioni da parte dei cittadini europei, a carattere parlamentare o extra-parlamentare. Questo fu il caso con il grande movimento di pace nato all’occasione dell’ultima aggressione imperialista contro l’Iraq.

In particolare, durante la tappa di raccolta dell’informazione necessaria alla formulazione dei progetti di legge, la Commissione dovrebbe avere l’obbligo di consultare tutti i sindacati ed i gruppi di pressione capaci di dimostrare una rappresentanza in almeno due paesi membri implicati dalla legislazione. Questi stessi gruppi dovrebbero ottenere il diritto irrevocabile di sottomettere le loro eventuali obbiezioni, critiche e ammendamenti ai Comitati parlamentari europei. Ogni volta che, per i progetti di legge in questione, questi gruppi riuscirebbero a riunire più di 50 % dei sindacati europei oppure dei gruppi di pressione dei paesi europei, questi Comitati parlamentari si trasformerebbero automaticamente in Commissioni parlamentari. In questo modo non cesserebbero di funzionare come Comitati parlamentari ma lo farebbero sulla base di una consultazione popolare e cittadina molto più ampia.

Lo sviluppo della democrazia partecipative europea esigerebbe ugualmente l’instaurazione e lo sviluppo di quello che ho chiamato « le istanze di controllo democratico ». Questo riguarderebbe tanto la protezione dei funzionari appartenenti alle burocrazie europee quanto quella degli utenti. Il sistema di ombudsman e di prud’homme deve dunque essere armonizzato verso l’alto. Nello stesso modo, i comitati cittadini di denuncia europei debbono potere rispondere alle aspettative dei cittadini in tutti i domini pertinenti (Interpol, polizia, guardia frontaliera, ecc.) Va da se che i cittadini siano rappresentati in maggioranza in questi comitati. La cosiddetta class action andrebbe rafforzata.

Ci sia concesso aggiungere due parole sulla problematica dei cosiddetti « servizi essenziali ». Oggi la destra abusa della versione di questa nozione tale che fu formulata nei testi riuniti nel mio Tous ensemble (disponibile nella Sezione Livres-Books del mio vecchio sito www.la-commune-paraclet.com ) Conviene dunque sottolineare la logica nella quale la mia propria formulazione fu avanzata all’epoca. Non farlo ammonterebbe ad associare tacitamente il marxista che sono a delle iniziative alle quali non desidero essere minimamente associato.

Non si può affatto trattare di restringere il diritto di sciopero. Il diritto di fare sciopero non è solo un diritto sacro in quanto rappresenta una delle grandi conquiste democratiche dei lavoratori, costituisce ugualmente un elemento essenziale per il funzionamento armonioso di ogni sistema economico. Il lavoratore individuale o collettivo dispone di una ricchezza, la sua forza di lavoro – il fattore di produzione lavoro se si vuole ! E dunque contrattualmente libero disporne secondo la sua volontà. Un lavoratore solo non conterebbe niente, da qui il diritto democratico di associarsi – diritto protetto dalla nostra Costituzione. Senza questo contrappeso all’arbitrario dei possessori degli altri Mezzi di produzione, l’equilibrio tanto paventato dagli economisti di regime sarebbe solo una truffa anti-democratica.

Storicamente parlando, nei paesi appartenenti al continente europeo oppure nei paesi anglo-sassoni, le leggi contro il principio di associazione dei lavoratori – anti-combine laws, in inglese – cadettero in parallele con i principi parziali inerenti alla democrazia liberale classica, per natura sessista e censitaria (cioè, aperta solo ai possedenti capaci di pagare il censo.) La borghesia riuscì poi a fare subire a questa concezione la sorte che fece subire a tutte le altre, una paziente, lunga e sistematica laminazione delle conquiste del proletariato. Così, gli aumenti di salari reali concessi con la mano sinistra furono subito ripresi con la mano destra grazie al paziente lavoro di talpa effettuato dall’inflazione, oppure con « la gestione » capitalista dell’entrata delle donne sul mercato del lavoro.

Quest’ultima venne effettivamente gestita in modo che i « focolari » – nuclei familiari – medi nei quali oggi lavorano due persone non guadagnano in generale la somma che una sola persona poteva guadagnare alla fine degli anni cinquanta. A questo si aggiunge la « femminizzazione » dei salari. Alla fine siamo confrontati con una situazione che non contribuisce molto né all’emancipazione della donna né a quella dei focolari. La parità di genere è cruciale.

In ogni caso, per quello che ci riguarda qui, lo Stato borghese, sdoppiato in uno Stato direttamente padrone, al seguito della nazionalizzazione delle imprese effettuata dopo la Seconda Guerra Mondiale, si trova confrontato ad una classe operaia e a dei funzionari dell’amministrazione pubblica molto combattivi. Si adopera allora a salvare la sua pelle di Stato di classe ritornando in modo sbieco al « tripartitismo » scaturito dal Trattato di Versailles all’indomani della rivoluzione bolscevica. Questo portò alla creazione della cosiddetta « monarchica » Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL). Nel suo seno ogni Stato, il padronato e i sindacati si ritrovano per tentare di portare avanti una « democrazia industriale capitalista » mirata a addomesticare i sindacati ed i lavoratori per mezzo di convenzioni collettive, ponendo pero lo Stato come arbitro supreme dei conflitti al nome degli interessi generali. Lo Stato di classe è così eretto come giudice e partita nei conflitti socio-economici.

Questo esercizio rischioso per lo Stato borghese lo diventa ancora di più per lo Stato Sociale – Welfare State – padrone delle sue proprie imprese pubbliche fortemente sindacalizzate. La neutralità poteva solo essere ristabilita usurpando per il conto dello Stato di classe, le rivendicazioni degli « utenti » e dei «consumatori », cioè inventando un surrogato dell’interesse generale capace di occultare con maestria il fatto che la maggioranza degli utenti e dei consumatori non sono altro che i lavoratori stessi.

Ogni legislazione relativa ai « servizi essenziali » minimamente equa mirerebbe inanzi tutto a ritirare allo Stato di classe la sua pretensione ad essere un agente neutrale mosso unicamente dall’interesse generale. Ecco perché, ogni legislazione relativa ad un qualsiasi « servizio minimo » deve rappresentare un passo di civiltà, cioè il riconoscimento da parte del capitale dei diritti imprescindibili del mondo del lavoro. In primo luogo, il diritto di sciopero con la condanna legale di ogni tentativo di intimidazione da parte del capitale. Questa clausola deve ugualmente estendersi al diritto per i sindacati di fare campagna presso i lavoratori non-organizzati per convincerli di aderire alle loro organizzazioni ogni volta che una impresa non disporrà di una rappresentanza sindacale legittima. Di più, nessuno « servizio minimo » dovrebbe restringere il diritto dei lavoratori a portare avanti scioperi legali ma efficaci, ritirando i loro servizi finché degli accordi negoziati in buona fede non siano stati conclusi.

In particolare, questo significa che gli utenti goderanno di un certo servizio, ma all’infuori delle ore di grande intensità – ore di punta nei trasporti collettivi, ad esempio. Il comportamento modello dovrebbe probabilmente ispirarsi da quello degli infermiere e degli infermieri; questi spesso senza legislazione specifica nella materia, dispensano di volontà propria quello che per vocazione sanno essere dei servizi essenziali. In effetti, pensare diversamente entrerebbe in contraddizione con lo spirito e la lettera di tutte le costituzioni nazionali dei paesi membri della UE: tutti riconoscono il diritto di sciopero come un diritto democratico fondamentale e di conseguenza come un diritto suscettibile di essere codificato in modo marginale senza contraddirne il principio stesso. La legittimità dei sindacati ne uscirebbe fortemente rafforzata di fronte a dei governi oggi sempre più duri con una forza di lavoro desiderata da loro spendibile a piacimento con la scusa della « mobilità del fattore lavoro » – fattore di produzione reso flessibile tramite « contratti di impiego » di durata iper-determinata. Il loro potere di pressione sul capitale ne uscirebbe rafforzato per tutte le azioni sostenute dalla base. Questo perché i sindacati rimarrebbero in controllo della situazione tramite l’uso di tattiche conosciute come lo sciopero zelante o lo sciopero a singhiozzo ecc, senza che lo Stato borghese possa indossare l’abito del campione neutrale dei diritti degli utenti.

Quando si ci confronta con una problematica del tipo di quella dei « servizi essenziali », non nuoce conservare in mente la sua origine: si pone sempre in contesti storici precisi secondo lo stato di sviluppo delle leggi vigenti sulle relazioni di lavoro, delle pratiche e della cultura industriale delle regioni e dei paesi in questione, come pure del peso delle alleanze di classe del proletariato secondo l’evoluzione specifica del capitalismo. Oggi le tendenze di fondo dello Stato capitalista, interamente preoccupato a diminuire il potere sindacale per favorire la « mobilità » crescente della forza di lavoro, consistano a propagandare un processo pacificato che congiungerebbe la « consultazione » e il « dialogo sociale » con le pratiche di conciliazione, di mediazione e di arbitraggio dei conflitti lavorativi.

« Natura non facit salta »: nondimeno nella pratica concreta, oramai da oltre tre decenni, va affermandosi una tutt’altra logica di classe, verificabile in tutti i paesi capitalisti avanzati, come pure all’interno dell’OIL. Questo tentativo di pacificare le relazioni di lavoro si riassume concretamente ad una larga preponderanza dell’arbitraggio con arbitri certo acconsentiti dai sindacati ma speso, se non sempre, nominati dal Ministero del lavoro. In tal modo, si liquida de facto il potere di negoziazione dei sindacati in favore di una visione tecnocratica della spartizione del prodotto del lavoro tra profitto e salario.

Ce da dire che la situazione essendo oggi molto degenerata, l’arbitraggio sembra un mal meno peggiore quando viene confrontato alla ristrutturazione chirurgica della forza di lavoro tale che sperimentata dalla AFL-CIO o dalla Chrysler per salvare questa azienda dalla competizione giapponese. Salvataggio avvenuto essenzialmente sacrificando più della metà dei lavoratori dell’azienda con l’accordo dei sindacati, questi ultimi accettando in oltre, ingenti riduzioni dei salari. Questo senza menzionare le leggi che impongo la ripresa del lavoro anche con pesanti multe finanziarie ogni volta che il capitale sceglie di lasciare marcire la situazione per forzare la mano dello Stato, teoricamente neutrale, costringendolo ad intervenire nei conflitti per via legislativa!

Abusando della sua maggioranza parlamentare, la destra può adottare la sua legge sui « servizi essenziali » se vuole purché la sinistra conservasse una coscienza chiara delle poste in gioco e purché si impegnasse, sin da oggi, a difendere la sacralità del diritto di sciopero, incluso appellandosi alla Corte costituzionale se necessario. In realtà, la sinistra dovrebbe prepararsi a riformulare la legge esistente per essere pronte a costituzionalizzarla nell’eventualità del ritorno al potere.

Detto questo, la questione più difficile rimane quella della stesura della lista dei servizi pubblici per i quali una legge sui « servizi essenziali » potrebbe essere mutualmente vantaggiosa per tutte le parti, senza nuocere al potere di negoziazione. Chiaramente, i servizi pubblici dispensati dagli ospedali non sono dello stesso ordine di quelli offerti dal trasporto collettivo urbano, né dalla SNCF. Il caso di EDF è più complicato. I sindacati dovrebbero essere incaricati con la stesura di questa lista. I criteri decisivi più ovvi sono la salute pubblica e la protezione delle infrastrutture, cioè il mezzo di lavoro – assieme alla preservazione dei diritti dei lavoratori a negare l’uso della loro forza di lavoro al padrone, ogni volta che le negoziazioni saranno ostacolate. In altre parole, si tratterà di una codificazione delle pratiche sindacali non-ufficiali oggi effettivamente praticate. Nessuna altra via sembra legittima e non rappresenterebbe una legislazione sul mondo del lavoro ma piuttosto una legge di esproprio del potere di negoziazione, un affronto inaccettabile alla legittimità dei sindacati.

Aggiungo che queste considerazioni non avranno una grande rilevanza se certi dirigenti sindacali, pronti a privilegiare il loro rapporto con il potere invece del loro dovere di rappresentanza della base sindacale, penseranno essere autorizzati a firmare degli accordi senza l’approvazione maggioritaria dei loro membri. Purtroppo questa è una sfortunata tendenza che va crescendo in Francia, in Italia ed altrove a misura che lo Stato borghese e il padronato si accaniscono per smantellare le conquiste sindacali e sociali anteriori, cercando nel medesimo tempo di trovare dei complici per legittimare le loro pratiche regressive. In un tale contesto, i sindacati come la FIOM hanno interamente ragione quando esigono il rispetto della democrazia sindacale intesa come autentico antidoto contro l’usurpazione anti-sindacale effettuata dallo Stato borghese in nome degli utenti. (Vedi ad esempio www.liberazione.it nel quadro dei scioperi nei trasporti pubblici iniziati a dicembre 2003, notabilmente a Milano.) A questo argomento si aggiunge la necessaria e ampia legge contro l’uso dei « crumiri » e la questione generica delle pratiche eque (fair trade practices).

Ogni sistema democratico moderne rimane tragicamente zoppicante senza la consolidazione di una autentica « democrazia economica e sociale ». Questo va ben oltre la vecchia democrazia industriale che accompagnò il sistema « tripartita » di ispirazione versagliese. Si tratta prima di tutto della questione della costituzionalizzazione europea del sistema di pianificazione indicativa e incitativa. Il resto seguirebbe logicamente con le modulazioni normali secondo il colore dei governi europei al potere.

Inanzi tutto l’Europa acquisterebbe una capacità a concepire la sua propria « longer view » – per usare la frase di Paul Baran. In se i lavori di questa Commissione europea di pianificazione indurrebbe gli economisti a stare alla lontana delle inettitudini troppo ovvie legate alla speculazione economica ed alle illusioni di una crescita sopratutto dovuta alle rotazioni monetarie in circuiti chiusi o per lo meno molto lontani dell’economia reale. In effetti, i stessi che svendono i « lemons » – viz Akerlof, Stiglitz et al. – necessari alla mobilità di una forza di lavoro precaria costretta a comprare a Wal-Mart, nel quadro delle zone di libero-scambio, vi parlano della predominanza dell’« economia dei servizi », o peggio ancora dell’ « economia immateriale », mentre le multinazionali ed i governi federali, regionali e municipali dei loro paesi de-localizzano in Asia i compiti ordinari che rilevano delle burocrazie pubbliche o private (offshoring and outsourcing).

Questi economisti dello serraglio mostrano così la loro profonda comprensione nietzschiana di quello che ho chiamato, contro loro, « la scala del valore aggiunto » ideata secondo i dati dell’IAS o con più di precisione sulla « sovrappiù sociale ». (V. il mio Livre-Book III intitolato Keynesianism, Marxism, Economic Stability and Growth, in Download Now, sezione Livres-Books di www.la-commune-paraclet.com ) Pensiamo, ad esempio, alle somme esorbitanti rappresentate dai prodotti derivati, i quali valgono spesso solo per l’opacità bancaria che protegge i loro montaggi sui quali le banche centrali evitano chiedere dettagli. Per sfortuna questa pseudo-moneta vale come vale l’oro quando entra nell’economia reale, dato i mezzi considerabile che fornisce per gli LBO ed altre OPA interessate dal corto-temine; o peggio ancora, quando scoppiano le bolle speculative provocando allora l’iscrizione concreta dei loro montanti nei bilanci delle banche centrali, dei fondi mutuali e delle imprese, e di conseguenza, nel risparmio individuale e collettivo dei lavoratori e della comunità in generale.

Gli economisti più in vista ed i governi neoliberali ci vedono solo il miraggio della crescita del « PIL », nello stesso modo in cui i piccoli giocatori in borsa si felicitano ingenuamente della crescita del Price/Eearning ratio (P/E). Comunque dovrebbe essere intuitivamente chiaro per un paese come i Stati Uniti, con una popolazione nel 2002 di 291 milioni di abitanti, che non può essere gestito come Singapore. Lo stesso vale per la UE. L’evoluzione storica dei settori primari, secondari e terziari in Occidente non dovrebbe portare la gente sensata a farsi illusioni. La pianificazione bolscevica come pure le pianificazioni occidentali in tempo di guerra hanno fornito una lezione inestimabile in questa materia, particolarmente durante la Seconda Guerra Mondiale. Questa necessitò la mobilizzazione di oltre 60 % della ricchezza nazionale americana e delle risorse degli altri paesi in guerra, contro soltanto il 10 % nei paesi più avanzati durante la Prima Guerra Mondiale. La mano invisibile del mercato produce enormi sprechi dato la priorità alla soddisfazione dell’interesso privato: sprechi e interessi privati non sono accettabili in tempo di guerra, nemmeno per uno Stato capitalista, perciò il ricorso alla pianificazione.

Con Formazioni sociali più moderne e più complesse diventa allora evidente che la priorità data ai Mezzi di produzione (MP) per la produzione di Mezzi di produzione, era primordiale per raggiungere una efficienza massima in un tempo record, almeno finché l’approvvigionamento in energia ed in materie prime seguiva senza ostacoli. Si tratta qui della cosiddetta industria pesante staliniana soggetta ad un vilipendio privo di ogni buon senso da tanti sempliciotti capaci di confondere con usuale anacronismo la USSR degli Anni Trenta con l’economia avanzata dei Stati-Uniti degli Anni Sessanta.

Le rivoluzioni informatiche coniugate a quelle delle telecomunicazioni operano in parte come nuovi MP implicati nella produzione di MP nei tre grandi settori primario, secondario e terziario. Ne segue che l’eviscerazione di questa relazione organica con l’accelerazione delle delocalizzazioni industriali potrà solo indebolire le economie costrette a svilupparsi all’interno di Formazioni sociali nazionali o sovra-nazionali, a differenza delle enclave marginali capaci di specializzarsi in un numero ristretto di filiere intermedie di importanza strategica per il commercio internazionale. Singapore può crescere come uno gigantesco magazzino, ma rappresenta il caso limite di una Città-Stato .

Ben inteso, la necessaria e rapida conversione dell’economia di guerra in una economia parzialmente di pace confermò la grande lezione impartita durante la Grande Depressione: In tempo normale, l’economia non può conservare la sua viabilità e la sua vitalità senza appoggiarsi sul ruolo trainante dei settori intermedi. Questo implica il rafforzamento della domanda effettiva – come pure la canalizzazione pubblica del risparmio interno per mezzo dei programmi sociali. In tempo di guerra questi settori intermedi vengono sostituiti con la produzione di armamenti in gran parte finanziata con il debito pubblico. Per la vitalità dell’economia o per l’aumento dello standard di vita dei cittadini, la delocalizzazione di questi settori intermedi non è dunque di un migliore auspicio di quella dei settori dei MP.

Ben inteso, malgrado questi insegnamenti forniti dalla Storia, gli interessi egoisti di classe rendono spesso ciechi. Così, i neoliberali e i monetaristi più legati alla globalizzazione capitalista asimmetrica, danno priorità ai loro propri interessi particolari. Continuano a concepire l’economia secondo il paradigma del settore agricolo americano, capace, come sappiamo tutti, di enormi sovrapproduzioni con la creazione di gigantesche profitti, ma impiegando meno di 3 % della popolazione attiva. Pero questo paradigma non vale un gran che per le nazioni e per i cittadini considerati nel loro insieme. Semplicemente, sopra una tale fragile base, nessuna politica reale di ridistribuzione sociale compatibile con una democrazia avanzata si avverrà possibile, a fortiori una ridistribuzione fondata sulla spartizione del lavoro socialmente disponibile. Rimarrebbe allora come unica alternativa la spartizione della miseria tra la massa dei cittadini con la reintroduzione della schiavitù salariata moderna e della nuova domesticità, ambedue mascherate per un tempo con le illusioni ideologiche di una versione o un’altra del « reddito annuo minimo garantito » immaginato proprio dai monetaristi, ed in particolare da Milton Friedman.

Quello che vale per l’economia americana vale immancabilmente per tutte le economie che imitano il suo modello anche se con quasi due decenni di ritardo – forse molto meno oggi per causa della globalizzazione. Aggiungiamo che questa relazione intima tra settori primario, secondario e terziario crea dei vincoli inevitabili che rimandano alle relazioni tra variabili in tutti i sistemi fondati su un insieme di variabili interdipendenti. Così l’aumento della taglia del settore terziario a scapito dei settori primari e secondari può avvenire unicamente sulla base della precarietà e della pauperizzazione crescente della forza di lavoro e dei focolari, e sulla base di una pauperizzazione senza limiti per un nuovo lumpenproletariat e di una nuova « cour des miracles », non importa se questa ultima sia cacciata in periferia dai vari sindaci Giuliani e dalle loro forze di polizia oppure nei visceri delle stazioni della metropolitana.

La crescita statistica degli impieghi precari e di bassa gamma, oppure del « self-employment » (cosiddette partite IVA ), cioè di un’altra forma di precariato o di tempo-parziale mascherato, erano prevedibili sin dall’origine della rivoluzione monetarista di Volcker-Reagan. Si conferma oggi con un masochismo elitario di cattivissimo stampo. Questo dovrebbe provocare un ritorno salutare alle leggi dell’economia reale prima che i limiti all’accumulazione del capitale, lasciato a se stesso su scala planetaria, no portassero ineluttabilmente ad una nuova e gigantesca conflagrazione, aperta o larvata che sia. (v. “Les conséquences socio-économiques de Volcker, Reagan et Cie”, come pure Tous ensemble, nel mio vecchio sito www.la-commune-paraclet.com, rispettivamente Sezione Economie Politique Internationale e Sezione Livres-Books.)

Questo ritorno all’economia reale implicherebbe per lo meno la considerazione sistematica dei settori, delle industrie e delle filiere produttive. Al livello europeo, questa conoscenza approfondita permetterebbe a tutte le istanze europee, notabilmente all’Antitrust ed al Rappresentante europeo per le grandi negoziazioni commerciali e internazionali, di operare con una maggiore trasparenza. La partecipazione istituzionale dei sindacati ne uscirebbe rafforzata. Conferirebbe tutta le legittimità necessaria all’Europa per fare prevalere, almeno al livello europeo, una nuova concezione dell’anti-dumping, coniugata con il pieno-impiego, almeno nelle filiere giudicate strategiche.

Per le altre, l’apertura alla competizione internazionale averebbe in funzione dei bisogni di importazione di nuove tecnologie, oppure in funzione della possibilità verificata delle altre filiere di assorbire i volanti di manodopera così liberati, senza sacrificare la qualità degli impieghi e la qualità di vita dei lavoratori. Andrebbe da se che in un tale sistema gli aiuti come pure gli esoneri elargiti alle imprese sarebbero iscritti sin dall’inizio in una strategia industriale europea. Questo militerebbe in favore dell’adozione al livello europeo dell’equivalente della Legge francese per il controllo dei fondi pubblici versati alle imprese, in modo da responsabilizzare gli attori economici. Pensiamo qui, ad esempio, alle politiche delle grandi opere oppure l’impiego dei fondi strutturali. (Vedi a questo proposito il mio articolo « Riforme democratiche rivoluzionarie o lamentabile Ronzinante del riformismo? » in http://rivincitasociale.altervista.org/riforme-democratiche-rivoluzionari-lamemntabile-rossinante-del-riformismo/ ; questo articolo fu originariamente pubblicato nella seconda parte del mio Tous ensemble, in Downlaod Now nella Sezione Livres-Books del mio vecchio sito www.la-commune-paraclet.com )

(Nota aggiuntiva: La nuova definizione dell’anti-dumping deve essere considerata come un’urgenza. Deve mirare a proteggere le tre forme del reddito globale netto dei focolari, cioè il « salario individuale », il «salario differito » (ammortizzatori sociali e pensioni) ed il ritorno delle tasse ai focolari dei trasferimenti ai focolari sotto forma di programmi sociali pubblici e universalmente accessibili, e l’accesso alle infrastrutture pubbliche, etc.)

In parallele con la Riduzione del Tempo di Lavoro (RTL), una tale anti-dumping riabiliterebbe i contributi sociali prelevati sulla busta paga lorda, consolidando nel medesimo tempo la base fiscale. Il vantaggio di una tale definizione dell’anti-dumping proverrebbe dal fatto che non necessiterebbe nessuna rinegoziazione, un processo sempre lungo e laborioso visto la regola dell’unanimità alla OMC oppure nella UE. In effetti, permetterebbe semplicemente interpretare i suicidi trattati di libero-scambio esistenti trasformandoli in trattati di commercio equo – fair trade.

Sappiamo che la definizione dell’anti-dumping in vigore fu immaginata all’interno della OMC per accompagnare in modo sotterraneo il libero-scambio corto-termista globale, sopprimendo preventivamente ogni ricorso mirato a proteggere le conquiste sociali dello Stato Sociale o del Welfare State anglo-sassone. Perciò furono escluse d’ufficio dai suoi calcoli ogni referenza alla OIL – leggi e norme minime del lavoro – assieme ai criteri ambientali.

Da qui segue l’implementazione al livello mondiale dell’inetta « funzione di produzione » di Robert Solow – diciamo più precisamente Solow-Friedman. Questa viene scritta Y = f (K,L) dove K è il capitale e L rappresenta il lavoro disponibile immediatamente oppure in situazione di pieno-impiego, uno ragionamento infra-keynesiano di una inettitudine inconcepibile. Ma, in realtà, cinicamente calcolato in modo perfettamente massonico nel senso dell’aggravio delle derive già iniziate con il cosiddetto « keynesianesimo bastardo » tale che ideato da Hicks, Samuelson ecc. L’espressione fu coniata dagli neo-ricardiani della Cambridge, UK per caratterizzare la sintesi regressiva neo-classica. E noto ed allo stesso tempo emblematico che rispetto alla Teoria generale come pure al Fennegans Wake di James Joyce, Samuelson andava dicendo che desiderava disporre di un riassunto …

La sua funzione di produzione dimostra che Solow non aveva capita un bel niente a Keynes, né nella versione originale né nella versione detta « bastarda » : a meno che, ben inteso, secondo il vecchio approccio anche utilizzato a scapito mio e modestamente verificato da me, non desiderava semplicemente rovesciare la logica …. per effettuare un ritorno alla Tradizione … Non di meno questa funzione di produzione valse il Premio Nobel al suo pitre di autore – per il suo articolo del 1956 , il quale pretende essere una confutazione di Keynes e di Harrod, ma che in realtà non vale la carta sulla quale fu stampato, in particolare per quello che concerna il ruolo economico della tecnologica. Questo perché rimane molto al disotto delle critiche offerte da Sraffa sin dall’inizio degli anni 20 con rispetto ai rendimenti crescenti e decrescenti. Basta costatare che per Solow la tecnologa può solo essere introdotta in modo esogeno. Questo è un problema logico letale, rimanda alla contraddizione ex-ante/post hoc inerente a tutte le forme di economia borghese: la tecnologia ha un prezzo che deve essere fornito dal mercato, dunque in modo organico.

Per capire il ruolo economico fondamentale della tecnologia si deve capire la teoria delucidata della produttività razionalmente inserita nella Legge del Valore e nelle Equazioni della Riproduzione Semplice ed Allargata di Marx, che io fui il primo ed il solo ad esporre scientificamente.

Notiamo senza cerimonie che l’inettitudine della « funzione di produzione » di Solow applicata su scala globale è verificata ogni giorno dal comune dei mortali: basta notare che mette in competizione diretta i lavoratori tedeschi e francesi – e, una volta, italiani – con i loro più o meno 10 euro orari più i contributi sociali e la parte dei prelievi fiscali, non solo con quelli dell’Europa dell’Est – attorno a 3 euro orari – ma anche con il mezzo miliardo di compagni Dalits in India retribuiti a 0,50 cent orari, senza servizi sociali e ridotti ad una speranza di vita media di 40 anni. Questo perché l’equilibrio marginalista, dunque anche quello razor-hedge di Solow – riposa sopra la nozione di una soglia fisiologica, mentre sappiamo tutti che tale soglia è anch’essa elastica … Sappiamo che la longevità media all’interno dei paesi sviluppati ha cominciato a rallentare; un calo è pure statisticamente percepibile in un contesto nel quale gli operai muoiano da 7 a 11 anni in media prima dei loro dirigenti, secondo la loro professione.

Ben inteso, questo genere di equilibrio marginalista non è concepibile se non si ribassa il lavoratore allo statuto di un mere « fattore di produzione » soggetto ad una flessibilità ad oltranza e liquefattibile sotto forma denaro – incluso oggi la moneta elettronica scambiata con un semplice clic sulla Borsa globale grazie al Big Bang borsistico che coinvolge oramai anche i cash flow giganteschi delle MNC nel contesto della loro logica del profitto di corto termine o Roe. E tutto questo non rende neanche conto delle crisi, sopratutto delle crisi economiche-speculative, dato che nessuna teoria marginalista è ontologicamente o metodologicamente capace di differenziare tra interesse e profitto e dunque tra economia reale e economia speculativa. Il « credito senza collaterale » – v. sezione International Political Economy in www.la-commune-paraclet.com – non entra neppure nel suo campo ottico, nemmeno quando rovina i Stati sovrani tramite gli assurdi CDS sul debito pubblico, l’ultima scoperta nella cassetta con le papere ideologica del marginalismo neoliberale. In somma, si ha il PIB che si merita … Il resto, filo-semita nietzschiano, è diffuso generosamente in questo tipo di mondo, un’altra volta con la solita chutzpah, aldilà del bene e del male … )

Similarmente, questa pianificazione per lo meno indicativa e incitativa permetterebbe la massimizzazione di nuovi strumenti economici europei post-keynesiani da inventare o, a volta, da rivitalizzare secondo una ottica nuova.

Ad esempio, il Fondo di investimenti europeo contro-ciclico da creare attingendo ad una parte delle riserve della BCE. (Ogni anni la BCE riversa delle somme gigantesche alle banche private tramite le banche centrali dei paesi membri.) La sua funzione principale sarebbe di permettere alle istituzioni bancarie e di credito sostenere, fuori del bilancio dello Stato, una politica contro-ciclica senza esporre la UE ad un calo della notazione del suo « rischio sovrano ». Permetterebbe pure, in caso di necessita, di intervenire in proprio, ad esempio, affiancando la creazione di grandi consorzi europei capaci di portare a buon porto le operazioni di consolidamento e di rinnovazione infrastrutturale tramite la tecnica dei « swap debito contro azioni ». Questo avrebbe il vantaggio supplementare di alleggerire il budget dei Stati membri risparmiandoci il ricorso, attualmente in voga, ad una fiscalità regressiva cieca. (In questa ottica precisa, i swap debito contro azioni furono proposti nel mio Tous ensemble. Nello stesso ordine d’idea, avevo anche dimostrato come rilanciare con poca spesa pubblica la necessaria nuova politica per l’alloggio sociale.)

A più lungo termine, vediamo che la visione indotta dal sistema di pianificazione indicativa e incitativa permetterebbe una gestione più raffinata dei settori come pure delle industrie considerate grazie alle Soglie Tobin. Queste soglie completerebbero il dispositivo di inserzione nell’Economia Mondiale, un processo che sarebbe già consolidato, dal punto di vista dei lavoratori e delle imprese realmente produttive, con l’adozione della nuova definizione dell’anti-dumping qui proposta.

Nel mio Tous ensemble avevo illustrato il sistema « quadripartito » fondata su i Fondi Operai e le Soglie Tobin. ( Ben inteso, il credito pubblico tramite un polo finanziario-bancario pubblico giocherebbe un ruolo simile a quello dei Fondi Operai.) Nel momento in cui i Fondi Operai sarebbero controllati a maggioranza dai lavoratori stessi con il mandato specifico di appoggiare le imprese nazionali o semplicemente quelle presenti sul territorio, si vede subito il ruolo positivo che potrebbero assumere nella implementazione di un nuovo sistema di regulation economico fondato sulla spartizione del lavoro. Dato che nessuna nazione può vivere a lungo al di sopra delle sue capacità, questa andrebbe giustamente di pari passo con la produttività microeconomica e la competitività macro-economica più grandi possibili per una dato Formazione sociale inserita nell’Economia Mondiale.

Coesione economica e Europa sociale.

A ) Filosofia generale: Europa sociale intesa come necessaria mediazione regionale.

Nella fase attuale della costruzione europea, con o senza costituzionalizzazione, la priorità va al compimento dei cambiamenti iniziati con l’implementazione dell’Euro. Questo richiede la coordinazione delle principali politiche economiche, tenendo conto che i testi giuridici che concernano l’Euro impediscono de facto alla UE la suicide confusione intrattenuta nei Stati-Uniti tra politica monetaria in quanto tale e politiche economiche e sociali. Gestione monetaria e politiche monetariste sono due cose molto diverse. Sottolineiamo che la prima riguarda la gestione degli aggregati monetari tenendo conto, secondo i casi, dell’inflazione, della disinflazione oppure ancora della deflazione, e almeno parzialmente del tasso di scambio. Il tasso di scambio è un potere congiunto. Le seconde riguardano la forma di regulation economica e sociale ritenuta. Va sottolineato che la definizione dell’inflazione e degli aggregati monetari, oggi gestiti in autonomia dalle banche centrali, rileva di leggi nazionali in materia, dunque dal potere democratico eletto.

(Nota del 2018: nel mio Tous ensemble, scritto durante la creazione della BCE, avevo chiesto l’adozione di ratio Cooke nazionali per le banche centrali membri da coordinare al livello della BCE. Fu preferito il « modello » iper-centralizzato del pitre Mundell, con i risultati ormai noti a tutti. Avevo anche chiesto l’adozione di circuit-brakers per bloccare in anticipo i prevedibili attacchi speculativi del Dollaro americano contro la minacciosa nuova moneta di riserva (conta già più del 20 % al livello mondiale …il dollaro anticamente re conto solo per 60 %, mentre oggi la Cina ha già creato un mercato renminbi-petrolio che sarà presto esteso alle materie prime.) Per fortuna questi circuit-brakers furono adottati. L’Euro permise così alla « gauche plurielle » di portare avanti la sua politica sociale – RTT ecc – la più avanzata sin dal programma comune di Mitterrand-Marchais, proteggendola dagli attacchi speculativi come sarebbe stato inevitabile con il Franc. Purtroppo, l’invenzione e la generalizzazione dei CDS sul debito pubblico non fu contrastata. Questi strumenti finanziari speculativi sono una assoluta assurdità visto che la circolazione legale della moneta e del credito è sancita dallo Stato, non al livello privato da una decina di banche primarie speculative e parassitarie. I rovinosi e continui salvataggi statali non lasciano il minimo dubbio su questo soggetto. Per sfortuna né la Francia di Hollande né l’Italia ha chiesto l’abolizione dei CDS sul debito pubblico e nemmeno quella delle vendite a nudo, esponendosi dunque finalmente ai nuovi attacchi speculativi immaginati con l’aumento dello spread. Per colmo, ancora oggi, nessuno chiede la creazione dei ratio Cooke nazionali!!! Aumenta dunque il debito pubblico ed i squilibri esterni, anche sotto forma del Target II. Il NIIP attuale mostra come l’Italia sia già stata svenduta al capitale speculativo estero. Vedi:  https://en.wikipedia.org/wiki/Net_international_investment_position . Oggi, l’unico modo di liberarsi dal cappio dello spread – e delle banche private – sta nella necessaria creazione di una banca pubblica con una forte leva finanziaria iniziale per comprare/cancellare il debito pubblico anno dopo anno liberando così il margine budgetario necessario agli interventi dello Stato per garantire gli interessi nazionali e l’utilità sociale secondo i dettami della Costituzione. Questa banca pubblica potrà pure finanziare il settore para-pubblico ecc. Vedi « Private and public central banks: how to defeat speculative and economic attacks » http://rivincitasociale.altervista.org/private-or-public-central-banks-to-defeat-speculative-and-economic-attacks-september-21-2018/ Vedi pure Feb. 2019: « Credito, debito pubblico e tagli » in http://rivincitasociale.altervista.org/credito-debito-pubblico-tagli-golpe-costituzionale-24-febbraio-2019/ )

Per ora, questa coesione riposa sui Criteri di Maastricht e sul Patto di stabilità e di crescita. Ma questi sono attualmente fortemente condizionati da un neoliberalismo che inquina tanto i governi di destra (Francia, Italia, ecc.) quanto quelli di sinistra senza risparmiare l’attuale governo tedesco. La questione di fondo va ben oltre quella del rispetto o meno degli impegni anteriori e del potere giuridico di una istanza – la Commissione – sopra un’altra – il Consiglio europeo via l’Ecofin. In realtà, si tratta semplicemente della natura democratica oppure nietzschiana dell’Europa. Questa Europa sarà una istanza sovranazionale borghese, perciò strettamente censitaria, oppure sarà una ricomposizione regionale necessaria della democrazia europea tenendo conto dell’evoluzione dell’economia mondiale? In breve, preme sapere se si tratta della realizzazione dell’Europa del capitale oppure dell’Europa sociale.

La ragione è semplice benché terribilmente occultata dall’inanità della « scienza » economica oggi insegnata nelle nostre università. Si deve pure tenere conto dei presupposti di classe che impregnano tutte le istanze decisionali legate da vicino o da lontano all’Unione europea. Ad esempio, le burocrazie ed istituti di ricerca europei o nazionali, oppure ancora l’OCSE o il FMI. A parte alcuni economisti rinomati che confondano naturalmente l’obbiettività scientifica con la necessità di preservare la loro reputazione, se non il loro standard sociale, nessuno può ignorare che tutte le varianti della « flat-tax » – fiscalità regressiva – possono solo scaturire dalle prescrizioni degne di una scienza economica voodoo, almeno di esigere tagli sistematici nelle spese dello Stato.

Nessuno ignora che questa esigenza neoliberale implica lo smantellamento completo dello Stato sociale, come pure quello dello Stato smithiano classico. In effetti, quest’ultimo prevedeva come una verità d’evidenza l’intervento dello Stato per garantire i compiti che il capitale privato non è in grado assumere da solo – difesa, sicurezza – e, per implicazione, per edificare le condizioni infrastrutturali – urbanesimo, igiene pubblico, trasporto ecc. – necessarie alla crescita del capitale. Si tratta qui di un obbligo giustificato con l’ideologia dell’interesse generale e dell’equità necessaria alla concorrenza – il « comunismo del capitale » secondo Marx. Le formi dominati del capitale all’epoca di A. Smith, erano il capitale mercante e il capitale industriale emergente. Questo aspetto pre-keynesianso del capitalismo classico viene oggi liquidato dall’odierno neoliberalismo. Questo conserva solo il finanziamento e la coordinazione statale della difesa – di cui alcuni compiti maggiori potrebbero, secondo Rumsfeld et al., essere devoluti al privato nel futuro prossimo. La stessa cosa vale per lo sviluppo degli apparati di repressione destinati a garantire il quadro sociale della produzione coniugato al carattere rigorosamente privato dell’accumulazione capitalista.

Nell’occorrenza, parlare di « nietzschianismo » per caratterizzare questo « ritorno ascendente » verso la ridistribuzione disuguale e barbara dei redditi e delle ricchezze non è una parola in aria né un slogan esaltato, ma bensì una descrizione obbiettiva della realtà. Questo « ritorno » volontaristico alla disuguaglianza intrinseca tra le classi non cade dal cielo: ha come antecedenti immediati, notabilmente all’interno del Pentagono del secondo dopo-guerra, in seguito al rilancio della Guerra Fredda, un certo numero di studi segreti squisitamente ufficiali – attestati sull’onore da John Galbraith, in particolare il Report from the Iron Mountain.

Questi documenti nutrirono numerosi studi privati che annunciarono la cosiddetta « rivoluzione tecnotronica » e altri « future shocks ». Con il collasso del modello rivale incarnato dalla USSR, la filosofia capitalista nietzschiana contenuta nei documenti originali acquistò una nuova vita. Molto tempo indietro, le élite borghesi avevano concluso che la crescita continua e sistematica della produttività del capitale e del lavoro dovuta all’approfondimento della composizione organica del capitale, libera masse crescenti di forza di lavoro, ponendo così ineluttabilmente una scelta dolorosa al modo di produzione capitalista.

Da una parte, l’accettazione del suo superamento progressivo con la spartizione del lavoro socialmente disponibile e delle ricchezze prodotte, mantenendo una etica e una cultura « democratica » fondata sul lavoro individuale delle cittadine/i, cioè, almeno parzialmente, sulla proprietà individuale legata ai frutti di questo lavoro. Dall’altra parte, la scelta della perpetuazione delle disuguaglianze di classe portata allora necessariamente al loro parossismo con la crescita simultanea della produttività e della disoccupazione strutturale di massa. Tale scelta non mancherebbe indurre l’istituzionalizzazione di misure di repressione permanenti delle cosiddette « classi pericolose ». La verifica ne è oggi fornita dall’impatto liberticidio del Patriot Act americano e dalla sostituzione ovunque della sicurezza armata alla preminenza dei diritti fondamentali delle cittadine/i. Questa regressione viene compiuta in nome di una minaccia « terrorista » mal definita o meglio ancora ideata interamente per avvalorare questa scellerata scelta.

Per quello che riguarda la prima alternativa, senza rifare tutto Beaumarchais, sottolineiamo che la società borghese si impose contro il feudalismo appoggiando la legittimità dei frutti del lavoro contro l’eredita dei privilegi e delle ricchezze. Hamilton nei possedimenti britannici in America del Nord oppure il Directoire in Francia ebbero rapidamente ragione di Thomas Paine, di Jefferson o ancora di Babeuf e di Robespierre. Nondimeno, l’imprenditore borghese, spesso arrampicato ai furgoni dell’Esercito oppure ai suoi « pantalons garance », conserva sempre l’acuta coscienza di essere uno « self-made man ». L’iniziativa individuale del proprietario, del manager o del lavoratore sarebbe rigorosamente identica dal punto di vista « qualitativo » benché molto diversa dal punto di vista « quantitativo » dato il « merito » rispettivo. Questa uguaglianza formale viene abilmente presentata come tale per ragioni di legittimazione delle pretese universalistiche usuali a tutte le classi dominati. Questo rischia di perdurare a lungo, perciò si impone uno ribilanciamento che solo lo Stato può operare.

Il mondo capitalista rimane un mondo alla rovescia: le illusioni relative al « salario » in quanto proprietà individuale provengano dal fatto che il « salario capitalista » rimane individuale malgrado le forme adottate dalla ridistribuzione sociale legata per conto suo all’instaurazione dei programmi sociali e dunque dell’emergenza della « sovrappiù sociale ». Provengano, in oltre, dall’emergenza della gestione « manageriale » che permise al capitalismo durante le Années Folles di mascherare l’indecenza dei profitti dei « proprietari » dei Mezzi di produzione, spesso assenti, dietro i « salari » dei manager, una distinzione oggi singolarmente indebolita dal capitalismo finanziario speculativo sostenuto da « holding private » che coltivano l’opacità come un’arma contro i concorrenti e contro i loro propri azionari.

Per ora, la borghesia occidentale cede alle illusioni del « schumpeterismo alla rovescia » (« alla rovescia » perché Schumpeter era convinto del deperimento inevitabile del modo di produzione capitalista, la « distruzione creativa » essendo essenzialmente vista come un stratagemma per ritardare l’esito fatale.) Questi si illude potere assorbire le stratte crescenti della disoccupazione con la doppia « distruzione creativa » – secondo il suo punto di vista di classe – della proprietà pubblica e degli impieghi permanenti e sindacalizzati implicati. I disoccupati sono allora destinati ai piccoli lavoretti – precarietà e tempo parziale – tramite il « workfare »; o, peggio ancora, sembrano destinati al confinamento in istituzioni penali o para-penali anche loro già destinate ad essere privatizzate. Le élite europee attuali sembrano anche pensare che questo « schumpeterismo alla rovescia » gli permetterà sostituire i monopoli economici nazionali in vigore nei loro paesi rispettivi con imprese private europee. Queste sarebbero strutturate al livello regionale europeo nella speranza di aumentare il loro peso nell’economia mondiale. Nondimeno questi « campioni » rimarrebbero aperti al capitale straniero dato il « Big Bang » borsistico fondato sull’apertura dei mercati e la disaggregazione funzionale delle istituzioni finanziarie a favore della banca cosiddetta « universale ». Con la conseguenza che, prima o poi, saranno costrette a fare i conti con i grandi fondi mutuali anglo-sassoni.

L’Europa applica oggi le ricette neo-liberali cucinate nei Stati-Uniti sotto Volcker-Reagan, e attualmente perseguite da G. W. Bush, con il fervore del convertito filosemita nietzschiano. Ma l’Europa lo fa con qualche decenni di ritardo proprio mentre le contraddizioni indotte da questa scelta contro-natura accrescano tutti i problemi e tutti i squilibri esterni e domestici ormai familiari agli Americani. Con cognizione di causa, l’Europa cerca di credere alla virtù delle PMI giudicate essere i principali creatori di lavoro. Sappiamo che in media 70 % tra queste non sopravvivono oltre tre anni mentre il resto rappresenta solo una escrescenza instabile delle politiche del indotto generato dalle grandi imprese pubbliche o dalle entità governative diminuite dalla cosiddetta deregolamentazione e dalla privatizzazione, ambedue accelerate dal fenomeno secolare della decentralizzazione/deconcentrazione.

In effetti, l’attuale « crescita economica » va di pari passo con la deindustrializzazione e la delocalizzazione delle imprese americane e con l’incapacità strutturale di creare impieghi veri. Questo dimostra senza dubbio che, nell’assenza di un nuovo corso (New Deal) in materia di ridistribuzione dei poteri e delle ricchezze, il capitalismo speculativo sfrenato attuale è ridiventato il suo proprio peggiore nemico – John M. Keynes metteva in guarda contro i suoi « spiriti animali »; Galbraith sottolineava assieme ai New Dealers più avanzati che i sindacati costituiscono dei « contrappesi » preziosi per disciplinare il capitalismo.

Una volta ancora il capitalismo moderno, del quale i Stati-Uniti sono la punta avanzata, si schianta con forza contro la sua contraddizione intima, cioè la sovrapproduzione accompagnata dal sotto-consumo. Questa contraddizione è eretta in fatalità sistemica dagli epigoni del neoliberalismo che pagano il loro impiego e la loro riputazione con una sovrappiù di « servitù volontaria ». Ben inteso, questa contraddizione non è risolvibile senza cambiamenti nel modo di produzione o almeno senza una nuova regulation appropriata. ( Il miraggio della New Economy fece illusione grazie alla massificazione dei nuovi settori intermedi che sostituirono o si innescarono in parte sopra gli anziani. Oggi, questo effetto no si fa quasi più sentire e deve fare i conti con l’emergenza dei concorrenti asiatici. La crescita netta della massificazione futura dei nuovi settori legati, ad esempio, allo sviluppo delle nanotecnologie sarà senza dubbio inferiore a quello che seguì la massificazione dei prodotti nati dalla rivoluzione informatica e dalle telecomunicazioni.)

In breve, la politica attuale delle élite europee sembra per molti versi irrisoriamente suicida. Scommettono sulla privatizzazione e sulla deregolamentazione per ristrutturare i loro apparati produttivi al livello europeo con la speranza di fare fronte alla « nuova sfida » americana e mondiale: purtroppo, in termini economici, non è affatto certo che questa privatizzazione si faccia al beneficio degli Europei, dato il sostegno di queste élite europee al libero-scambio sfrenato voluto dagli USA, compreso in materia di prodotti agricoli e di beni e servizi. E certo che i neoliberali stanno forgiando ex novo una vera e propria « crisi fiscale dello Stato » tagliando le ricette ricavate dalle imposte dirette necessarie allo Stato moderno, tanto l’Irpef con la crescita dei lavoratori precari ridotti ad un livello minimo, quanto le tasse sui redditi del capitale e delle successioni.

In oltre, le stesse cause producendo gli stessi effetti, la crescita della disoccupazione strutturale, mal riassorbita da un « workfare » in salsa europea, naturalmente destinata a flessibilizzare la forza di lavoro, provocherà delle chiusure identitarie diametralmente opposte al proseguimento armonioso della costruzione europea. (La capacità di un Le Pen a canalizzare una parte del voto « operaio » nel passato costituisce solo la punta dell’iceberg. Con una variazione di dieci o venti per cento secondo il modo di scrutinio, i vari Le Pen si declinano già in tutte le varianti nei paesi membri, in modo che gli Amici della birra polacchi costituiscono quasi una pausa democratica nel grigiore della rappresentatività odierna. I socio-democratici, sopratutto i filo-sionisti tra loro, hanno una responsabilità paragonabile solo dalla timidezza manifestata dai loro predecessori verso il governi di « unione nazionale » – cioè i « patti repubblicani » ugualitari sotto un’altra forma – destinati a ostacolare la crescita del fascismo.

Si capisce allora a che punto possono essere ciecamente patetiche le politiche che cercano imputare al rispetto dei Criteri di Maastricht e del Patto di Stabilità il risultato diretto delle scelte in materia fiscale e di ridistribuzione dei redditi e delle ricchezze. Ben inteso, gli economisti doc, come pure i giornalisti che « pensano » sulla base delle loro magistrali volgarizzazioni mediatiche, potranno facilmente notare la crescita anche se debole del PIL. Lo faranno senza mai tenere conto del paradosso secondo il quale, malgrado un PIL (nominale ) in crescita, la ridistribuzione sociale diventa comunque sempre più disuguale. Con il risultato che questa disuguaglianza rende più acuta la crisi strutturale del capitalismo opponendo frontalmente la sovrapproduzione e il sotto-consumo cronici senza la minima possibilità di risolverla con un spostamento del problema al livello mondiale.

In effetti, lungo da risolvere questa contraddizione, la globalizzazione attuale ha il potenziale di moltiplicarne gli effetti più nefasti. In oltre, al contrario di quello che si vorrebbe fare credere, l’azione globale delle imprese multinazionali non permette né di pensare né di agire localmente. A questo livello gli agenti si ritrovano de facto tanto atomizzati quanto i chandala descritti da Nietzsche, il cui ritorno è auspicato dalle attuali pseudo-élite occidentali – « erede » dirette, come sanno tutti, dell’umanesimo e della democrazia alle pari con quelli che ereditano una fortuna di famiglia che non hanno contribuito a creare! I vantaggi marshalliani legati ai risparmi realizzati grazie alla localizzazione possono eventualmente sostenere un nuovo artigianato, ma sembra dubbioso volere fondare su di essi una politica industriale e meno ancora una reale politica di pieno-impiego!

In riassunto, diciamo che in ogni sistema fondato su un insieme di variabili interdipendenti ma asimmetriche tra loro, il livello di equilibrio sarà raggiunto secondo l’importanza politica attribuita ad una o alcune variabili specifiche. Nel caso che ci concerna qui sappiamo che il salariato capitalista costituisce la prima relazione politica all’interno del MPC. Questo viene confermato dal fatto che gli ideologhi e le vittime del regime continuano a idealizzare, contro ogni apparenza, una concorrenza perfetta tra « fattori di produzione ». Nell’assenza di una razionalizzazione e di una efficienza minime nella gestione delle imprese – produzione – e del governo – riproduzione e commercio estero – sarà sempre possibile, a volte in modo irrisorio se non criminale, pretendere che il livello di equilibrio ottimale non viene raggiunto a causa dei vincoli dovuti alla mancanza di « flessibilità » del « fattore lavoro » – « fattore » ben inteso monetizzato e « disincarnato », il quale, per colmo, esibisce una ingombrante tendenza ad essere « nominalmente rigido al ribasso », secondo il suo grado di sindacalizzazione.

Le reti di protezione sociali dello Stato sociale stabilite come diritti e conquiste popolari costituiscono degli ostacoli eccellenti contro questa flessibilizzazione. La caduta del Blocco dell’Est – « socialismo reale » – rende ormai politicamente pensabile il loro totale smantellamento. Il fatto che delle frazioni sempre più larghe della popolazione cadano nella miseria ritorna ad essere pensabile per la borghesia perché ci vede la cura contro la « pigrizia » inerente alle « classi pericolose », cioè al lavoro alienato, con la sua crescente Armata di riserva. Ci vede pure la possibilità di imporre la « spartizione della miseria » tramite il tempo parziale ed il precariato sostituiti ad una autentica « spartizione del lavoro » socialmente disponibile, operata grazie alla riduzione della durata del lavoro senza perdita di reddito, una scelta giudicata « socialista » e collettivista.

Questa terzo-mondializzazione all’interno dei paesi sviluppati viene ricercata come un fine in se: dopo tutto, il Messico, un paese oggi membro dell’America del Nord grazie al Trattato Nafta, dimostra emblematicamente come i profitti del capitale compradore e quello delle multinazionali possono accrescersi conservando un volante di disoccupazione e di sotto-impiego attorno al 50 % della popolazione attiva, se non di più. Per preservare questo squisito equilibrio, basta avere il coraggio di sacrificare, l’ora venuta, i capitalisti più deboli, la repressione dei lavoratori, e a volta la loro mattanza, facendo naturalmente parte degli usi e costumi celebrati come dei modelli di comportamento democratico, e come tali, vanno potentemente affiancati dai vari Southern Command e dagli altri servizi occidentali!

La grande lezione del New Deal fu di prendere atto che questa terzo-mondializzazione interna urta una soglia fisiologica che annuncia la rovina della forza di lavoro dopo due anni di inattività in media. Ma questa fu una grande lezione presto dimenticata. Questo oblio giustifica la sostituzione degli ammortizzatori sociali con delle istanze caritative, complete con i loro bassi cleri e la loro « mensa dei poveri ». Questo giochetto della distribuzione dell’oppio sociale, era la condizione sine qua non per permettere ai « pitre » che si prestano servilmente a questa regressione di fondare la loro legittimità, mascherandosi in donne di carità ben quotate nel tempio.

Sarebbe meglio stare attenti: la regressione filo-semita nietzschiana è perfettamente concepita dai dirigenti come unico mezzo per risolvere la contraddizione capitalista tra sovrapproduzione e sotto-consumo, modificando le condizioni di esistenza – o meglio di sopravvivenza – materiali ed ideologiche del proletariato. E vero che la flessibilizzazione del lavoro contiene in essa l’equilibrio sempre ristabilito in modo post hoc delle variabili capitaliste secondo una ridistribuzione delle ricchezze sociali sempre più disuguale. Questa ridistribuzione mira a ribassare la soglia fisiologica dei mortali comuni, nel momento in cui i più venali si sentono investiti di un divenire specifico di « post-umanità ». Il tempio dei flussi di informazione autorizzata farà sempre la sua parte per sopprimere la coscienza di classe del proletariato. Nonostante, questa rimane l’unico baluardo concreto che si oppone a questa discesa in inferno forzata del proletariato e della civiltà umana, rivista e corretta da grandi o piccoli cleri auto-proclamati. Ben inteso, questi si reclamano del diritto divino nel tentativo di ristabilimento del loro esclusivista impero di casta.

Chi non vede che la creazione dell’Unione Europa, come blocco economico sempre più coerente, come « mercato comune » primo e come « unione monetaria » dopo e, per finire, come « unione politica », ha solo senso in quanto tentativo sovranazionale di ricomporre lo Stato sociale ad un più alto livello per permettere alle nazioni europee membri, grande o piccole che siano, conservare ai loro cittadini il loro confortevole statuto nell’inserzione nell’Economia Mondiale Capitalista?

I Padri dell’integrazione europea – Jean Monnet, Robert Schuman ecc. – e prima di loro quelli dell’integrazione funzionalista (tale Mitrany) avevano concluso unanimemente che l’integrazione economica doveva precedere l’integrazione politica. Questo pensiero proveniva dalla loro comprensione delle catastrofe umane causate dalla guerra moderna, sempre capace di estendere il suo furore distruttivo su scala planetaria. Ma questo non cambia nulla alla valutazione che traevano dei fini ultimi di questo processo graduale. La sinistra, in particolare la sinistra marxista che nutrì il pensiero anti-militarista in nome dell’internazionalismo proletario, non ha niente da rimproverare a questo cammino funzionalista se non il suo carattere di classe che lo rende parziale e, a volta, contraddittorio e aberrante.

(Non si può parlare sul serio dell’indipendenza economica e politica dell’Europa concependo la Nato come una organizzazione imperiale invece di quello che dovrebbe essere, cioè una organizzazione regionale delle Nazioni Unite. In quanto tale, deve rispettare le esigenze della sua Carta e quelle della Carta fondamentale delle Nazioni Unite. Lo deve fare rigorosamente nell’ottica della « sicurezza collettiva » specificata nel « Capitolo 8, Accordi Regionali ». Né può la UE lasciare a questa organizzazione regionale la prima e ultima parola sulla struttura del suo complesso militare-industriale, oppure sulle sue ricadute economiche civili, notabilmente in materia di finanziamento della ricerca e delle sovvenzioni alle imprese sottratte dalle regole della OMC per causa di « sicurezza nazionale » nonostante i trattati di libero-scambio vigenti.)

Dato la sua eredità culturale propria, questa Europa sociale dovrebbe istintivamente sapere che il « fattore lavoro » è una categoria logica, il valore di scambio della quale non può essere deciso unilateralmente dal Padronato in alleanza con lo Stato padrone. Questa Europa sociale dovrebbe ugualmente sapere d’istinto che né il commercio estero né alcun altro « vincolo esterno » può essere concepito come una variabile indipendente dal livello di vita dei lavoratori. La gestione del commercio mondiale potrebbe mirare ad un’apertura negoziata dei mercati con lo scopo di armonizzare i vantaggi comparativi naturali o acquisiti dalle varie parti con il pieno-impiego: « basterebbe » letteralmente sostituire il distruttore Byrd Amendment americano attualmente in vigore con una nuova concezione dell’anti-dumping, modifica da fare sancire dall’OMC conciliando produttività micro e competitività macro – dunque sociale -, cioè il pieno-impiego secondo i vari settori, industrie e filiere che ogni Stato giudicherà utile preservare. Non è tanto la « società aperta mondiale » ad essere in causa ma la forma di classe che si desidera impartirgli. In effetti, con un PIL nazionale – almeno per i paesi sviluppati dell’OCSE – e mondiale in crescita, è chiaro che l’impoverimento di stratte sempre più larghe di lavoratori non rappresenta a fatto una fatalità legata a qualsiasi « leggi economiche » ma, al contrario, il risultato di scelte politiche deliberate da parte del Padronato e dello Stato borghese.

L’argomento della competitività è altrettanto paffuto con sterilità intellettuale. Rappresenta letteralmente un contro-senso: al contrario di quello che predicano i portavoce della borghesia, la competitività dei settori economici o delle nazioni nel loro inseme non dipende in se dall’apertura alla concorrenza mondiale. I settori agricoli e agroalimentari americani ed europei ne testimoniano pienamente. La competitività in se non è niente altro che la produttività sociale legata alla composizione organica del capitale. Esibisce un doppio carattere quantitativo e qualitativo. Questo dipende dalla soddisfazione dei consumatori come pure dal numero di unità del bene o servizio considerato prodotto in una determinata durata di lavoro, secondo le condizioni specifiche individuali – processo di produzione immediato – o sociali – organizzazione della produttività sociale e gestione dei parametri che definiscono la struttura dei prezzi.

In atri termini, la competitività delle nazioni o dei blocchi economici dipende strettamente delle possibilità tecniche – che non sono spontaneamente disponibili in nessuno modo di produzione come dimostrato da Lenin -, e della volontà politica, come pure delle forme di contabilità adottate. Il confronto con i competitori stranieri può ovviamente dare un contributo positivo in materia di avanzo tecnico o di know-how ma, spesso, questo implica una perdita del controllo domestico che si traduce poi con l’espatrio del profitto e con l’indebitamento correlato delle Formazioni sociali considerate.

Ben inteso, questo si traduce ugualmente con la subordinazione del « fattore lavoro » a questa competizione economica sprovvista di ogni finalità sociale altra che la crescita dei profitti privati. Si spera in questo modo, come notato ironicamente da John Galbraith, potere « nutrire gli uccelli nutrendo i cavalli » (il cosiddetto « trickle down effect ».) Come da me dimostrato nel capitolo relativo al « socialismo cubano » nel mio Pour Marx, contre le nihilisme, liberamente accessibile nella sezione Livres-Books di www.la-commune-paraclet.com, il modo di produzione socialista – oppure l’epoca di ridistribuzione del capitalismo avanzato corrispondente al keneysianesimo – è per parte sua capace di conciliare crescita sistemica della produttività individuale e nazionale – o regionale – e, nel stesso tempo, di negoziare a livello internazionale il grado di esposizione/competizione settorialmente necessario ad una crescita continua dello standard di vita dei lavoratori e della società intera. Immaginarsi poi senza blocus!

Le doti naturali delle nazioni impediscono de facto l’autocrazia. La spartizione della sovrappiù individuale ne uscirà chiaramente influenzata, mentre in una formazione sociale ben gestita e pianificata democraticamente con buon senso, ogni diminuzione della parte relativa dovuta individualmente al possessore dei Mezzi di produzione – capitalista, cooperativa o Stato – risulterebbe grandemente compensata dal sostegno e dal sviluppo della produttività collettiva – cioè della sovrappiù sociale. Si osserva facilmente che gli USA sprecano da 15 a 16 % del PIL per un scarso sistema di sanità in maggiore parte sotto controllo del settore privato, mentre l’Europa provvede in modo pubblico al mantenimento ed alla riproduzione della forza di lavoro attiva e inattiva spendendo solamente attorno a 9 % del PIL. In ultima istanza, la competitività dipende dalle Formazioni sociali popolate da Esseri umani che sono anche dei cittadini e che, di conseguenza, non si considerano come dei semplici fattori di produzione o altri Golem, sottoposti a corvée. Tra Essere umani, tra cittadini, è sempre possibile concepire la compatibilità tra interessi individuali e interesse nazionale all’interno di un contratto liberamente e coscientemente adattato alle circostanze storiche. Tra « fattori di produzione » può solo prevalere le pseudo-leggi naturali che operano sulla base di una gerarchia disumanizzante, abilmente mascherata ma che nondimeno detta tutte le regole del gioco.

Perciò preme porre chiaramente la questione seguente: A cosa servirebbe fare l’Europa se l’insieme delle variabili determinanti del capitalismo è unilateralmente globalizzato, senza mediazioni regionali possibili, per l’unico profitto del Capitale transnazionale? La Commissione ed il Consiglio europeo possono benissimo concepirsi come delle istanze sovranazionali destinate ad imporre la globalizzazione ai popoli europei aldilà di ogni controllo e di ogni sanzione democratica, ma ovviamente non è questo il loro mandato né il loro ruolo. L’esempio dei paesi europei più avanzati dimostra senza dubbio che la competitività della forza di lavoro è tanto forte quanto è forte la socializzazione degli elementi necessari alla sua riproduzione – educazione, salute, ammortizzatori sociali e pensioni, alloggio, trasporto ecc.

La Francia di M. Jospin ha ugualmente fatto la prova inconfutabile che la crescita della base fiscale dello Stato, come pure il rendimento delle tasse sono molto più compatibili con una regulation economica compiuta sulla base della « spartizione del lavoro » che sull’amministrazione delle medicine fiscali da cavallo ordinate dal neoliberalismo monetarista. Questo spiega senza equivochi la ragione per la quale il capitalismo americano cerca ogni possibile mezzo per distruggere preventivamente, e su scala mondiale, lo Stato sociale. Lo considera fondamentalmente incapace di preservare lo statuto privilegiato del quale godeva nell’immediato dopo-guerra quando concentrava più di uno terzo delle ricchezze mondiali e la maggiore parte delle riserve in oro del Pianeta, oltre ad una struttura industriale uscita indenne dai conflitti armati. Per ora, il capitalismo americano non sembra più avere le risorse morali oppure il coraggio politico necessario per togliere di mezzo gli ostacoli all’accumulazione del capitale con il ricorso ad una grande ridistribuzione interna delle ricchezze – dopo tutto, il consumo dei focolari rappresenta attorno a 70 % della domanda effettiva nelle società avanzate come i Stati Uniti. Ecco perché, oggi a questo nuovo « ritorno » programmato della barbarie deve rispondere la determinazione e la forza implacabile della resistenza del proletariato, di nuovo cosciente delle sue proprie rivendicazioni di classe.

B ) Parametri economici generali.

Dopo questa breve panoramica della filosofia e delle tendenze economiche generali che influenzano necessariamente il tipo di costruzione e la costituzione europea adottata, vale la pena ricordare alcuni parametri economici generali già ampiamente acquisiti. Questi sono, naturalmente, caratteristiche e norme specifiche che contribuiscono a fare dell’Unione europea un “mercato comune”, prima di pensare a qualsiasi altra forma di integrazione di natura costituzionale o infra-costituzionale, cioè intergovernativa. E un omaggio reso dalla realtà ai progettisti politici ed economici dell’integrazione europea, costatare che oggi questi parametri rimangono in gran parte al di fuori della coscienza politica perché si sono trasformati in condizioni infrastrutturali del funzionamento quotidiano di questa integrazione all’interno dell’UE. Tuttavia, ora è necessario avere idee molto chiare a questo proposito in modo da poter immaginare i nuovi parametri di questo tipo resi necessari dalla realtà attuale, nonché il tipo di integrazione europea desiderata. Non si può più piantarsi su posizioni motivate da una vera impotenza tali i richiami indignati o simpatizzanti al peso delle direttive europee ( sovranazionali e quindi sospette di anti-democrazia acuta) che comunque dettano oltre l’80% delle leggi nazionali dei paesi membri.

E utile chiederci cosa dipende ancora, al momento attuale, dai parametri necessari per mantenere il “mercato comune” ma non necessariamente il suo successivo sviluppo in uno mercato comune unilateralmente capitalista, nel senso neoliberista del termine? Nello stesso modo, quali nuovi parametri dovrebbero oggi fare parte di questa base comune, per gestire silenziosamente il flusso dei beni e servizi all’interno dell’UE, in modo che l’Europa non diventi un semplice ostello aperto al neoliberismo europeo e globale? In termini più crudi, quale sarebbe la “parte 3” del progetto costituzionale europeo che potrebbe essere considerata legittima e reciprocamente vantaggiosa?

Ogni domanda pertinente comporta già parte della risposta. Sfortunatamente, le cose sono qui un poco più complesse. Tuttavia, basterebbe ricordare l’attaccamento di tutti i cittadini dell’Unione europea, non solo per “servizi pubblici” ma soprattutto per “i servizi pubblici forniti dalle aziende pubbliche”, per puntare il dito contro il principale errore ideologico che ha determinato la redazione della “terza parte ” del progetto costituzionale quasi nascosta e in effetti pubblicata in modo surrettizio (come fecero notare i deputati del PCF). Ma chi non vede che rispettando questo principio e questo attaccamento, l’UE non limiterebbe in alcun modo il traffico interno dei beni o servizi ma, al contrario, lo favorirebbe perché sostenerebbe in questo modo l’occupazione diretta e indiretta legata a queste imprese pubbliche? In effetti, oltre al consumo interno entrerebbe in linea di conto il funzionamento intra-europeo dei Moltiplicatori economici.

E chiaro che lo smantellamento delle imprese pubbliche e, con esso, della struttura dei prezzi stabilita sulla base di una redditività non speculativa perché a lungo termine, non soddisfa i requisiti relativi alla manutenzione o allo sviluppo del “mercato comune” europeo. Piuttosto, risponde alla volontà delle borghesie europee, appassionate di « schumpeterismo alla rovescia », di svendere le ricchezze collettive. Trovano così un modo semplice, ma necessariamente limitato, per eliminare gli ostacoli all’accumulazione che confronta il capitale ovunque e, in primo luogo, nel mondo occidentale avanzato. Le conquiste economiche e sociali rappresentate da queste imprese pubbliche sono quindi sacrificate al capitale globale, in modo che questa privatizzazione, appoggiata da una deregolamentazione muro a muro, viene poi paventata a torto come l’unico modo per sviluppare ulteriormente la potenza di fuoco del “capitalismo europeo” contro i suoi competitori mondiali. Questo capitalismo europeo, per sua natura, come qualsiasi altro capitalismo, non ha alcuna utilità per i lavoratori “europei” nel momento in cui il loro lavoro non è più ritenuto essere competitivo sul mercato globale dominato dalla sua logica di breve termine. Si tratta di una logica americana e anglosassone, una logica oggi paradossalmente imposta alla UE come se fosse necessaria per favorire la sua ulteriore integrazione.

Qualsiasi “Mercato Europeo Comune” degno del nome dovrebbe andare di pari passo con una struttura dei prezzi stabile trasparente e astratta dalla logica del corto termine speculativo. Notiamo che la ristrutturazione delle imprese nazionali in Europa, oltre a dovere imperativamente seguire le evoluzioni qualitative del processo di integrazione europea, per consentire all’Europa di conservare o persino migliorare il suo rango nell’Economia Mondiale, non implica affatto il loro smantellamento col il pretesto della lotta neolibere contro i “monopoli” di Stato. (Di fatto, tutte le privatizzazioni e le deregolamentazioni effettuate finora – dell’elettricità, imitando la California, del trasporto aereo, dell’acqua, dei Porti marittimi come in Italia ecc. – dimostrano che l’obiettivo reale non è altro che il trasferimento della ricchezza collettiva, gestita collettivamente per il bene della Società nel suo insieme, in tasche private processo che alla fine fa emergere degli oligopoli e dei monopoli privati. Questi, sfortunatamente, non rispondono più all’interesse comune se non per mezzo di ulteriori sottrazioni di fondi pubblici dato che i Stati nazionali si sono intenzionalmente messi in posizione di inferiorità per negoziare questo interesse comune, ad esempio sotto forma di tariffazione o di soglie – caps – oppure di ricadute economiche sui territori.

In realtà, ciò che dovrebbe essere veramente essenziale per l’UE e per i suoi cittadini non è la privatizzazione o la deregolamentazione dei “monopoli di Stato”, ma piuttosto la transizione verso “monopoli oligopoli europei ” pubblici e sovranazionali, quindi in grado di soddisfare le esigenze del mercato comune, mentre goderebbero di un vantaggio rispetto alla concorrenza internazionale rappresentata dai loro concorrenti pubblici o privati, senza svantaggiare nessuno paese membro per causa di questa ristrutturazione europea sovranazionale. Nonostante le privatizzazioni già sperimentate da alcuni paesi membri, dovrebbe essere possibile costituire questi poli pubblici europei con massima equità: semplicemente, predominerebbe una logica istituzionale che favorirebbe la fusione dei monopoli esistenti in base alle loro competenze, ogni nazione rimanendo socio pubblico disponendo della parte propria delle azioni contribuite all’impresa europea comune capace di funzionare come tale.

Le società già privatizzate dei paesi membri che lo desidererebbero (con apposita legislazione) entrerebbero in questo dispositivo secondo la logica delle joint-venture; in cambio accetterebbero di sottomettersi alla struttura dei prezzi determinata dalle istituzioni europee, così come al tipo di gestione inerente alle imprese pubbliche (compreso, il fatto che i conti annuali dovranno essere sottomessi alle Commissioni parlamentari incaricate con il loro controllo.) A termine, i Stati membri potrebbero legalmente prendere in considerazione il riacquisto di queste aziende private, in vari modi che vanno dalla nazionalizzazione classica allo scambio “debito contro equità” previsto nella mia teoria post-keynesiana-marxista degli swap. (vedi Tous ensemble).

Questo tipo di collaborazione diventerebbe la norma a livello globale, almeno nel caso dell’UE. Non dubitiamo per un momento, che molti paesi nel mondo concorderanno, dal Giappone al Brasile, dall’India alla Cina, in breve, tutti i paesi del mondo che riconoscono l’importanza fondamentale del commercio internazionale, purché sia un commercio equo, cioè liberamente concordato e negoziato, invece di limitarsi ad essere uno sciocco commercio “liberato ” dalle sue “catene sociali” a beneficio delle multinazionali che lavorano sempre di più per un neo-feudalismo corporativista post-nazionale ma ideologicamente imperialista. In caso di pericolo, tale sistema è inevitabilmente costretto a fare affidamento allo Stato di classe minimo di tipo americano, sperando di potere contare in futuro su nuovi bassi cleri legati al tempio illegittimo ma ricostruito di Salomone nella nuova Gerusalemme crociata.

Aggiungiamo a beneficio dei più creduloni tra noi che la privatizzazione non è garanzia di creatività o di innovazione. In realtà, anni fa, Barnett e Müller (Global Reach) avevano magistralmente dimostrato l’estrema attenzione data dalle multinazionali al contrasto di qualsiasi innovazione che potesse mettere in pericolo la loro quota di mercato e le loro economie di scala. Preferiscono invece cooptare i loro concorrenti o acquistare i loro brevetti per rimuoverli preventivamente dalla circolazione. Ricordiamo anche che senza le aziende pubbliche (e soprattutto senza i ministeri della difesa a causa delle loro politiche di acquisto e della loro strutturazione a lungo termine secondo ovvie esigenze collettive), né il TGV, né Internet (o, a più forte ragione, il Web), né le centrali nucleari, né le agenzie spaziali con le loro ricadute nell’economia civile, ecc., sarebbero emersi, per lo meno con la stessa rapidità.

In generale, l’intervento pubblico è essenziale per tutto ciò che dipende dalla ricerca pura e quindi, a lungo termine, della ricerca applicata dedicata a interessi comuni urgenti o, paradossalmente, dedicata a interessi umani fondamentali di un’urgenza relativa secondo le epoche. La ricerca fondamentale è sempre veicolo d’innovazioni inaspettate. Questo processo non sarebbe possibile senza la disciplinata opportunità offerta dal settore pubblico in grado di massimizzare i suoi rapporti con la ricerca pubblica e con l’educazione nazionale. (Da questo punto di vista, i paesi membri dell’UE che pensano di poter puntare ad una qualsiasi « Europe puissance » sacrificando ricercatori, laboratori e istituti di ricerca sbagliano: la « scienza », rivista e corretta da Nietzsche e dai suoi discepoli attuali, tutti molto « svegli », non promette nulla per l’Europa, se non la sua sudditanza permanente nei confronti degli Istituti tollerati da Grandi Inquisitori autoproclamati che, nella loro allucinazioni “post-umanità” , sognano di immergere i loro concorrenti e l’intera Umanità in un « bagno di ignoranza » orwelliano, se non addirittura di “rimandarli indietro nell’età della pietra” attraverso l’uso massiccio e illegale di « bombe intelligenti ». (Nota aggiunta: Sappiamo del fiasco già avverato della cosiddetta Agenda di Lisbona per la ricerca europea. Questo spiega senza dubbio l’insistenza delle élite : sostituendo università, istituti di ricerca e persino i musei pubblici, con fondazioni private finanziate tramite nicchie ed esenzioni fiscali, il potere e l’influenza culturale, economica e sociale che ne deriva sono trasferiti a mani private in modo più sicuro rispetto ad un finanziamento in partenariati che mantengono un grado di indipendenza per accademici e ricercatori, se non altro per rispettare un minimo di deontologia scientifica. Il neoliberismo cerca forse così rispondere alla domanda post-Hiroshima sulla “responsabilità sociale degli scienziati”: d’ora in avanti sarà valutata secondo il metro della loro servitù. Dopo tutto, si mira ad un « ritorno ascendente » verso una nuova domesticità e schiavitù. Quanto pagliacci – pitre – in preparazione … tutti comunque molto “svegli”, non c’è dubbio. Il Signore Testart, ha sicuramente un sacco di lavoro alla lavagna.)

A tale proposito, occorre sollevare la seguente domanda: poiché la privatizzazione e la deregolamentazione hanno solo una relazione obiettiva molto lontana con il mantenimento e il consolidamento del “mercato comune” europeo, quali sono oggi i nuovi parametri che dovrebbero prevalere? La risposta dovrebbe certo essere motivata dalle esigenze congiunturali, ma soprattutto dalla concezione che si ha della base comune che sostiene questo “mercato comune” generalmente accettato, poiché è necessaria per la coesione sistemica complessiva, così come per i progressi futuri, permanenti o puntuali, dell’integrazione europea, secondo la logica implicata negli equilibri costituzionali sopra descritti.

Ancor più della circolazione di beni e servizi, la libera circolazione dei fattori di produzione, compresa la manodopera, richiede spesso trattamenti e accordi specifici. Pertanto, occorre prestare attenzione a determinate norme essenziali per la coesione del complesso economico e per la salvaguardia della sua competitività nei confronti del mondo esterno. L’UE non è cieca in questo settore, ma la relativa timidezza è dovuta al primato dato dalle sue élite neoliberiste al mercato « globale »: le loro richieste di classe nelle negoziazioni in seno all’OMC ed al GATS ricevano troppo spesso priorità rispetto alla coesione europea che è così asservita al neoliberalismo circostante. Ad esempio, in una congettura di difficile mantenimento e creazione di posti di lavoro nonostante la – debole – crescita nominale del PIL, non vi è alcuna ragione, per dare un solo esempio, per spiegare perché la UE non abbia imposto a tutte le sue istanze così come a tutti i suoi paesi membri l’adozione del programma aperto Linux.

La Germania ebbi questa intelligenza. Tuttavia, i paesi dell’UE non hanno ancora esaurito il potenziale di massificazione di nuovi settori legati allo sfruttamento dei dati con software appropriati, sia in informatica che nel settore delle telecomunicazioni. Ovviamente, l’Europa ha adottato dei standard che consentono di colmare il ritardo, ad esempio, nel settore delle telecomunicazioni. Ma trascinando i piedi nell’adozione di uno standard Linux comune alla UE, si priva di un notevole vantaggio, sia per quanto riguarda il controllo dei sistemi operativi dei computer, sia per tutti i settori che dipende da esso (software, videogiochi, ecc.) Nulla spiega che, nonostante una ricerca francese ed europea molto avanzata nel campo delle “chip” elettroniche di nuova generazione, i fondi necessari per lo sfruttamento industriale e commerciale non siano rapidamente sbloccati dai governi o dalle appropriate autorità europee. Queste carenze sono quindi riflesse sia nei conti correnti che nella creazione di posti di lavoro legati allo sviluppo autonomo del capitale-conoscenza (nonché nella creazione di un pool di competenze che può essere ampiamente mantenuto, a causa della sua profondità economica, nonostante i cicli specifici di queste attività).

Questo significa che il problema del “mercato comune” è sfortunatamente trascurato a favore di programmi motivati ideologicamente. Inoltre, la maggior parte delle volte, non hanno origine negli organismi (democratici o censitari) dell’UE o dei suoi paesi membri, ma piuttosto negli istituti americani preoccupati per l’articolazione della « longer view » della borghesia americana, come la Brookings, l’Istituto Cato e spesso oggi il Competitive Entreprise Institute oppure il Committee on the Present Danger di trista memoria, passata e recente,tutti organismi che influenzano fortemente il FMI, la Banca Mondiale e l’OCSE, se non altro a causa dall’intercambiabilità delle rispettive reclute.

Non è un compito facile concepire come calibrare con precisione i parametri del “mercato comune” all’attuale epoca economica e sociale. Eppure, tutti intuitivamente sappiamo di cosa si tratta, vale a dire le norme, gli standard, le etichette e la tracciabilità, tutte regole di base del gioco che ne garantiscono equità ed efficienza. Ad esempio, oggi nessuno in Europa concepirebbe linee ferroviarie transfrontaliere di dimensioni variabili in paesi diversi, come è stato fatto in altri periodi al fine di proteggere i mercati nazionali interni. Presumibilmente, questo requisito comune rappresenterebbe l’unico caso necessario per la codecisione tra i due rami dell’Esecutivo (Consiglio e Commissione) previsti qui. Per la semplice ragione che non può esserci alcun intoppo nello schema di base sotto-giacente necessario per preservare l’uguaglianza ed il trattamento equo minimo di tutti gli attori europei pubblici o privati, in modo che ogni eventuale progresso in quest’area debba essere il marchio di un profondo consenso.

Queste sono le regole fondamentali del gioco che sono alla base dell’intero edificio comune, poiché hanno sostenuto il consolidamento delle prime fasi dell’integrazione europea. Va notato che per la maggior parte i problemi sono già risolti dai trattati esistenti in modo che in realtà si verifichino solo per i nuovi sviluppi. Tuttavia, contrariamente a quanto pianificato in precedenza per la generalizzazione di alcuni programmi, si tratta qui di generalizzare rapidamente alcuni parametri senza possibilità di ritiro. Poiché non vi sono criteri oggettivi, validi per tutti i periodi, per determinare oggettivamente i parametri che devono imperativamente essere aggiunti, è pertanto necessario prevedere un metodo appropriato: la codecisione del Consiglio (all’unanimità) e della Commissione, purché godesse di una maggioranza semplice del Parlamento europeo. Altrimenti, sarà necessario accontentarci anche qui con un processo di avanzamento in cerchi concentrici, prima di arrivare ad una possibile generalizzazione costituzionale.

Strumenti specifici:
Come completare onestamente il meccanismo di coordinamento sottostante contenuto nei Criteri di Maastricht e nel Patto di stabilità?

Quest’ultimo passaggio è tuttavia essenziale per tutti gli strumenti specifici necessari per la coesione economica e fiscale. Tutte le discussioni in corso sembrano concentrarsi sulla pseudo-critica della “indipendenza” della BCE, nonché sulla non sostenibilità del Patto di stabilità, che solleva necessariamente una domanda legittima nel quadro del perseguimento dell’Integrazione europea: in particolare, quali strumenti politici nel campo del coordinamento delle politiche economiche, attuerà l’Unione europea, finalmente dotata di una costituzione? Allo stato attuale, né l’UE né la zona euro sono pronti a dotarsi di strumenti economici e politici gestiti esclusivamente o principalmente dalle proprie istanze piuttosto che dai loro paesi membri. Inoltre, l’UE non concorda interamente con la Zona euro. Il concetto messo avanti qui è che questa ricerca di strumenti centrali non è né desiderabile al momento né necessaria. Tuttavia, i veri obiettivi ad esso assegnati in generale potrebbero essere raggiunti aggiungendo alla BCE (che gestisce gli aggregati monetari) una Commissione europea di pianificazione incaricata di preparare la « longer view » o visione europea a lungo termine. I governi nazionali e le autorità europee resterebbero padroni del tasso di cambio (potere condiviso con la BCE) e delle politiche fiscali, sociali e economiche in generale, a causa delle competenze condivise o esclusivamente devolute ai vari livelli europei secondo la logica istituzionale spiegata sopra. Avremmo allora un vero coordinamento economico europeo che resterebbe compatibile con un’Europa delle Nazioni, ma una Europa sempre più integrata e pertinente. Inoltre, questo coordinamento sostenuto da una pianificazione sotto-giacente influenzerebbe anche i dati presi in considerazione dalla BCE e quelli presi in considerazione dal Rappresentante europeo nel settore del commercio internazionale. Il piano europeo è la vera controparte obbligatoria della BCE. È un prerequisito per lo sviluppo della “democrazia economica e sociale”. Questa Commissione del piano europeo, prima consolidata a livello della Zona euro, si irradierà naturalmente in tutta l’UE allargata attraverso la semplice dinamica dell’ampliamento e degli adeguamenti che essa attuerà.

Sappiamo che a causa del suo mandato e della sua struttura, la BCE è lungi dall’essere indipendente. Il suo mandato la limita alla gestione delle conseguenze monetarie degli aggregati monetari, la cui evoluzione dipende tanto, se non di più, nel medio e lungo termine, dalle politiche bancarie e creditizie adottate dai Ministeri delle finanze che dal semplice decisione dalla Banca centrale rispetto ai suoi tassi direttori (un esercizio che è lungi dall’essere totalmente arbitrario, specialmente perché viene sovra-determinato dell’ostacolo opposto a qualsiasi manipolazione politicante esercitata su vasta scala contenuto nel Criterio di Maastricht sull’inflazione. Basta pensare al problema dell’inflazione importata ….)

Una riflessione sostenuta per quello che riguarda la legislazione necessaria rispetto ai « montage » ed ai circuiti transfrontalieri dei « prodotti derivati » secondo le esigenze delle autorità fiscali sarebbe più utili delle sterili attuali discussioni partigiane sulla BCE! Secondo la sua struttura, la BCE contiene al suo interno tutti i governatori delle banche centrali della Zona euro, i quali possono così trasmettere istituzionalmente le preoccupazioni del loro paese respettivo. Per il resto, non è auspicabile né materialmente possibile che il Consiglio europeo interferisca nella gestione degli aggregati monetari, per così dire alla fine della giornata. I suoi membri hanno cose migliori da fare affrontando, con la serietà e l’innovazione che sono necessarie, le politiche che vanno a determinare alla fine i volumi strutturali di questi aggregati.

Per il resto, i migliori giornali lo hanno ripetuto abbastanza, la gestione del tasso di cambio dell’euro è condiviso tra il Consiglio e la BCE. La critica della BCE sembra fare parte di un « mito Soreliano » la cui plausibilità si basa sull’equivalenza intuitiva della BCE con il FMI o con “le banche” in generale. Ma se il FMI e le banche in generale fossero soggetti alla stessa trasparenza della BCE, non avremmo più bisogno di chiedere una riforma democratica! In realtà, questi discorsi concordati sembrano solo mascherare le conseguenze di un sistema fiscale neoliberale regressivo di cui la BCE sarebbe il capro espiatorio designato; poi servono ad oscurare l’accordo politico strappato dal segretario al Tesoro Usa John Snow al G7 durante il vertice di Doha, e ancor più al vertice di Dubai (20 settembre 2003). Questo accordo sull’implementazione del declino relativo del dollaro US era volto a cercare di rilanciare le esportazioni e la crescita degli Stati Uniti. A cui va aggiunto il comportamento « moutonnier » – gregario – di molti economisti titolati che domani diranno il contrario, scimmiottando sempre i diktat del Potere con la stessa laboriosa preoccupazione per l’oggettività “scientifica” specifica della loro disciplina, come concepita nelle accademie, e naturalmente con la stessa buona coscienza tipica delle élite nietzschiane o delle cortigiane.

Ho già spiegato altrove, oltre che nell’introduzione a questo testo, i motivi che militano a favore del mantenimento dei Criteri e del Patto: in breve, l’attuale non conformità al Patto non è in alcun modo dovuta ad una necessità economica oggettiva, ma piuttosto alla scelta anti-ugualitaria della redistribuzione del reddito e della ricchezza effettuata attraverso una tassazione regressiva, quindi in fin dei conti destinata al fallimento. Tuttavia, il risultato disastroso di questa scelta di classe è indiscutibile, come dimostra l’anemia della crescita economica, mentre questa “crescita” è principalmente ricercata attraverso la flessibilizzazione della forza di lavoro, la quale implica l’aumento strutturale della disoccupazione e della sottoccupazione.

Si capisce che queste sono le ricette di Volcker-Reagan ma applicate con decenni di ritardo nonostante il fallimento americano attualmente visibile a tutti a occhio nudo. Ciò nonostante l’enorme vantaggio di cui godono gli Stati Uniti, l’unico paese che ha il potere di dettare le regole del regime finanziario internazionale dominante, attraverso il suo controllo esclusivo e non negoziabile della principale valuta di riserva internazionale. Questo strumento non è disponibile alla UE nonostante il successo dell’Euro finora. (Il dollaro USA non è né un DTS delle Nazioni Unite né un “bancor”!) È quindi inutile sacrificare misure necessarie o già negoziate nella speranza (“speranza” vuota per uso pubblico) di ottenere risultati futuri che è chiaramente impossibile ottenere a causa delle prevedibili conseguenze delle politiche adottate (Jean Arthuis non ha forse già messo in guardia il governo francese in questo senso? Vedi, : ” Le fort recul des entrées fiscales pèsera sur la préparation du budget ” « Il forte calo delle entrate fiscali peserà sulla preparazione del bilancio » , www.lemonde.fr , 9 settembre 2003).

Fare le pulci ai Criteri ed al Patto sotto pretesto che il Patto di stabilità essendo anche un patto per la crescita, l’indebitamento pubblico dovrebbe essere regolato in base al volume degli investimenti in ogni paese membro, ammonta a conferirsi un razionale ( una « intelligenza » appropriata) per fare anche saltare la soglia del deficit in bilancio anch’essa fissata al 3%. Questo porta anche paradossalmente all’obbligo di aderire ad un rigore economico più grande, sopratutto nei paesi membri dell’euro e della UE in generale che superano questa soglia, al fine di consentire l’abbassamento del rapporto debito / PIL quando supera il 60%. Inoltre, questo disegno di modulazione determinato dal volume degli investimenti non ha nulla di originale, anche se la sua provenienza storica non manca di piccante e rimane di grande interesse: infatti, l’idea di base è di Samuelson. A seguito della crisi messicana dei primi anni ’80 che comportò un grave rischio di fallimenti a catena dei diversi paesi dell’America Latina, quest’ultimo volle competere con i Chicago Boys (già disastrosamente impegnati nel Cile di Pinochet.) Perciò ricordò che oltre una certa soglia l’uscita dalla crisi non era più possibile per i paesi sottoposti a queste ricette. Indoviniamo facilmente il perché. Dato la privatizzazione dilagante, i profitti e risparmi disponibili internamente non sono più sufficiente nel lungo periodo a causa della tendenza al rimpatrio dei capitali verso le sedi estere delle multinazionali. Sappiamo che la percentuale di controllo straniero in Europa è ovunque considerevole. Gli artifici di bilancio e i conti correnti non raccontano sempre la stessa storia! Dobbiamo forse aspettarci a ricevere consigli sui benefici della “produzione per l’esportazione” (per colmo con vari cavilli sul tasso di cambio dell’euro) per giungere infine al cuore della questione, cioè alla virtù redentrice della « crescita negativa » (o « décroissance » ), almeno per tutto ciò che riguarda l’economia sociale o locale, naturalmente senza tenere conto delle tesi del Club di Roma e sopratutto delle contro-tesi di Cambridge?

Lo stesso ragionamento che si applica alla soglia del bilancio del 3% si applica anche all’inflazione. Questa deve, ovviamente, essere contenuta, ma senza eccessivo zelo monetarista il quale è oggi propenso a sostituire – sopratutto per l’Italia – l’inflazione al 1% o persino allo 0% invece del 3% consentito. Con un tasso di inflazione troppo restrittivo si strangola semplicemente ogni crescita possibile. Si può invece accettare un tasso massimo attorno al 3 % per contenere le conseguenze della Fisher Chain ma a patto che il potere d’acquisto sia protetto e che vengano attuate nuove misure per sostenerlo (ad esempio tramite la modulazione nazionale dei Ratio Cooke nell’area dell’euro – ratio delle riserve delle banche centrali membri -, o tramite l’uso di una piccola parte delle riserve della BCE per creare un fondo di investimento anti-ciclico europeo a sostegno delle banche disposte a finanziare la creazione di posti di lavoro produttivi da parte delle imprese pubbliche o private, siano esse PMI o meno, oppure che procederebbero direttamente a questo compito, assumendosi il rischio).

In realtà, al di fuori delle manipolazioni politiche degli aggregati monetari, il rischio di recrudescenza di una forte inflazione strutturale è ormai quasi pari a zero: il tasso dipende in larga misura dal destino impartito dall’esercito di riserva, e quindi, dipenderà sempre di più della diffusione della deflazione indotta dalle importazioni dall’Asia, aggravata dalla forte tendenza interna a creare una società di sovrapproduzione e di sottoconsumo. Osiamo dirlo, nel contesto neoliberista contemporaneo, le conquiste sindacali sono sotto attacco a tal punto che la « clausola Cola » o ” scala mobile ” in Europa viene sostituita da una politica dei redditi che chiude gli occhi senza nessuno stato di anima sull’impatto combinato dell’inflazione residua, dell’aumento della precarietà e della flessibilizzazione della forza lavoro, in modo che il Patto diventa alla fine l’unica garanzia legale a difesa del potere d’acquisto dei salariati.

In realtà, anche se questo è oscurato nei discorsi pubblici, nel contesto attuale ogni casistica sopra i Criteri di Maastricht e sopra il Patto porterebbe a ripetere il lassismo economico di classe che alcuni paesi membri raggiungevano attraverso le cosiddette svalutazioni competitive, strategia che condusse inevitabilmente alla liquidazione della competitività residua dei settori più soft e all’aumentare del debito pubblico. Si noti che gli Stati Uniti, paese che dispone della capacità di scaricare sui paesi concorrenti il costo effettivo delle sue iniziative economiche grazie al suo controllo del dollaro, possono permettersi un lassismo (oggi budgetario, ma domani nella definizione politica del tasso di interesse ) che non è ancora alla portata dell’Europa.

La UE non può quindi seguire ciecamente le stesse prescrizioni economiche senza esporsi pericolosamente a cambiamenti di rotta su cui non avrà alcun controllo. Può, e per meglio dire, deve aggiustare i suoi tassi di interesse chiave (tenendo conto della valutazione in dollari del petrolio e di molte altre materie prime strategiche così come dei prezzi mondiali di questi prodotti essenziali.) Ma non può fare a meno di un pensiero e di una pratica prudente a lungo raggio. Pertanto, non può mai perdere di vista la necessità di sostenere il livello degli investimenti interni contemporaneamente al livello di domanda effettiva relativa al consumo delle famiglie. Ciò dovrebbe essere ovvio per i governi di sinistra, ma anche per i governi di destra che si preoccupano di preservare gli interessi reali o illusori delle loro classi di appartenenza e dei gruppi sociali associati alle loro alleanze di classe.

I paesi con il più alto rapporto debito/PIL non mancano di risorse purché ci siano serietà ed una reale volontà politica: ad esempio, l’Eurotax che servì a portare l’Italia nella zona euro, potrebbe essere temporaneamente mantenuta per finanziare l’attuazione di una politica nazionale di ripartizione del lavoro, consolidando così la base imponibile generale dello Stato e la domanda interna; la progressività del sistema fiscale potrebbe essere mantenuta in modo tale da sostenere la canalizzazione pubblica dei risparmi interni verso il sostegno alla produttività e all’occupazione; la quota eccedentaria delle riserve della banca centrale italiana, deduzione fatta della quota versata alle BCE come banca centrale membro, potrebbe essere oggetto di varie iniziative. Ad esempio, la creazione volontaria di un fondo di investimento italiano per concretizzare gli swap del debito pubblico contro azioni coinvolgendo i debiti a più alto tasso di interesse, una strategia che avrebbe avvantaggiato sia le banche rafforzando il loro bilancio che il governo; con i margini di bilancio così acquisiti il governo avrebbe quindi la possibilità di finanziare misure sociali a favore dell’occupazione. In oltre, i ricavi derivanti dalla vendita all’asta delle onde radio avrebbero potuto servire a scopi identici. La creazione di fondi operai gestiti dai lavoratori – in sostituzione del TFR e TFS fagocitati solo dai privati – mantenuti per lo più fuori borsa permetterebbe il consolidamento e la bonifica dei sistemi pensionistici attuali; tali fondi operai permetterebbero pure il salvataggio « pubblico » di imprese strategiche, ad esempio in casi simili ai scellerati fiasco del tipo Cirio e Parmalat, quest’ultimo da solo costando 13 miliardi di euro ai risparmiatori. Le privatizzazioni, in realtà operazioni miopi mirate alla svendita del patrimonio nazionale unicamente motivata a fare cassa in una nazione che scelse incautamente di trasferisce il suo patrimonio nazionale ad una classe di parassiti agiati, avrebbero dovute essere fermate, senza comunque impedire la loro necessaria ristrutturazione a livello europeo. In breve, una pianificazione economica che coinvolgesse tutti gli attori socio-economici avrebbe prevalso sulla follia corrente che impedisce “pensare fuori dai schemi”, secondo la bella espressione del pragmatismo americano di un tempo.

Il monetarismo o la fiscalità neoliberale da soli non possono sostituire una vera politica economica, sebbene la confusione tra la prima e la seconda sia oggi ben vista. Invece di smantellare i Criteri e il Patto di stabilità, o di cedere alla disastrosa tentazione di stabilire la preminenza del Consiglio, o con più esattezza quella di alcuni dei suoi Stati membri, sull’insieme della UE, sarebbe più opportuno che il Consiglio europeo e la Commissione, ciascuno nei suoi rispettivi settori di competenza, si impegnassero a stabilire rapidamente nuovi programmi europei sulla più ampia scala possibile.

Questi devono riguardare in parte l’armonizzazione fiscale: non si tratta con il pretesto dell’armonizzazione interpretata secondo le tesi neoliberali in voga, di puntare al livellamento verso il basso di tutte le tasse, soprattutto quelle progressive di una volta. È meglio essere chiari sulla base di specifici obiettivi socio-economici, che possono essere condivisi sin dall’inizio dall’intera Eurozona e oltre. L’armonizzazione fiscale (che non è la standardizzazione delle singole prassi degli Stati ma l’istituzione di un’equivalenza dei loro effetti globali) è necessaria per consentire la definizione di una politica commerciale comune basata su qualcosa diverso dal darwinismo sociale del libero scambio globale ma asimmetrico. È inoltre necessario consentire la difesa dei programmi sociali esistenti da sottrarre dagli effetti di un darwinismo sociale europeo che abbasserebbe i livelli mettendo in competizione i lavoratori slovacchi pagati meno di 3 euro l’ora contro i lavoratori tedeschi che ricevono circa 10 euro orari secondo la scala del salario minimo e infine mettendo questi in competizione diretta con alcuni lavoratori asiatici pagati meno di 1 euro l’ora.

In particolare, i vari incentivi statali e le esenzioni concesse alle imprese per la creazione o il sostegno dell’impiego, assieme alla riabilitazione delle imposte sul capitale, sarebbero specificamente interessati. Contrariamente a ciò che si vuole far credere, questo non provocherebbe nessuna fuga di capitali in quanto le dimensioni e la vitalità del mercato europeo dettano tutti gli altri comportamenti! Inoltre, nonostante l’ideologia predominante che promuove il “libero scambio”, tutti i paesi senza eccezioni che lo rivendicano, anche all’interno del Alena (l’accordo di libero scambio più evoluto e più dannoso al mondo come dimostra l’impoverimento del Messico, nonché le disparità regionali o le disparità di reddito indotte altrove in questa zona) hanno sapientemente attenuato le conseguenze del « libero scambio » per le proprie borghesie approvando percentuali massime di controllo straniero in vari settori, in cambio dell’apertura parziale diffusa a tutti i settori, compresi, eventualmente, i servizi pubblici come l’istruzione e la sanità.

Agli occhi del capitale e dei suoi mass-media l’impatto ideologico negativo legato alla riabilitazione della fiscalità ed alla sua armonizzazione per quello che concerna specificamente il capitale, potrebbe vantaggiosamente essere alleviato da un chiarimento delle soglie europee di penetrazione straniera nei settori di attività oggi in gran parte abbandonati a dei Commissari che concepiscono l’Antitrust in un modo ancora più poroso del Sherman Antitrust Act (1890) poi comunque rafforzato dalla legge Robinson-Patman del 1936 dal Presidente Franklin Delano Roosevelt, per ragioni di legittimità politica e, per inciso, a causa della pressione esercitata più apertamente sulle frazioni hooveriane dal capitale refrattario ad ogni intervento dello Stato nell’economia. Il resto ricade sostanzialmente nella zona di adattamento delle politiche di ammortamento e deprezzamento del capitale produttivo (per definizione immobilizzato nella produzione) a secondo della posizione nel ciclo economico, e quindi, secondo il livello di armonizzazione europea raggiunto in questo campo.

La questione della ristrutturazione dei grandi « pool » di capitale nazionali e comunitari da astrarre istituzionalmente dai circuiti del capitale speculativo dovrebbe ricevere una grande attenzione (ad esempio i Fondi Operai): Questo completerebbe vantaggiosamente il supporto già offerto al grande, medio o piccolo capitale, nonostante l’auspicabile ripristino delle imposte sul capitale. In questo modo sarebbe possibile sostenere i necessari investimenti collettivi effettuati attraverso società pubbliche, preservando e canalizzando i risparmi nazionali/europei (quindi quelli dei pensionati e delle famiglie). Lo strumento della Cassa Depositi e Prestiti rese un gran servizio in materia: anziché diminuirla, dobbiamo completarne la logica, incluso con la creazione di un Fondo Operaio che raccoglierebbe i contributi pensionistici pubblici; visto l’impatto attuariale della demografia attuale, tale fondo dovrà prima operare come un fondo di riserva capace da conciliare accumulazione e versamento dei contributi. Un circolo virtuoso in grado di rassicurare gli attuari più scrupolosi diventerebbe possibile grazie alla partecipazione attiva del Fondo Operaio nella creazione di veri posti di lavoro, a tempo pieno, se non altro con il ricorso ricorrente alla spartizione del lavoro disponibile secondo le possibilità offerte dalla competitività macro-economica e dalla produttività micro-economica.

Questo meccanismo, sostenuto dal Fondo europeo di investimento anti-ciclico, creato attraverso l’uso di una parte delle riserve della BCE sopra menzionate, consentirebbe quindi di ritornare al pieno impiego. L’uso della Riduzione del Tempo di Lavoro – nota aggiunta: incluso ormai l’abbassamento dell’età pensionabile per favorire il cambio generazionale – è l’unico modo per conciliare l’occupazione reale, la formazione professionale astratta dalla logica del workfare, con la preservazione della base imponibile necessaria allo Stato sociale (nazionale o funzionalmente europeo) in modo che possa continuare a offrire ai suoi cittadini i programmi sociali essenziali di accesso universale, in particolare quelli che riguardano l’educazione, la salute, la previdenza e l’assistenza sociale, gli ammortizzatori sociali e la formazione professionale, nonché gli asili nidi.

D’altronde, se la creazione e il consolidamento di una borsa europea andranno avanti, sarebbe il momento opportuno per raddoppiare le borse attuali con istituzioni simili che punteranno invece agli investimenti a lungo termine, cioè a 3 o 5 anni, minimo. Queste nuove borse dovrebbero essere inquadrate in questa ottica con metodi precisi di funzionamento e con adatte misure di controllo, dettate dallo Stato anziché dall’industria stessa. Certamente, per concepire queste istituzioni, è necessario uscire dalla « gabbia cognitiva » e ancor più dagli artigli del capitale speculativo. I « Seuils Tobin » esposti nel mio Tous ensemble rappresentano a questo riguardo la soluzione generale in quanto sono organicamente collegati alla pianificazione economica; potrebbero diventare l’oggetto di una riflessione parziale ed efficace. Ad esempio, pubblicando relazioni annuali complete e consentendo la quotazione pubblica gratuita delle società interessate solo per un breve periodo di tempo dopo i tre o cinque anni sopra menzionati, che corrispondono più strettamente ai cicli intimi di redditività del capitale produttivo.

Quando si intende raccogliere ulteriori fondi, il mercato obbligazionario opera già parzialmente secondo questa logica temporale; ma, a parte la cattiva generalizzazione del mercato secondario, viene poi sottoposto dal mercato azionario ad una logica quotidiana che ha poco a che fare con le esigenze di finanziamento esterno delle aziende o con la reale ottimizzazione delle risorse da parte del “mercato azionario” e, ancor meno, con la logica economica reale. Si tratta di sincronizzare queste due operazioni togliendole dalle forche caudine della redditività a breve periodo.

Una semplice rassegna sommaria della storia dei mercati azionari mostra anche l’intima connessione ideologica tra l’affermazione del potere delle aziende multinazionali nei primi due decenni del 20 ° secolo e la necessità correlata per la grande borghesia dominante di ri-legittimare il capitalismo, diffondendo l’idea « populista » del « capitalismo popolare » rafforzato da una « democrazia degli azionisti » rappresentata da piccoli portatori, che presto realizzeranno (dal 1929!) che questa nuova versione della democrazia borghese è rimasta tragicamente formale e ferocemente censitaria.

La scelta delle società che potrebbero essere elencate in queste nuove istituzioni del mercato azionario sarebbe particolarmente rigorosa, in particolare per quanto riguarda lo stile di gestione. D’altra parte, questo rigore agirà naturalmente come ulteriore garanzia per i prestiti bancari contrattati da queste istituzioni. Gli azionisti, in particolare i piccoli investitori e gli azionisti istituzionali, approverebbero rapidamente tali società, che si imporranno necessariamente come veri « blue chips » (migliori investimenti). Anche il loro ruolo di stabilizzatori del mercato sarebbe considerevole. In ogni caso, deve essere dimostrato a tutti che i “mercati” non esistono in astratto, che non sono mai più di ciò che i loro limiti topografici o legali li rendono e che, di conseguenza, il breve termine non è una fatalità, ma piuttosto un’aberrazione auto-suicida del capitale speculativo più sfrenato ma che oggi infuria senza ostacoli su scala planetaria.

Non è la casistica ideata per contestare i Criteri di Maastricht e il Patto di stabilità, attitudine che in ultima analisi divide l’Europa e rallenta tanto il suo sviluppo socio-economico quanto la sua integrazione egualitaria, ma sono invece queste problematiche concrete a potere fare camminare di pari passo l’integrazione politica e la sua lenta costituzionalizzazione, nonché il suo mantenimento del grado di sviluppo economico, sociale e diplomatico dell’Europa sulla scena mondiale.

La flessibilità istituzionale creata dall’adozione dello sdoppiamento dell’Esecutivo sopra proposto, chiarificando la divisione dei poteri e l’assegnazione dei ruoli decisionali, permetterebbe di generalizzare questi obiettivi comuni, senza flirtare con il suicidio istituzionale collettivo contenuto nelle politiche neoliberiste regressive, oggi approvate all’unanimità da tutti i governi europei, con alcune sfumature insignificanti per tenere conto delle specificità nazionali e locali. Ciò deriva da un’unanimità ideologica e pratica sgradevole. Paradossalmente, la sua disfatta annunciata è di buon auspicio per le opportunità future se queste vengano veicolate da una autentica sinistra europea con idee chiare sui suoi obiettivi, le sue possibilità e i suoi doveri verso i popoli e i cittadini dell’UE.

Carta sociale.


La Carta europea dei diritti dovrebbe cercare di definire tutti i diritti fondamentali, in particolare i diritti sociali e sindacali, su cui si basano la democrazia industriale e la democrazia economica e sociale. I diritti individuali sono già ben concettualizzati; sono stati fortemente garantiti per lungo tempo, in modo che la loro trasposizione a livello europeo non pone alcun problema, come evidenziato dal lavoro della Corte di giustizia europea. Sottolineiamo inoltre il contrasto tra, da un lato, la concezione di un Jefferson, considerando, come ha ricordato Lenin, che una democrazia dovrebbe concedere concretamente a “ogni cuoco” di poter rivendicare la presidenza, e d’altra parte, la concezione ristretta e bellica dei diritti umani nella concezione formale di una borghesia globalizzata che ora pretende giocare ai “cavalieri del tempio”: si è mai visto un essere umano vivere solo o soprattutto di “diritti” formali?

All’inizio del ventunesimo secolo, qualsiasi apologia dei diritti formali dell’Individuo, che non sarebbe strettamente concepita come mantenimento e difesa dell’uguaglianza concreta di tutti, deve essere considerata come una indecenza volgare, meglio come un atto di guerra aperto. Perché credete che più di 40.000 bambini muoiono di fame ogni anno nel mondo mentre metà dell’umanità è costretta a sopravvivere con meno di 2 euro al giorno? Alcuni profumano le loro parrucche grazie al popolo costretto a vivere al sudore della sua fronte, come ha già notato Jean-Jacques Rousseau. In particolare, è importante chiedere il riconoscimento della pari dignità e uguaglianza del diritto di proprietà collettiva (proprietà pubblica, cooperativa o statale, secondo le necessità e i tempi) con quello della proprietà privata, assicurando quindi in Europa la possibilità democratica per l’una o l’altra di potere mirare all’egemonia, senza pero essere in grado di abolire legalmente il principio fondamentale della sua rivale.

Al suo grado di espressione assoluta, il socialismo europeo sarebbe un sistema di dominio di una forma di proprietà collettiva debitamente sanzionata dagli elettori ma nella coesistenza legale (di principio) delle due forme principali, in modo che la proprietà privata diventerebbe residuale. Nel caso in cui questa parità fosse messa in discussione dalla futura Costituzione europea, la sinistra non avrà altra scelta che lottare per la modifica della Costituzione in questo specifico capitolo. Oppure, come è consuetudine (si pensa all’emergenza della radio o dell’aeronautica alla fine del XX secolo nel regimi federali) interpretare la specifica assenza di riferimento come un invito imperativo alla modifica costituzionale volta a ripristinare il testo fondamentale tenendo conto dell’evoluzione della realtà concreta. Per il momento, è necessario combattere il progetto costituzionale così come è stato formulato. Perché con la sua costituzionalizzazione della concorrenza capitalista priva di ogni ostacolo non rappresenta nient’altro che un “colpo di stato costituzionale” perpetrato dalla borghesia.

Ciò implica il rispetto della trasparenza legale della gestione della proprietà qualunque essa sia e quindi l’abolizione del breve termine imposto con irrazionalità indifferentemente a tutti. All’epoca della competizione naturalmente imperfetta, confermata dalla concentrazione e centralizzazione del capitale, questa trasparenza costituisce la vera legge del controllo autoreferenziale del capitalismo moderno. I specialisti dell’informazione asimmetrica nei vari mercati, senza mai aver sollevato direttamente il problema giuridico e istituzionale della trasparenza, non mi contraddirebbero su questo punto!

Ad es., ogni filiale di una « holding » privata non quotata in borsa dovrebbe essere automaticamente esclusa dal mercato azionario borsistico, quindi dalla capacità di raccogliere capitali presso il pubblico con questo mezzo. Infatti, questo tipo di struttura, quando è dominato dal privato, coltiva deliberatamente l’opacità come arma speculativa, contrariamente alle sue controparti pubbliche sottoposte per parte loro al controllo dello Stato. Questo contribuirebbe un minimo di decenza capace di stabilizzare i mercati meglio dei miseri regolamenti del « late-tradings » o del « insiders information » oggi utilizzati per divertire la galleria. Nello stesso tempo si eliminerebbe le solite manovre compiute sotto l’egemonia del capitale finanziario speculativo (OPA ecc) che producono un inutile effetto devastante sul mantenimento della produttività aziendale (quest’ultima richiede invece ingenti investimenti di capitale fisso), quindi anche sull’occupazione e sulla localizzazione di queste attività, per non parlare dell’etica personale dei proprietari e dei gestori.

Le imprese familiari continuano ad esistere, ma dovrebbero giustificare l’accesso ai sistemi finanziari e di credito pubblicando i loro risultati effettivi, invece di abusare della loro capacità a procedere a varie razzia totalmente inutili dal punto di vista della produzione e del consumo.

Difesa e politica estera

Qualsiasi Costituzione europea dovrebbe affermare il suo impegno per la pace e nello stesso tempo affermare il ripudio della guerra come metodo di risoluzione dei conflitti, tranne nel caso dell’autodifesa, quando il suolo nazionale è direttamente minacciato. Inoltre, questa posizione di principio europeo dovrebbe essere costituzionalmente intesa nel rigoroso rispetto della Carta delle Nazioni Unite, in modo da promuovere l’integrazione europea come passo verso la democratizzazione di questa Organizzazione e, in particolare, delle sue Agenzie specializzate. Queste sono oggi per costruzione di natura censitaria, come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e l’OMC. Lo sviluppo della politica estera e di difesa comune dovrebbe anche essere posto sotto l’egida della Carta delle Nazioni Unite come organizzazione militare regionale intesa a garantire la “sicurezza collettiva” dei suoi membri, nel contesto delle norme ONU che garantiscono la sicurezza dell’intera comunità internazionale. (Capitolo VIII, Articoli 52, 53 e 54)

Questo concetto della politica estera e della politica internazionale consentirà all’Europa di svolgere un ruolo di primo piano nel mantenere operazioni di pace che trarrebbero utili insegnamenti dalle esperienze passate in questo settore. Pertanto, queste operazioni devono essere neutrali. Questa neutralità è necessaria per garantire la legittimità delle forze di pace, l’unica garanzia del loro successo sul campo. È inoltre necessario rispettare la sovranità degli Stati garantita dalla Carta delle Nazioni Unite. Queste operazioni devono iscriversi in un ruolo di sostegno delle organizzazioni regionali delle Nazioni Unite investite con una responsabilità regionale per la sicurezza collettiva.

Spesso i paesi o le regioni in cui tali operazioni di peacekeeping sono necessarie soffrano della mancanza di mezzi finanziari, militari come pure delle risorse logistiche necessarie per realizzarle. L’Europa e altre grandi potenze hanno l’obbligo di mettere i loro mezzi a loro disposizione. La creazione di uno Stato-maggiore, d’altronde previsto dalla Carta delle Nazioni Unite, responsabile davanti al Consiglio di sicurezza ed al suo Segretario Generale sarebbe auspicabile, ma fa oggi fronte ad una forte opposizione, in particolare degli Stati Uniti. Per contro, la realizzazione sotto gli auspici delle Nazioni Unite di Stati-maggiori regionali suscettibili di essere coordinati con gli Europei costituirebbe un utile sviluppo funzionale e pragmatico per la stabilità regionale e per la sicurezza delle popolazioni. Naturalmente, qualsiasi intervento di questo tipo dovrebbe necessariamente puntare sul concetto di neutralità.

Finora questo concetto, concepito in un modo non interventista, ha dato vita ad operazioni che hanno avuto successo presso le popolazioni senza potere, a volta a causa del loro successo, sboccare sopra una soluzione politica definitiva delle crisi che queste forze di mantenimento della pace o di interposizione riescono fortunatamente ad arginare. Di fatto, lo status quo stabilito dalle armi sul terreno (ad es. Cipro) viene congelato. Ora è necessario concepire la neutralità in modo pro-attivo, ma garantendo una perfetta trasparenza e una perfetta equità ed equidistanza tra i belligeranti. Le forze regionali sarebbero supportate dagli Europei per aumentare le loro capacità logistiche e di intelligence; questo potrebbe eventualmente concernere la loro forza offensiva, a condizione che ottengano l’accordo preliminare di tutti i belligeranti per facilitare il loro dispiegamento. Questo accordo sarà più facile ad ottenere di quanto si pensi nella misura in cui verrà spiegata la nuova concezione della neutralità. Ottenuto questo accordo, il mandato regionale sarà sanzionato dall’ONU, un passo istituzionale che dovrebbe essere una mera formalità. (vedi sotto)

A seguito dello schieramento, le forze di pace intraprenderebbero la riorganizzazione delle forze armate nazionali: tutti i gruppi armati presenti sul terreno previo la loro accettazione preliminare dell’accordo di dispiegamento in cambio della neutralità, sarebbero inclusi in questo nuovo esercito nazionale. L’integrazione degli altri gruppi sarebbe soggetto allo stesso accordo alle stesse condizioni. In questo modo, nessuno dei belligeranti dovrà temere di essere disarmato unilateralmente, il che li inciterà a trasferire le loro divergenze sul piano diplomatico e politico. Il nuovo esercito nazionale sarà guidato dallo staff del peacekeeping, affiancato da comandanti e ufficiali delle forze belligeranti integrate. Questo nuovo esercito integrerà quindi una disciplina nuova. Il risultato sarà una migliore comprensione del suo ruolo strettamente professionale di difesa del territorio nazionale senza interferenze nei processi politici.

Per la massima efficacia, specialmente nei primi giorni, i sottufficiali, in particolare i sergenti e i caporali, saranno raddoppiati dai colleghi delle forze di pace. Ciò è strettamente necessario al fine di evitare tracimazioni o manipolazioni sul terreno che potrebbero far deragliare o addirittura abbattere i processi diplomatici e le politiche di risoluzione dei conflitti. In una seconda fase, la semplice disciplina e l’istituzione di meccanismi di responsabilità delle catene di comando faranno il resto, in modo che il Quartiere Generale delle forze di mantenimento della pace sarà in grado di fare affidamento sulla gerarchia della nuovo esercito per mantenere il controllo del terreno, pur continuando a fornire il rapido intervento delle proprie truppe e personale per sostenere il nuovo esercito quando necessario, che l’emergenza sia militare oppure diplomatica.

L’istituzione del nuovo esercito e la sua rapida operazione consentiranno l’avvio del processo di transizione e la standardizzazione politica interna. In realtà, questo processo non è altro che un processo costituente più o meno ampliato. Si tratta di ridefinire l’equilibrio che consentirà a tutti i gruppi armati di concepire la salvaguardia della loro sicurezza e della loro prosperità economica attraverso le nuove regole costituzionali e politiche. Queste includeranno strutture parlamentari federali o centralizzate nel quadro di una regionalizzazione concepita con un diverso grado di autonomia, secondo la composizione etnica dei paesi, ma anche in base alla loro storia e alla loro visione comune del futuro, delle strutture rappresentative delle parti, della struttura delle organizzazioni parlamentari e extraparlamentari necessarie per il coinvolgimento della società civile, e quindi per lo sviluppo della democrazia partecipativa, sociale e industriale, ecc.

In ogni caso, il fatto che i belligeranti potranno procedere immediatamente all’estensione di questo processo costituente per coinvolgere l’intera popolazione sotto l’egida delle forze di mantenimento della pace o meno, non dovrebbe costituire un ostacolo artificiale. È meglio ridefinire rapidamente i fondamenti del nuovo equilibrio che consentirà il passaggio al normale processo politico, anche se all’inizio del processo le popolazioni saranno coinvolte solo attraverso i loro rappresentanti, in quanto firmatari degli accordi di distribuzione, ma a condizione che siano concordate scadenze di revisioni costituzionali specifiche e datate che si concentrano su aree specifiche e mirate piuttosto che sull’intera Costituzione.

Ciò consentirebbe quindi a tutti i cittadini di influire il processo direttamente o attraverso i loro rappresentanti democratici, sindacali, culturali, ecc. Questo calendario funzionalmente dilazionato nel tempo dovrebbe quindi avere la conseguenza strutturale di incoraggiare le alleanze delle classi e dei gruppi trans-etnici che rinunceranno istintivamente alla violenza poiché l’attuale Costituzione sarà stata precedentemente oggetto di un negoziato tra le élite e i popoli, nella logica della politica di « accommodation », in modo che nessuno avrà più interesse a rimettere in causa l’accordo costituzionale in questione.

La prima fase costitutiva è quindi di importanza cruciale: per avere successo, soprattutto in Africa e in paesi ricchi di risorse ma resi crudelmente poveri dallo sfruttamento interno ed esterno, è necessario tener conto della condivisione equa di accesso alle risorse del paese per tutti i gruppi e, di conseguenza, tenere conto dei modi comuni di pianificare lo sviluppo di queste ricchezze. Questa equa condivisione della possibilità per tutti di avere accesso alla ricchezza nazionale eliminerebbe le liti sterili e velenose sulla condivisione dei cosiddetti ministeri importanti nell’imitazione di un Occidente diviso in due dalla guerra fredda interna indotta dall’Accordo di Yalta.

Tutti i dipartimenti sono importanti se contribuiscono al bene generale. In ogni caso, il ruolo dei ministri non è quello di giocare i capi di clan a rappresentanza di un gruppo particolare. Questa condivisione preliminare può essere realizzata con grande flessibilità quando si realizza che l’adeguamento del “potere di spesa” (dazi doganali, canoni, tasse, imposte, tariffe, ecc.) dello Stato centrale, ma anche delle regioni e dei comuni, se opportunamente codificato, senza eccessiva rigidità, consente di operare questa “accommodation » delle elite” (Robert Presthus), la quale deve pure essere una « accommodation » del popolo, cioè compiuta su una scala altrimenti più grande e più compatibile con il bene generale e il bene superiore dello Stato rispetto a quello che si può raggiungere con la devoluzione delle risorse nazionali unicamente in favore della proprietà e delle aziende private.

Per facilitare ulteriormente le modalità di condivisione in modo da prevenire lotte intestine tra i vari livelli di governo, è utile ricordare che diversi paesi federali hanno scelto di cedere alle regioni relativamente autonome la proprietà delle risorse naturali situate nel loro territorio, e dunque le royalties ricavate dal loro sfruttamento, rafforzando contemporaneamente il potere centrale conferendoli il potere esclusivo di tassazione sulla trasformazione e la vendita di queste materie prime. Allo stesso modo, gli Stati centrali procedono ad una certa devoluzione del potere fiscale ai livelli inferiori, il caso più noto essendo quello della concessione delle tasse sulla proprietà ai comuni per i quali costituisce la principale base imponibile.

È quindi importante decidere quale tipo di “regime politico” sarà più adatto. Ma, ad un livello ancora più fondamentale, si tratta di garantire che parte della ricchezza nazionale sarà controllata da società nazionali in tutti i settori strategici. Le scelte forzate in termini di politiche neoliberiste che hanno seguito il vertice di La Baule, seguito dal calo forzato del Franc CFA rispetto al Franc, devono essere riconsiderate. In effetti, il principio dell’impresa privata rafforzerà inevitabilmente gli squilibri naturali, sia che si tratti di grandi ricchezze situate in piccole regioni (ad esempio Shaba / Katanga) o meglio geograficamente distribuite, in modo che appartengano prevalentemente a gruppi con una maggiore area di espansione demografica. Queste contraddizioni si riflettono quindi in un modo sterile sui processi parlamentari. Questi saranno più forti se già fondati sopra una lunga pratica di condivisione delle ricchezze materiali.

Le imprese statali nazionali forniscono una soluzione elegante a questo problema adottando quote per garantire che nessun singolo gruppo etnico sia rappresentato in modo non equo. Inoltre, questi equilibri interni possono essere facilmente adattati senza grandi conflitti con gli usuali margini operativi istituzionali e amministrativi di queste strutture (cioè, in un modo più mite perché non direttamente politico), in particolare per quanto riguarda l’assunzione di personale a tutti i livelli e la definizione del numero di funzionari “necessari”, secondo i bisogni, senza influire sulla produttività complessiva dell’azienda.

Gestendo efficacemente la ricchezza nazionale secondo parametri di crescita e sviluppo definiti congiuntamente, queste imprese pubbliche sono di fatto il modo migliore per unire i ceti dirigenziali intorno al progetto nazionale, indipendentemente dalla loro origine etnica. Come abbiamo già detto per le imprese pubbliche necessarie in Europa, i paesi in via di sviluppo appartenenti allo stesso mercato comune avrebbero un forte interesse a creare imprese pubbliche sovranazionali dato che in questo modo ci sarebbe la possibilità di massimizzare le risorse esistenti, che rischiano attualmente essere svendute attraverso la privatizzazione e la deregolamentazione, creando al contempo economie di scala adatte ai mercati regionali in questione. Assieme alle scuole pubbliche ed ai media nazionali, o persino alle squadre di calcio nazionali o di altri sport, queste società pubbliche sono i migliori crogioli della Nazione. Un solido sistema di pianificazione nazionale e regionale sosterrebbe ulteriormente questo sviluppo promuovendo la loro integrazione nell’economia globale.

Una volta superata la fase costitutiva, seguiranno le elezioni. Dopo queste elezioni seguite dall’istituzione del nuovo governo, inizierebbe il graduale ritiro delle forze di pace, lasciando sul campo solo le squadre necessarie per finalizzare la trasformazione del nuovo esercito in un esercito professionale: questo porterebbe poi a una transizione mirata a trasformare il sostegno delle forze di pace in una normale cooperazione militare con queste nuove forze armate negli organi regionali di sicurezza collettiva sotto l’egida delle Nazioni Unite. Il “follow-up”, se si vuole usare questo termine con un’oggettività priva di ogni paternalismo, sarebbe quindi assicurato istituzionalmente. Con il suo impatto, agirà naturalmente come misura preventiva per l’intera regione interessata.

Non penso che sia possibile parlare di « premio alla violenza » nella prospettiva qui adottata. Primo, ogni stato degno di questo nome prenderà adeguate misure di prevenzione sociale, politica e di polizia per prevenire e disinnescare i conflitti interni. In secondo luogo, la maggior parte se non tutti i conflitti più gravi nella regione provengono da cause esterne. I confini africani furono disegnati dalle potenze coloniali senza preoccuparsi delle popolazioni se non con lo scopa di dividerle. Inoltre, nel contesto attuale post-Guerra Fredda, vecchie rivalità hanno prodotto rivalità locali, più diffuse e meno inquadrate ma spesso alimentate da compagnie alla ricerca di concessioni miniere o commerciali e di profitti più veloci ma non sempre legali.

Inizialmente, quindi, si dovrebbe riaffermare il principio della inviolabilità delle frontiere (il cosiddetto Primo canestro degli Accordi di Helsinki, senza mai dimenticare che la sua violazione da parte della Germania e degli USA nei Balcani, a causa di una volontà di purificazione ideologica, ha dato luogo al conflitto più atroce sperimentato in Europa nel dopoguerra.) Questa riaffermazione deve e sta per essere rafforzata attraverso il consolidamento delle formazioni regionali dedicate alla sicurezza e la formazione di spazi economici comuni, portando ad un felice sorpasso delle contraddizioni iniziali ereditata dal colonialismo. In una seconda fase, tutti, tanto i governi quanto i gruppi belligeranti, dovrebbero ricordare il rispetto necessario per le Convenzioni di Ginevra, così come gli insegnamenti di Mao Tse Toung sul trattamento dei civili nella sua « Tabella di marcia della VIII Armata »; questi rappresentano un passo di civiltà che illustra ancora una volta il contributo iniziale comunista in questo settore (in chiaro contro la dottrina dei bombardamenti delle popolazioni civili sostenuti dai teorici borghesi come il generale Giulio Douhet, teorici molto apprezzati dai fascisti e nazisti come pure all’epoca contemporanea dai stati-maggiori israeliani e statunitensi, come dimostrano le loro dottrine e le azioni sul terreno, le bombe a frammentazione, il bombardamento delle infrastrutture civili, il dinamitaggio delle case senza dimenticare le « diasy bombs ».)

Nella l’ottica che ci preoccupa qui, dal punto di vista delle popolazioni civili, la questione difficile è quella di accelerare le trattative prima di ogni intervento dato che la negoziazione delle modalità di attuazione della neutralità qui difesa è più immediatamente utile ai leader rispetto alle persone. Come gestire allora le emergenze prima degli schieramenti i quali, in ogni caso, richiedono sempre un certo tempo prima di essere efficaci? La soluzione sta nella formazione e / o attivazione delle organizzazioni regionali di sicurezza collettiva, rigorosamente poste sotto l’egida delle Nazioni Unite, nel rispetto della neutralità come sopra definita. In effetti, nessun gruppo belligerante sarà in grado boicottare un tipo di intervento che garantisce la sua rappresentanza politica senza il rischio di una sconfitta militare.

I veri problemi sono altrove, vale a dire nel intervento (o nel non intervento attivo) di potenze straniere, come dimostrato da Wolfowitz, imitando con il suo solito stile i crimini della Albright in Ruanda quando, malgrado le urgenti richieste di intervento americano in Sierra Leone e in Liberia, pensò essere altrettanto intelligente e abile nell’affermare che gli Stati Uniti non potevano intervenire senza aver precedentemente ricevuto l’approvazione di tutti i belligeranti e questo in nome della « neutralità ». (In realtà, Wolfowitz non poteva ignorare la situazione sul terreno, soprattutto perché non poteva ignorare il fatto che questo tipo di posizione da parte del suo paese poteva solo alimentare il fuoco impedendo l’azione delle Nazioni Unite. Nel stesso modo, non era inconsapevole in coscienza, sebbene in un modo caratteristico, di avvilire un concetto essenziale nato altrove.)

In realtà, quando è necessario per il bene delle popolazioni civili, senza violare la sovranità degli Stati membri delle Nazioni Unite, né di provocare dei « regime change » illegali, è chiaro che si deve esercitare una pressione estrema, al fine di fare riconoscere rapidamente da tutti i belligeranti o almeno, in primo luogo, ai principali tra loro, dal punto di vista della continuità dello Stato e della posizione di forza sul terreno, il dispiegamento dei caschi blu secondo il principio di neutralità qui descritto. A mia conoscenza, nessuna richiesta di intervento di mantenimento della pace, compreso quelle classiche che si sono verificate durante la Guerra Fredda, è mai stata negata. I loro problema risiedeva nel loro prolungamento e nel fatto che potevano, in linea di principio, essere revocati da un singolo partito con l’intenzione di risolvere il problema con le armi al momento opportuno.

Il nuovo principio di neutralità, che dà luogo a una traduzione politica negoziata, ordinata ed equa, sarà impossibile da rifiutare. Adeguate pressioni quando necessario faranno il resto. In definitiva, l’unico vero problema è la riluttanza di alcuni membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Pertanto, fino a quando il principio della Risoluzione Acheson sarà reintrodotto per democratizzare la relazione tra il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea Generale, sarebbe auspicabile che le organizzazioni regionali di sicurezza collettiva prendessero l’abitudine di riferirsi prima alle Nazioni Unite e, in caso di rifiuto di alcuni membri permanenti, di esercitare la Risoluzione Acheson a livello regionale, avendo cura, però, di fare approvare gli interventi più controversi da parte dell’Assemblea Generale per consentire a qualsiasi membro delle Nazioni Unite di contribuire al finanziamento di queste operazioni non aggressive implementate in nome delle Nazioni Unite e nel rispetto della sua Carta fondamentale. Questo costituirebbe quindi un’alternativa, accettabile al livello internazionale e coerente con la Carta delle Nazioni Unite, alla cosiddetta « ingerenza umanitaria ». Perché quest’ultima ha solo servito gli interessi delle grandi potenze “interessate”, fornendo al contempo un vantaggio mediatico per alcune personalità « imparziali » come Jacques Foccart o H. Kissinger e loro emulatori, più o meno occulti.

Inscrivendo questi principi onusiani nella sua Costituzione, l’Europa sarà naturalmente portata a dotarsi dei mezzi economici e diplomatici necessari per assicurare la propria indipendenza e la propria autonomia di azione sulla scena internazionale. Sarà quindi fortemente inclina a favorire azioni compatibili con la Carta delle Nazioni Unite, comprese quelle che, per un certo periodo, si svolgerebbero per alcuni membri nel quadro di alleanze regionali in parte fuori dell’Europa.

Poiché una delle principali funzioni del finanziamento della ricerca e delle industrie legate al “complesso militare-industriale” europeo attraverso le « cooperazioni rafforzate” mirano all’indipendenza economica, ne consegue che l’UE non può permettersi di sostenere finanziariamente i nuovi paesi membri allo stesso ritmo degli altri quando, per ragioni ideologiche di un’altra epoca, intendono minare la forza complessiva europea procurandosi sistemi di armi fuori dall’Europa. Coerenza e decenza sono qui di rigore, non ammettono nessuna discussione. I cavalli di Troia non sono indispensabili a nessuna “casa comune”, e a più forte ragione al proletariato o ai suoi sindacati e organizzazioni politiche, evidenza tragicamente dimostrata dalla storia recente. Inoltre, poiché lo sviluppo di questi sistemi di armamenti coinvolge complessi industriali su vasta scala, sarebbe importante che l’UE fosse in grado di distribuire meglio i benefici economici ai paesi acquirenti. Ciò dovrebbe, in linea di principio, essere di competenza della Commissione del Piano di cui sopra.

Tuttavia, sono necessarie alcune azioni decisive. La prima implicherebbe il sostegno dell’Europa e dei paesi più avanzati per l’attuazione di una difesa europea comune da parte dei dirigenti dei paesi membri che desiderano porre fine ad un avatar di neocolonialismo derivante dalla Guerra Fredda, che oggi prende la forma vergognosa della presenza di basi militari statunitensi nel cuore di alcuni stati membri dell’UE. (In Italia le basi americani sono più numerose delle provincie e più costose se si includessero i costi di mantenimento e gli ampliamenti; portano pregiudizio al Articolo 11 della Costituzione nata dalla esistenza come prue alla salute delle popolazioni d’intorno come reso palese dal Movimento No MUOS.) Queste basi non sono più necessarie per la NATO dato lo sviluppo di nuove armi e dato il suicidio del Patto di Varsavia, un’organizzazione che costituiva la sua unica “ragion d’essere” “accettabile”. Nella migliore delle ipotesi, la NATO ha bisogno di basi aeree per fermarsi per il rifornimento di carburante. Questi sono compiti che dovrebbero essere pianificati all’interno degli eserciti dei paesi membri, ma certamente non richiedono la presenza armata extra-territoriale degli Stati Uniti nei paesi membri.

Data la preponderanza del sentimento popolare europeo a favore della pace e della Carta delle Nazioni Unite, il numero di compiti della UE nel quadro della NATO è minimo, se non inesistente. Le élite americane possono sognare di diventare il “braccio armato” delle Nazioni Unite, questo è solo un sogno unilaterale portato dall’imperialismo. Distorce il mandato della NATO e il suo ruolo; tradisce il funzionamento democratico previsto dalla sua Carta, che per parte sua richiede un processo decisionale unanime tra i paesi membri sovrani. Ricordiamo che questo accordo unanime, compatibile con l’astensione, dovrebbe essere sanzionato dal voto di ogni parlamento, a meno che non si desideri ridurli a semplici camere di registrazione pre-democratiche. Le élite imperialiste degli USA, le quali farebbero meglio leggere le avvertenze di Harry Magdoff sulla questione, sono libere di perseguire i loro sogni imperiali patologici, se lo desiderano, ma questo non concerna l’Europa. Soprattutto non a livello del finanziamento.

Dobbiamo renderci conto che, se così fosse, la volontà di subordinare l’Europa alla scelta imperiale e militarista non rappresenterebbe, in ogni caso, la decisione strategica o diplomatica più saggia perché contro natura. Per quello che riguarda i paesi membri, la realtà è che queste escrescenze territoriali di un’altra epoca (v. Cermis, per esempio) concretizzate dalle basi militari devono essere rimosse. Funzionano al meglio come potenti lobbie anti-democratici, e in tempo normale, almeno nella Penisola italiana, come un vero Senato Onnipotente di una democrazia sotto tutela, soggetta alla “strategia del terrore” appena questi interessi stranieri (militari, economici e strategici) sono minimamente messi in discussione. (Chi può dimenticare, visto l’euforia che seguì la caduta dell’URSS, l’ambasciatore statunitense a Roma al tempo degli “anni di piombo” riconoscere davanti le televisioni americane il suo ruolo di portatore di valigie di denaro destinato ad alimentare la distruzione sistematica di ogni possibile « compromesso storico » suscettibile di portare il paese fuori dalla sua servilità luckylucianesca?

Chi può dimenticare che quel triste membro del Gladio, il Signore Andreotti, che sicuramente non merita essere in libertà, non subì almeno uno dei suoi processi perché le autorità americane misero fuori di portata delle autorità giudiziarie italiane un testimone chiave. Questi bravi alleati imperialisti lo tennero al sicuro fino alla sua morte, mentre la sua testimonianza, la cui sostanza non fu mai un gran segreto, avrebbe bastato per permettere alla giustizia italiana condannare alla prigione questo triste valletto informe, che amava masticare con delizia la parola “Belzebù”, mentre indossa in primo luogo il peso della maledizione d’Aldo Moro? Andreotti è solo il più caricaturale di questi servitori politici ordinari, che contando tra loro un Cossiga. Sono indole che mettono costantemente l’interesse della loro casta al di sopra dell’interesse nazionale. Sono persone che darebbero onta al paese più corrotto e dipendente al mondo, ma che certamente bastano per condannare la pratica medievale di nominare dei senatori a vita.

Tuttavia, al momento delle ricomposizioni politiche precipitose, nessuno dovrebbe dimenticare o sottovalutare il contesto culturale nazionale e internazionale. Per fare un esempio, questo contesto permise ad un Enrico Berlinguer ed a diversi altri personaggi pagati per anni all’interno del PCI ufficiale, sostenere che la NATO (e di conseguenza le sue basi e le sue conseguenze mortali nella Penisola?) fosse migliore del blocco comunista. Questo atteggiamento quasi scontato (?) dovrebbe essere paragonato alla comprensione oggettiva e critica delle dinamiche e del margine di libertà all’interno del regime mondial bipolare difeso da Gramsci o Togliatti, De Gaulle o Tito, secondo la loro rispettiva posizione di classe: apparentemente non si reclamavano delle stesse ” radici “di quelli, né degli stessi referenti religiosi. Di certo non avrebbero tratto le stesse conclusioni dall’offensiva diplomatica sovietica a Helsinki, la quale dimostrò concretamente che la distensione della rigidità bipolare poteva portare l’Europa ad essere autenticamente indipendente dall’uno e dall’altro blocco. (Più astutamente, Washington ne trasse la sua paura di qualsiasi “disaccoppiamento”, un’ossessione che sembra difficile da superare, questione di regime a parte!)

E che dire di questi altri, variamente eletti per alleanza o per scelta, sempre convinti di essere nel senso della Storia con la migliore coscienza al mondo, a volte tornando (come un clown Ingrao) da un rifugio a San Giovanni in Fiore in tempi più dolorosi e sfortunatamente senza umorismo, ma che oggi si affaccendano leggermente per nascondere i progressi più autentici nel campo della « legge del valore marxista » o della « teoria della psicoanalisi marxista »? Come « comunisti » che sono tornati consapevoli dei loro errori del passato, ci affermano oggi, con molto ritardo ma sempre con la buona coscienza del loro incorreggibile opportunismo, che in realtà non hanno mai creduto nel comunismo, il che non gli ha impedito di essere pagati come tali. Faticosamente fanno finta di ignorare che questi ultimi contributi cruciali alla pratica teorica marxista sono ampiamente plagiati da tanti pitre titolari (ma con merito nietzschiano) occupati ad occultarne il significato. Questi sforzi di nietzschiani « svegli » sono vani ma hanno il vantaggio di rivelare l’onestà e la decenza intellettuale o semplicemente umana degli uni e degli altri (in effetti, questa è una benedizione ed un buono auspice per il futuro, non è vero)?

E chiaro che queste retoriche bassamente interessate nascano dall’illusione comune sul significato della Storia recente e della memoria poco filo-semitica nietzschiana dei militanti, oppure sulla auto-promozione di un « stile di espressione di classe », molto pulito, che sono orgogliosi di aver interiorizzato perché li mette, fortunatamente, al riparo da qualsiasi pensiero che involontariamente sentirebbe di eresia. Non è forse vero che un buon dibattito “democratico” è un dibattito ben strutturato, le cui conclusioni sono tratte in anticipo? Un dibattito volto a banalizzare e a snaturare i punti di forza dell’avversario tacendo il suo nome per negarli il diritto di risposta ma rubando e rovesciando i suoi concetti, con la certezza di godere dell’impunità intellettuale? Alcune persone, e in particolare il popolo stesso, non hanno mai bisogno dei soliti rappresentanti auto-nominati che pretendono parlare al loro posto, senza il bagaglio necessario. Una storia da finire quindi: c’è chi si rivendica della Commune e chi invece, credendo che il tempo dell’Impero è arrivato e sicuri della loro posizione di bassi cleri in vari organi falsamente dati per « autonomi », rinnegano la loro antica maschera (marxista?) per affermare bianco su nero che, dopo tutto, non avevano mai creduto nell’ « utopia » dei « consigli operai ».

Ma ci sono anche gli altri, tutti quelli che alla fine saranno inevitabilmente costretti a giudicare. E vero che solo gli sciocchi non cambiano mai il loro parere, ma il problema è che, purtroppo, a volte anche gli sciocchi cambiano idee, nonostante il processo preventivo indirizzatoli. Senza dubbio lo fanno solo dopo un attento esame, senza cedere alle mode troppo venali che per natura non sanno valutare!

Abbiamo dunque capito che la presenza di queste basi straniere falsifica irreparabilmente la democrazia nei paesi ospitanti, come pure il loro punto di vista diplomatico, politico, economico e, naturalmente, il loro comportamento giudiziario e culturale. Una costituzione europea sarebbe priva di significato se accogliesse la permanenza di queste escrescenze extraterritoriali al suo interno. Ho già avuto modo di sottolineare che questa posizione di principio, per quanto riguarda la presenza di basi militari straniere sul suolo italiano, non ha nulla a che vedere con l’amicizia tra i popoli americani e italiani. La chiusura di queste basi potrebbe anche essere coronata dall’intensificazione dei contatti tra le popolazioni civili di entrambi i paesi in termini di accoglienza di studenti, turisti o anche uomini d’affari. In realtà, questi contatti sono già estremamente sviluppati e reciprocamente vantaggiosi, come possono testimoniare le persone della mia generazione.

Immigrazione.


Numerosi rapporti in provenienza delle varie agenzie specializzate dell’ONU puntano alle decine di milioni di persone che vivono nel Sud o nell’Est del bacino del Mediterraneo, che probabilmente si trasferiranno dalla loro regione di origine perché spinte dalla repressione politica o dal terrorismo inerente al sistema economico disuguale contemporaneo. D’altra parte, il tasso di fertilità sintetico di tutti i paesi europei avanzati è ben inferiore alla percentuale necessaria per il rinnovo della popolazione. A questo ritmo un paese come l’Italia avrà circa 49 milioni di abitanti o meno tra 25 o 50 anni. Il suo status di grande potenza europea e di potenza media mondiale scomparirebbe per molto tempo. Il calcolo secondo cui questa evoluzione demografica sarebbe un vantaggio economico per un capitalismo post-moderno, un sistema che « libera » sempre più forza lavoro di quanto sia in grado di assorbire, è un calcolo suicida sfortunatamente più idoneo alle società già invecchiate le cui arterie stanno iniziando ad essere seriamente anchilosate per l’incapacità di mantenere una mente e un cuore giovani e socialmente ambiziosi.

Lo Spazio Schengen vale tanto quanto i distretti fortificati degli Stati Uniti o di Neuilly: nei suoi vanitosi sforzi, protegge solo ciò che sta morendo senza ritorno, storicamente parlando. Anche i calcoli aritmetici relativi ai milioni di persone che dovrebbero essere ospitati in un breve periodo di tempo per potere raggiungere il tasso di rinnovamento della popolazione non sono molto convincenti; si tratta solo di uno spaventapasseri accademico che fa il letto del paradigma neoliberista nelle profondità delle coscienze più vulnerabili o più compradore. Perché preoccuparsi di cercare ciò che è matematicamente impossibile? Pertanto, qualsiasi contributo esterno alla forza lavoro ed al tasso di natalità preso in considerazione dallo Stato richiederebbe immediatamente l’uscita dai modelli economici e internazionali prevalenti, perché è proprio di questo che si tratta.

Tuttavia, è sufficiente puntare al raggiungimento progressivo del tasso di rinnovamento impostando obiettivi quantificabili più immediati: mantenendo il rapporto tra la forza lavoro attiva e pensionati prima a 3 per1, quindi la progressione ascendente di questo rapporto verso un rapporto di 4 a 1 e oltre, secondo la programmazione della crescita reale. Per “crescita reale” si intende ovviamente l’aumento del PIL, ma secondo un “metodo” che rispetta alcuni criteri socioeconomici di base compatibile con il finanziamento dei fondi pensione coerenti con la condivisione del lavoro tra tutti i cittadini atti a lavorare e con il pensionamento generale all’età di 55 anni, compatibile dunque con il finanziamento di tutti i programmi contributivi e in generale con il mantenimento della base fiscale necessaria per permettere gli interventi dello Stato sociale.

Un esame più attento mostra che l’Europa invecchiata e impaurita non può fare a meno di questo contributo esterno: i visti Schröder, come pure la situazione degli infermiere/i in Francia dopo l’attuazione delle 35 ore, ne testimoniano, come pure il contributo necessario degli immigrati oggi in Portogallo, Spagna o Italia. Questa scelta di una gestione puramente capitalistica della forza lavoro nel quadro di un modello di offerta neoliberista spiega un gran numero di contraddizioni “insormontabili”. Queste stesse contraddizioni amplificate da Schengen fanno il letto alla reazione in tutto il continente. Ad esempio, i rifugiati politici ancora protetti dai trattati internazionali sono ridefiniti automaticamente come rifugiati economici dunque suscettibili di essere rimpatriati con buona coscienza borghese. L’Inghilterra spende milioni di dollari ogni anno per tenere sotto controllo i potenziali passeggeri clandestini negli aeroporti e in altri potenziali punti di partenza. L’Italia finanzia la polizia costiera dei suoi vicini per evitare di dover affrontare questi problemi nelle relazioni televisive trasmesse durante le ore di punta.

Questi paesi, tuttavia, contribuiscono alle bellissime guerre preventive con i loro bombardamenti umanitari – sic ! – che, dai Balcani alle regioni curde, hanno alimentato problemi latenti, contribuendo nel contempo a spostare milioni di persone. L’ultima trovata consiste a rafforzare la Linea Maginot di Schengen in modo da non dovere rimandare in dietro i nuovi arrivati (con tanta manipolazione mediatica demagogica) mentre si tenta di rinviare rifugiati e altri clandestini al loro paese di partenza. Alla fine, questa logica dello spazio Schengen influisce nelle vette mediterranee dettando le priorità di questi incontri che dovrebbero invece affrontare le problematiche della necessaria cooperazione sulle due sponde del Mare nostrum. Si contribuisce così ad peggiorare l’attuale situazione in modo che la « politica di potenza » dei paesi occidentali produce sempre più « rifugiati », diciamo in proporzioni industriali nei paesi del Sud. Questi paesi destinati ad accoglierli principalmente, cosa che fanno già oggi, godono al massimo di un aiuto umanitario in realtà frutto di una dubbia forma di « ingerenza ». Si realizza come tutto questo sia insostenibile e disastroso.

Nel mio Tous ensemble (pagine 89-90) ho cercato di sviluppare in modo succinto i contorni di una politica europea capace di conciliare lo sviluppo economico delle regioni e delle città con il un’agevole integrazione dei nuovi arrivati, il numero dei quali potrebbe essere aumentato in modo significativo attraverso la promozione della categoria dei rifugiati, specialmente quelli inverso i quali l’Occidente ha dei debiti storici o recenti. Rimando qui ai passaggi citati. Essenzialmente, si tratterebbe di reindirizzare i fondi strutturali europei. Contrariamente al desiderio di eliminarli definitivamente, dovrebbero essere estesi alle regioni capaci di proporre progetti per rilanciare l’economia locale grazie ai benefici economici dell’integrazione degli immigrati.

La combinazione di questi due obiettivi consentirebbe di rilanciare una crescita locale, sopprimendo le radici economiche e psicologiche della xenofobia ordinaria, tagliando così l’erba sotto i piedi dei partiti di estrema destra. L’immigrazione sarebbe quindi accuratamente associata alla crescita reale. Ricordiamo un’altra lezione del New Deal americano: lo scoppio della guerra attraverso l’Atlantico ha portato alla rapida realizzazione della piena occupazione e, di conseguenza, ad un significativo miglioramento dei salari. I New Dealer, già convertiti al Keynesianesimo da economisti come Hansen, e spronati da giovani reclute come Paul Sweezy, notarono subito che l’aumento marginale dei salari reali delle famiglie si investiva rapidamente nei prodotti dei settori intermedi fortemente legati all’aumento dello standard di vita come l’automobile e gli elettrodomestici.

Questa idea essenziale rimane alla base della tesi della “maturazione” dei mercati sviluppata in particolare da François Perroux, sebbene sia espressa secondo un diverso angolo di visione. L’immigrazione, e quindi la sua rapida integrazione economica e sociale, in particolare quella dei rifugiati, contribuirebbe quindi al sostegno di mercati interni più redditizi rispetto ai mercati esterni, poiché anche quest’ultimi richiedono una delocalizzazione industriale basata unicamente sui profitti realizzati dalle società. multinazionali. Una revisione delle regole dell’anti-dumping completerebbe il quadro: si assicurerebbe così la salvezza definitiva delle industrie europee e dei suoi lavoratori.

Più in generale, è chiaro che il modello di sviluppo delle due sponde del Mediterraneo deve cambiare imperativamente. È il ruolo dell’Europa spingere a favore di questo cambiamento. Prima di tutto, si deve tornare ad una politica sociale in Europa nuovamente fondata sull’intervento statale e sulla pianificazione, come abbiamo detto prima. Questo nuovo modello dovrebbe essere difeso dalle competenti autorità europee e dai paesi membri all’interno del FMI e della Banca Mondiale, organizzazioni all’interno delle quali la zona euro ha quote collettivamente più grandi di quelle degli Stati Uniti, senza che essa godesse di influenza economica e diplomatica, ad esempio nei negoziati del Club di Parigi, o ancora nella definizione delle « condizionalità » legate ai piani di adeguamento strutturale richiesti ai paesi indebitati del sud.

Allo stesso modo, la periferia del Mediterraneo, estesa alla Francofonia e all’Africa, dovrebbe costituire una base diplomatica per la difesa della nuova concezione della definizione dell’anti-dumping legata al mantenimento della piena occupazione. Dovrebbe anche essere una base necessaria per lo sviluppo della stessa Europa attraverso la ristrutturazione e la valorizzazione degli aiuti esteri condizionati. Visto l’impatto del reaganismo, tutti i paesi sviluppati hanno dimenticato l’obiettivo dello 0,7% del PIL che avrebbe dovuto essere messo a disposizione grazie agli aiuti esteri: oggi, questa percentuale si aggira intorno allo 0,3 o allo 0,4%, nella migliore delle ipotesi, ma soprattutto serve come pretesto per finanziare il settore privato sotto forma di una “partnership” in base alla quale il settore privato si sostituirebbe vantaggiosamente al ritiro degli Stati. Prova fatta, questa ricetta ha provocato un disastro raramente eguagliato nella Storia. Prescrizioni neoliberali e Chicago Boys a sostegno, questa iniziativa reazionaria trasformò una parte del Terzo Mondo in uno Quarto Mondo, specialmente in Africa, il continente che è stato definito “continente perduto per lo sviluppo”.

Come fu illustrato da altri, una buona comprensione del mantenimento e dello sviluppo dell’Europa richiede nuove relazioni con i paesi africani, con il Mediterraneo, con la Federazione russa e con la Cina. Dovrebbe essere aggiunto a questi studi, l’odierno imperativo di cambiare il paradigma del commercio internazionale e degli aiuti allo sviluppo economico. Nel primo caso, che si concentra più specificamente su Russia e Cina, queste sono essenzialmente le nuove regole da sviluppare in termini della nuova definizione dell’anti-dumping legata alla piena occupazione. Il resto seguirebbe da se.

Nel secondo caso, che riguarda molti paesi africani e attorno al Mediterraneo, si tratta di invertire l’ottica: l’aiuto allo sviluppo non sarebbe più un aiuto mirato (in teoria) essenzialmente a questi paesi ma anche o soprattutto all’Europa stessa, il che sarebbe più congruente con la realtà. Si tratterebbe di progettare uno spazio integrato e quindi reciprocamente vantaggioso, basato sulla pianificazione a lungo termine di una divisione interregionale del lavoro. La mia opinione è quella dell’egoismo calcolato del Piano Marshall, ma nel pieno rispetto della sovranità dei paesi interessati (non è pensabile, ad esempio, trattare lo Zimbabwe come un Bernard Baruch pensava potere trattare l’Unione Sovietica: cioè, chiedere il controllo di tutta la contabilità del paese in cambio dell’accesso ai fondi messi a disposizione dal piano, una proposta che in realtà era stata calcolata demagogicamente come un’esclusione a causa del suo rifiuto scontato di Stalin.)

L’aiuto, coordinato da un organismo europeo, punterebbe inizialmente a percentuali comprese tra l’1 e il 2% del PIL. Il suo importo sarebbe completamente sostituito in futuro alle attuali esenzioni fiscali concesse alle imprese, poiché è noto che queste misure fiscali raggiungono rapidamente rendimenti decrescenti senza che lo Stato sia in grado di controllare l’uso che ne viene fatto da parte delle imprese in termini di creazione di posti di lavoro. Questo aiuto sarebbe quindi necessariamente condizionale – « lié » -, nel senso che provocherebbe acquisti proporzionali nei paesi donatori. D’altra parte, i paesi o le comunità regionali che ricevono tali aiuti sarebbero padroni per quanto riguarda l’allocazione industriale ed economica di questo aiuto. Questo è il modo migliore per ottimizzare la pianificazione economica globale da una parte all’altra senza creare rigidità artificiali nel funzionamento ordinario delle economie considerate.

Naturalmente per accelerare il movimento di sviluppo, si preferirebbero le joint venture. A causa della scarsità di capitale disponibile in Africa, queste joint venture potrebbero assumere la forma di consorzi formati sulla base degli aiuti dei Stati europei e della partecipazione di aziende pubbliche o private europee in collaborazione con i partner locali disponibili. Dopo 4 o 5 anni, la quota generata dagli aiuti di Stato europei verrebbe venduta in tutto o in parte ai paesi ospitanti, il che sarebbe niente di più o di meno che ammortizzare gli investimenti a lungo termine delle società europee impegnate in questi paesi, garantendo così la redditività di tutti i consorzi in questione.

In oltre, i paesi africani prenderebbero il controllo di tutte le istituzioni bancarie che operano nel loro paese senza essere impegnate principalmente in finanziamenti import / export o nei prestiti ai consorzi di cui abbiamo parlato. Queste istituzioni finanziarie assumeranno la forma di cooperative di risparmio dirette da un’istituzione madre. Oltre a restituire il controllo del risparmio interno ai paesi africani senza il quale non è possibile nulla in materia di sviluppo, questo avrebbe tre vantaggi: in primo luogo quello di dare ai governi africani la possibilità di finanziare i loro debito pubblico con i loro propri risparmi interni, in modo da ridurre tendenzialmente il loro debito estero; in secondo luogo, creare istituzioni bancarie con solide basi nazionali; e infine, consentire, grazie alla struttura cooperativa, la concessione di microcrediti, preferibilmente per il mondo agricolo, artigianale o per le iniziative industriali locali. Anch’esse rispetterebbero la struttura cooperativa, consentendo un migliore utilizzo dei mezzi di produzione disponibili.

Con o senza aiuto esterno, è chiaro che le riforme della socializzazione di risparmio interno, dunque del credito, dovrebbero rappresentare una priorità per tutti i paesi africani. I criteri di sviluppo ritenuti e resi possibili nel quadro della nuova forma degli aiuti esteri sarebbero funzionali: si tratterebbe di riabilitare la logica delle filières nelle zone considerate trattando gli agenti dei paesi ospiti come dei partner uguali. Questo per una semplice ragione: una volta che i mercati occidentali e asiatici sono saturati, i prodotti complessi dell’industria europea (TGV, fabbriche chiave in mano, ecc) devono essere in grado di contare su nuovi clienti solvibili. Quindi abbiamo bisogno di pianificare la creazione di questa solvibilità. I flussi di capitali verso il Sud sono oggi in gran parte negativi: questo scandalo preserva tanto quanto aumenta il sottosviluppo dei nostri vicini e delle loro popolazioni. Gli aiuti mirati e vincolati devono quindi compensare questo drenaggio al fine di creare le condizioni per la sua inversione sostenibile. Deve quindi essere considerevolmente potenziato e coordinato a livello europeo.

Nel lungo termine questo metterebbe in gioco le aspettative della Commissione del Piano di cui abbiamo discusso. Al fine di garantire una gestione efficace di queste nuove strategie di sviluppo, l’Europa sociale, nel concetto difeso qui, dovrebbe assumersi tutte le sue responsabilità a livello internazionale senza a priori ideologico; dovrebbe, inoltre, sostenere la creazione nel Sud di Stati capaci di intervenire con efficacia nell’economia, in particolare nei paesi che sono più propensi a ridistribuire equamente la ricchezza derivante da questa nuova relazione con l’Europa. È l’unico modo per lavorare a favore del rispetto dei diritti umani trattando con pari dignità i diritti sociali e individuali fondamentali, ottica che concerna l’Europa stessa. Altrimenti la difesa dei diritti umani formali diventa solo un sanguinoso inganno di classe, e oggi di casta, nietzschiano per il quale la « menzogna » e il « terrorismo di Stato » sono i strumenti imperialistici privilegiati.

La difesa del pluralismo dei regimi economici dovrebbe essere una linea di condotta dalla quale nessun Europeo che si rispetti dovrebbe mai deviare. In effetti, senza di essa, l’insistenza sui diritti formali borghesi non è mai altro che una sorda dichiarazione di guerra provenienti da popoli che sono globalmente in minoranza ma storicamente stabiliti come espropriatori e sfruttatori propensi a legittimare il loro dominio del mondo.

Preambolo e secolarismo

La laicità consiste nel garantire la libertà di coscienza, vale a dire la libertà di credere o di non credere. Questo principio dovrebbe essere sancito nel preambolo della Costituzione europea e nel testo della Carta dei diritti immediatamente dopo la libertà di religione. Altrimenti, il progetto di costituzione dovrà rigorosamente tacere su questo tema, in modo che prevaleranno le leggi nazionali di ogni paese membro, altrimenti dovrà essere respinto senza la minima esitazione.

Il soggetto, qualunque cosa si possa dire, è più che vitale: è semplicemente un riflesso della nostra concezione della sovranità politica, della sua origine divina o popolare. L’Europa non può essere un Vaticano o un Israele ridefinito come Stato ufficialmente razzista (di una etnia / religione) e Stato teocratico. Questo secolarismo, degno erede della storia dell’umanesimo europeo, è l’opposto della contro-riforma multi-confessionale che, secondo il desiderio dei vari Bauer, Stasi e compagnia, permetterebbe la reintroduzione surrettizia dell’oscurantismo religioso nelle scuole pubbliche, occultando la pari dignità dell’agnosticismo o dell’ateismo, o ancora del secondo sotto la forma di quello che chiamerei una “psicologia della liberazione” secondo i parametri dimostrati per la prima volta in modo chiaro e inconfutabile nella seconda parte del mio Pour Marx, contre le nihilisme.

Il preambolo della Costituzione europea dovrebbe anche includere la condanna di ogni forma di razzismo perché antitetica all’umanesimo europeo; dovrebbe sottolineare che mentre l’antisemitismo è una forma di razzismo ideologicamente e storicamente dannosa, l’esclusivismo in tutte le sue forme è la sua fonte più virulenta. Mentre una rigorosa applicazione della laicità è la migliore profilassi contro l’esclusivismo religioso, adeguate misure legali sono l’unico rimedio contro l’esclusivismo politico, dal momento in cui tutte le forme di esclusivismo politico minano irrimediabilmente i principi costituzionali di uguaglianza, di libertà (compresa la libertà di coscienza) e di tolleranza.

Per evitare discussioni sterili oppure manipolate da gruppi potenti ma non democratici, spesso provenienti dall’esterno dell’Europa, il preambolo dovrebbe probabilmente prendersi la briga di aggiungere che l’antisionismo rappresenta una opinione politica legittima, e quindi ricade sotto la protezione della libertà di opinione e della libertà di espressione. Infatti, Th. Herzl non è un profeta; è meno ancora nella propria comunità di origine che ha fortunatamente molteplici forme di espressione di ciò che è o dovrebbe essere il “sionismo” dopo il 1947 o dopo il 15 maggio 1948.

Prima di tutto, va sottolineato in Preambolo la più ferma condanna del sionismo di destra eventualmente espresso da cittadini europei, a prescindere dalle loro origini vicini e lontani, un obbligo morale e politico per causa di anti-esclusivismo, qui posto sotto il segno della resistenza al nazifascismo. Si tratta quindi di uno autentico dovere di una memoria, il quale pone gli Stati europei di fronte alla loro legittimità e, spesso, alla loro Costituzione, in ogni caso quando questa non fu scritta oltre-Atlantico. Ricordiamoci che il sionismo è un movimento multiforme nato da pogrom e dall’affare Dreyfus, un movimento che si allargo in seguito alla politica nazista di sterminio razziale. Miracolo inatteso e sottovalutato da troppe persone di tutte le origini, grazie all’accettazione del principio “scambio di terreni contro la pace” proposto dall’OLP, il sionismo sarà ora compatibile con l’esistenza legale dello Stato di Israele dopo il suo riconoscimento dello Stato palestinese indipendente e sovrano su tutti i territori occupati tale che prescritto nelle Risoluzioni 242 e 338 delle Nazioni Unite.

Dal quanto suo, il sionismo di destra è una pericolosa perversione fascista di natura coloniale, teocratica e apertamente razzista: esso sostiene l’abolizione del popolo palestinese come popolo e la sua deportazione “silenziosa” per meglio usurpare le poche terre che gli rimangono in vista della creazione utopista di un Grande Israele, in grado di imporre la ricostruzione del tempio illegittimo di Salomone sulle ceneri del Haram al-Sharif, il terzo luogo sacro dell’Islam. Questo progetto, già mostruoso in quanto implica necessariamente il definitivo svilimento di un intero popolo e di un intero gruppo umano composta da 1,2 miliardi di persone da parte di piccolo popolo perseguitato di recente, implicherebbe una guerra di civiltà permanente e, di conseguenza, il vano tentativo di costruire un impero filosemite nietzschiano capace di realizzarlo.

Ciò implicherebbe anche il controllo e la rimozione delle libertà civili dei cittadini in nome del mantenimento di una “sicurezza” autoproclamata di casta. Tutto ciò è diametralmente opposto ai valori dell’Europa storica e ancora più dell’Europa nata dalla resistenza al nazifascismo. Nessuna intimidazione può essere tollerata in materia. Nessuna denuncia di antisemitismo enunciata unicamente per coprire il sionismo di destra dovrebbe essere tollerata da qualsiasi cittadino preoccupato dei suoi doveri repubblicani e della giustizia. Confusione e amalgama, come sappiamo, spesso fanno il letto del più violente oscurantismo, sempre pronte a legittimare i suoi numerosi crimini di guerra come autodifesa appena gli si lascia un può di spazio.

Sottolineiamo l’obbligo per l’Europa di istituire una commissione multietnica che riunisca tutte le credenze, religiose o meno, la cui vocazione sarà il monitoraggio del razzismo in tutte le sue forme in Europa. Questa Commissione sarebbe dotata di un potere di raccomandazione dalle autorità competenti; essa sarebbe l’unica in grado di farlo. Potrebbe interloquire con le altre organizzazioni dello stesso tipo, concepite per parte loro come gruppi di pressione dedicati alla difesa di un singolo gruppo, ma questo non sarebbe un obbligo legale. La Commissione avrebbe anche il mandato di definire i termini in modo operativo, al fine di comprendere concretamente le situazioni sul campo che le consentirebbero di agire con intelligenza ed efficienza.

Questa azione può solo essere preventiva poiché la repressione compete ad altre istanze, ma è essenziale per arginare le derive che sarebbe in grado evidenziare. Le diatribe più o meno manipolate sul campo, da gruppi organizzati di fatto come delle sette che soccombono troppo facilmente al “politicamente corretto” del momento, non sono molto utili; sono spesso totalmente controproducenti. La Commissione prenderà quindi in considerazione l’importanza comparativa degli atti razzisti da essa stessa identificati e analizzati, non per scusare alcuni ma per condannarli tutti con uguale giustizia. Qualunque cosa si possa pensare dell’importanza storica, filosofica o nietzschiana dell’Olocausto, questi opinioni non permettono a nessuno credere che gli insulti anti-islamici sono meno gravi in Europa degli insulti « antisemiti », intesi come specifici insulti agli Ebrei. Non capirlo equivale a mescolare irrimediabilmente due domini etico-politici che non sono allo stesso livello.

L’anti-arabismo e l’anti-islamismo individuale degli Ebrei (israeliani o meno) che vivono in Europa devono essere considerati secondo gli stessi criteri delle altre forme di razzismo. Per contro, questo razzismo anti-arabo e anti-islamico proveniente da organizzazioni ebraiche, qualsiasi esse siano, sono ontologicamente inammissibile: devono essere condannato con il massimo rigore e con la massima severità. Infatti, per definizione, il ruolo legittimo di tutte le Commissioni di questo tipo non può operare una gerarchia di tipi di razzismo, ma combatterli tutti allo stesso modo, per il semplice motivo che i cittadini, e più in generale tutti i cittadini europei, sono per natura uguali nella loro umanità. Ciò implica una grande vigilanza verso i focolai spesso politici e religiosi da cui queste perversioni etiche si propagano. Questo modo di pensare, l’unico a parere mio democratico e anti-esclusivista, dovrebbe anche essere generalizzato a tutti gli Stati membri dell’UE. Ciò avrebbe il vantaggio di legittimare sia il lavoro che le raccomandazioni di tale Commissione, plurale, la quale ci avrebbe risparmiato il tipo di indegnità, che, in occasione del lancio della Seconda Intifada, ha visto un ebreo italiano prendersi la faccia a pugni per poi rivendicare pubblicamente di essere stato attaccato da gruppi « antisemiti », una versione subito accettata con indignazione ma anche con molta arroganza da parte di molte organizzazioni ebraiche in Italia come altrove.

Naturalmente, questo tipo di evento, come tutti sappiamo, è molto raro, di natura eccezionale, a volte anche ben motivato, sebbene sempre totalmente fuorviante. Tuttavia, ci tratta qui di derive da evitare istituzionalmente come la peste, per semplici motivi di legittimità e di imparzialità, in quanto la legittimità e l’imparzialità sono essenziali per il sostegno del consenso sui principi politici e morali fondamentali che devono sempre rimanere senza macchia.

Il Preambolo dovrebbe inoltre obbligare l’UE e tutti i suoi paesi membri a integrare tutti i cittadini, secondo le forme che ciascuno riterrà opportuno purché nessuna « comunità » etnica, religiosa o economica coinvolta non sia sistematicamente sovra-rappresentata negli organi decisionali della società politica e della società civile. Questa sovra-rappresentazione, quando confermata nel tempo, è il segno non democratico per eccellenza di un nietzschianismo sotto-giacente, da considerare come une ingiuria molto seria sia per l’evoluzione che per il senso dell’umanesimo europeo e mondiale. Questo umanesimo non significherebbe nulla se non fosse basato, come minimo, sopra una reale uguaglianza di opportunità (concretamente verificata dalla Legge dei Grandi Numeri).

Solo una concreta uguaglianza di opportunità può garantire la mobilità sociale sulla base di un vero merito, certificato con criteri oggettivi piuttosto che con lettere di raccomandazione o lettere pastorali o con qualsiasi altra protesi di questa farina. Alcuni sono intenzionati a fare false polemiche sulla discriminazione positiva e sul « comunitarismo »: è ovvio che lo fanno per preservare meglio i privilegi spesso immeritati della loro comunità di origine che, dopo una lunga ma parziale esclusione, ora gode silenziosamente dalla tendenza sistemica a perpetuare i privilegi acquisiti in tutte le società di classe, specialmente nelle società capitalista o teocratiche-capitalista. Bene! Ma almeno tutti debbono godere di una identica possibilità reale a monte del processo di selezione, soprattutto perché la preoccupazione principale è quella di evitare le derive razziste e classiste. Queste per mezzo dell’empatia di casta, portano inevitabilmente alla sovra-rappresentanza di certi gruppi non appena lo Stato repubblicano si rifiuta di giocare il suo ruolo di arbitro imparziale.

Il testo costituzionale europeo dovrebbe anche sottolineare il suo impegno per un’educazione secolare, universale e gratuita. Ciò implicherebbe un’applicazione rigorosa del principio di laicità: l’educazione religiosa dovrebbe essere rigorosamente bandita da tutte le istituzioni educative. Queste non sono destinate ad insegnare catechismi o articoli di fede, ma piuttosto dei principi di riflessione razionali, critici e scientifici. Per contro, per evitare di creare delle dialettiche troncate nella mente degli alunni e gli studenti, preludio alla schiavitù volontaria a qualsiasi forma di superstizione, la storia comparata delle religioni e delle loro interazioni con lo sviluppo dello spirito dell’Illuminismo così come l’etnologia, l’antropologia e l’archeologia moderne dovrebbero essere integrati nei curricula tradizionali o fare parte di corsi specifici secondo le possibilità del calendario scolastico.

I corsi attuali di religione sarebbero tollerati solo come corsi opzionali, con il consenso dei genitori, il giovedì pomeriggio, il che implicherebbe il recupero del tempo utilizzato il sabato mattina in tutti i paesi in cui questa mattina, per quanto necessario ai ritmi di apprendimento degli alunni, fu rimossa per motivi oscurantisti che non si osa chiarire in pubblico (per paura di essere accusati di antisemitismo da esclusivisti noti e dai loro portavoce più o meno nascosti?)

Lo stesso rifiuto implicito della regressione implicata dalle derive del multi-confessionalismo scolastico dovrebbe implicare la condanna costituzionale di tutti i finanziamenti pubblici alle scuole e alle università private che non accetterebbero di rispettare pienamente il curriculum prevalente nel settore dell’istruzione pubblica, o che non sottoporrebbe i criteri di assunzione del personale non religioso alle regole in vigore nel settore pubblico. L’unica eccezione possibile concernerebbe le lezioni di religione insegnate in queste istituzioni private, a condizione che l’insegnamento della religione comparata, la filosofia dell’Illuminismo e delle scienze affini, sia pienamente rispettato.

Come possiamo vedere, l’esistenza di questo tipo di istituzione privata dovrebbe essere eccezionale perché non è giustificata diversamente. In particolare, si deve denunciare la situazione in Italia, un paese in cui le scuole dell’infanzia sono in gran parte abbandonate al settore religioso, o quello in vigore in Francia, dove, sotto la copertura di laicità pacata, oltre il 30% degli studenti cristiani, protestanti e ebrei (e domani musulmani e di altre confessioni) frequentano le scuole religiose private sotto contratto, inoltre, esentate dall’applicazione della nuova legge sui « segni » religiosi! (Come si vede, il ridicolo non sempre uccide benché avvelena straordinariamente le cose, senza un motivo apparente.)

Il sistema scolastico multi-confessionale, a causa dei suoi metodi di valutazione e di selezione soggettiva del personale docente e dei laureati rafforza l’idea di « elezione ». Questa idea è una negazione intollerabile dell’ideale dell’uguaglianza repubblicana, specialmente quando viene perpetuata con fondi pubblici. Questo anti-egualitarismo militante ha poi delle ripercussioni su tutte le dinamiche che sono alla base della mobilità sociale all’interno della Repubblica, specialmente quando questa mobilità sfugge alla perequazione statistica risultante dai concorsi al livello nazionale per l’accesso alle Grandes Ecoles, pure se ancora segante da un classismo sistemico.

Questo spirito della disuguaglianza spiega l’inspiegabile: ad esempio, che in una società capitalista avanzata, le differenze di reddito, se non delle ricchezza e del patrimonio, possono essere maggiori ad un rapporto massimo da 1 a 3 o da 1 a 5; oppure che gli speculatori, spesso semplici criminali in colle bianco, non approfittano sfacciatamente del sistema. Anche se con le loro attività, non contribuiscono certo ad incrementare la ricchezza reale della comunità, non esitano ad adornare il titolo di CEO o di CEO (« chief executive officer » = « duce » o « capitani coraggiosi » di impresa, megalomania inclusa?) ed a auto-conferirsi « salari » e « prestiti garantiti » dalle loro aziende di diverse decine di milioni di euro, mentre gli azionisti ordinari contano solo per pagare i danni disastrosi causati da questa cultura della speculazione (senza nemmeno azzerare i contatori ogni cinquant’anni, dato che non c’è morale né storia che non sia contemporanea per parafrasare B. Croce!).

Una volta ben consolidati, questi stessi speculatori professionisti, ben collegati ad ogni tipo di Autority, sono naturalmente portati a concepire l’« integrazione » come una semplice questione di gestione di una forza lavoro meno qualificata di loro stessi, una credenza tutta idiosincratica, problematica della creazione del valore di scambio a parte. Sono sempre pronti a denunciare il « comunitarismo » come un pericolo supremo, senza mai interrogarsi sulla filiazione matrilineare e patriarcale che assieme ai loro simili difenderebbero con le unghie e con i denti, se mai si sentissero collettivamente puntati col dito. In tal caso, senza un attimo di esitazione, userebbero dell’anatema usuale di « antisemitismo » contro qualsiasi critica repubblicana alle pratiche private che, fortunatamente per noi, in questi giorni bui, il Corano non ha cercato di codificare in senso strettamente esclusivista! Non li piace nemmeno il principio di « mixité sociale » – v. Tous ensemble – nei quartieri e nelle scuole …

Qualsiasi tentativo aperto o mascherato di minare i principi laici e di seminare la discordia e il caos, ad esempio perseguendo una logica reductio ad absurdum che in realtà tradisce lo spirito della Costituzione e la pratica di integrazione repubblicana deve essere condannato e fronteggiato con cura. Questi imbrogli rimandano a delle tecniche di controllo sociale ben consolidate dalle classe dominanti ansiose di frammentare l’opposizione e persino di causare pseudo-opposizione artificialmente dannose mirate ai cosiddetti « militanti nichilisti » pronti ad aderire di buona fede solo per finire screditati e neutralizzati in anticipo dalle mass media dominanti. Queste sono tecniche che Derrida ha cercato di concettualizzare / oscurare col suo concetto di « decostruzione », sapendo benissimo che erano state praticate molto prima di lui.

Prove a sostegno, pensiamo qui in particolare l’iniziativa del patetico e intrigante Alain Bauer, criminalista di secondo ordine ed ex Gran Maestro Massonico del Grande Oriente di Francia, ed ai suoi simili, sulla questione del velo, dato fraudolentemente per una questione di difesa della laicità nelle scuole pubbliche, mentre il vero obbiettivo era la questione del legittimo posto dei semiti musulmani in Francia, il cui peso demografico supera di gran lunga quello dei semiti ebrei, nonostante la scandalosa sovra-rappresentazione di questi ultimi e la sotto-rappresentazione anti-repubblicana dei primi a tutti i livelli della società, e anche all’interno del PCF. Aggiungiamo che, con il sostegno di Stasi, il quale disse onestamente al Le Monde di condividere la posizione di Wojtyla sulla « laicità », hanno semplicemente cercato di sancire nella legge repubblicana una definizione fraudolenta e incostituzionale del secolarismo: non sarebbe niente altro che una specie di multi-confessionalità che ignora consapevolmente tutto il pensiero non religioso, che avrebbe semplicemente messo in discussione la libertà di opinione e soprattutto la sovranità del popolo. Improvvisamente si sentirono essere abbastanza forti per neutralizzare il mio lavoro precedente, ad esempio, nell’articolo « Le lit du néofascisme » e la sua « Annexe » (senza mai osare citarli, secondo l’usuale disonestà intellettuale nietzschiana che li caratterizza così come molti altri). Questo è un testo che loro e i loro controllori avevano ricevuto con l’opinione che la « “laïcité è un’ideologia come le altre » per la semplice ragione che costituisce l’ostacolo principale alla loro volontà di regressione filosemita nietzschiana! Hanno anche derivato da esso la consapevolezza dolorosa che i loro imbrogli finivano intellettualmente qui in modo irrimediabilmente.

Questa realizzazione li spinse ad un concetto tanto fallace quanto codardo, ruffiano e offensivo per un’autentica memoria storica, cioè l’accusa di « antisemitismo di sinistra ». Lo hanno fatto prendendo l’istintiva cura di non citare alcuna fonte, per affrontare l’ombra degli angeli, evitando accuratamente gli angeli stessi. Dimenticano che nessuna legge può, senza conseguenze serie, tentare di abolire un patrimonio repubblicano ed egualitario acquisito con lunghe ed aspre battaglie. L’illusione della volontà di potere diretto contro il popolo è una questione di “pitre”. L’illusione di porre un pesante fardello occultatore sui concetti e sulle teorie degli avversari non è « stalinismo », ma piuttosto nietzschianismo, in questo caso eminentemente filosemite, lo stesso che porta alla pubblicazione delle « opere » di Ezra Pound, certamente un « grande » scrittore in anticipo sul suo tempo, o quella di varie Oriana Fallaci il cui nome parla da sé, ovviamente, senza menzione dei noti « pagliacci » o pitre generosamente pubblicizzati e commercializzati come tanti altri prodotti di uso quotidiano.

Ora, chi ignora la sorte che fecero e faranno i veri democratici a questa pseudo-teoria politica nietzschiana e alle sue varianti? Si noti che tutto questo milita in favore dell’abolizione delle massonerie, o per lo meno a favore del loro rigoroso rispetto delle regole di trasparenza democratiche che altrimenti dovrebbero impedire a queste sette non elette, spesso intente a coltivare il segreto e le superstizioni più vergognose nella speranza di dominare gli eventi e le menti, di influenzare i processi decisionali, senza cura dei cittadini e delle loro organizzazioni legittime.

È necessario dare l’allarme richiamando gli effetti devastanti della disoccupazione di massa e dell’esclusivismo? I sostenitori della decostruzione multi-confessionale della laicità sono i sostenitori più accaniti del neoliberismo e della globalizzazione sfrenata, vale a dire della reintroduzione della schiavitù e della domestica moderna attraverso una eccessiva precarietà della forza lavoro. Naturalmente, pensano anche che, arrivata ad un certo grado di impoverimento e di vulnerabilità economica e psicologica, questa nuova forza di lavoro maggioritaria perderà ogni possibilità di resistenza corporativa, sindacale o politica, finendo quindi consegnata, mani e piedi legati ad un sistema di distribuzione quotidiana di pane e circo, in modo che l’oppio dispensato dal loro tempio farà il resto: a questo punto, si suppone che i servi ammirativi ameranno i loro padroni ignorando puntualmente le « Istruzioni ai domestici » di J. Swift, per non parlare di Carlo Marx, dei bolscevichi e dei maoisti classici! A questo ritmo, la speranza di giorni migliori va incontro ad una forte disillusione. Ognuno di noi è quindi obbligato a prendere misure preventive per impedirci di tornare a ripetere le solite assurdità, sempre appoggiate con l’elogio dei grandi « maîtres à penser » presi in prestito, con Nietzsche e Heidegger come bonus. Alcune « Battaglie delle Idee » devono essere davvero le ultime, o allora non meritano di essere lanciate.

Oggi il principio di laicità è oggetto di ogni tipo di interferenza in Europa. Per porre fine a queste intollerabili interferenze anti-repubblicane nell’anima, è importante per l’UE dichiari alcune semplici verità:

1 ) Gli organi ufficiali dell’UE e dei suoi Stati membri non riconosceranno ufficialmente l’esistenza di gruppi di pressione che non praticano la democrazia più trasparente al loro interno, sopratutto se si considerano come portavoce dei notabili delle rispettive comunità , se non direttamente dal loro Stato di origine, il che è un colmo poiché in quest’ultimo caso le rappresentazioni diplomatiche ordinarie bastano ampiamente. Quindi il Congresso mondiale ebraico e le sue filiali nazionali non dovrebbero avere nessuna udienza con gli organismi democratici europei, specialmente quando danno la parola a gente come Bronfman che parlano a nome di un criminale di guerra come Sharon. Questo vale anche per B’nai B’rith e per il Centro Wiesenthal, entrambi dovrebbero ora dedicare tutti i loro sforzi per chiarire la complicità nietzschiana di alcuni dei leader della loro comunità durante l’ascesa del fascismo e del nazismo, i cui successori sostengono oggi spudoratamente le guerre imperiali dei neo-templari armati.

Questo sarebbe il loro dovere se davvero sostengono di essere utili alla propria comunità, o se pretendono servire la causa della memoria della Shoah, la quale, separata dalla storia generale della Resistenza contro il nazifascismo e separata dalla storia della Deportazione, finisce troppo facilmente in patetico esclusivismo, pericoloso per tutti. Chi si ricorda perché gli « zingari » ovvero i Rom, colpevoli di essere nati zingari, e senza dubbio di non avere mai cercato di imporre il loro esclusivismo a nessuno, sono stati eliminati dai nazisti per il solo crimine di essere “nati zingari”, si tratta delle stesse persone che gli epigoni di facile accuse di « antisemitismo » accompagnano senza scrupoli alla frontiera del « loro » paese? Ora questi Rom o « peuples du voyage » senza distinzione di tendenze, con la loro difesa di una cultura del nomadismo, non mostrano forse l’immagine di un futuro internazionalismo in un mondo ancora oggetto di mediazioni statali o sovra-statali che non sa valutare al suo giusto valore ? Chi ricorda la loro eliminazione anche « industriale » e « sistematica » a causa dell’appartenenza ad una « razza inferiore »? Allo stesso modo, chi si ricorda dell’eliminazione per ragioni strettamente identiche di malati mentali e degli omosessuali? Basterebbe il numero per stabilire il concetto quando questo è redditizio?

Chi si ricorda della schiavitù politica e dello sterminio, così come degli esperimenti mengeliani condotti contro i popoli coreani e cinesi caratterizzati, allo stesso tempo, i popoli inferiori nonostante le smentite accecanti della storia? Chi si ricorda del destino dei popoli caratterizzati dai nazisti e dai loro alleati come « popoli inferiori » nell’Europa centrale? E come non parlare della lente e paziente « tratta dei schiavi » africani, anche se stessi ridotti allo statuto di esseri sub-umani idonei ad essere sistematicamente selezionati, esportati e venduti secondo dei criteri mercanti molto « oggettivi » dal punto di vista di una forza di lavoro ridotta alla schiavitù e abilmente trasportata su navi specializzate da “schiavisti” che non ignoravano le loro proprie Liste Schindler, queste belle ragioni per non abolire la schiavitù? Fu una disumanizzazione e un negozio rapidamente giustificati con motivi biblici da parte di chi, in quel momento, e fino a poco nel Sud Africa dell’Apartheid assistito dal Mossad e dallo Stato israeliano pre-Sharon per assicurarsi lo sviluppo illecito di armi nucleari, si reclamavano di radici giudeo-cristiane attribuite (!) all”Europa e del presunto « uomo bianco » (pace, compagno Cheikh Anta Diop!) discendente della « razza (eletta) di Abele ».

«La strada per Gerusalemme è stracolma di crimini”, parafrasando un vecchio adagio, anche quando passa attraverso lo spostamento precipitato in Spagna o in Portogallo, dei superstiti Templari scappati alla vendetta del potere politico legittimo non tanto inclino ad ammettere la presenza di un qualsiasi Stato dentro lo stato! Non ricordare tutto ciò equivale semplicemente ad una volontà tanto philosemitica nietzschiana quanto venale di falsificare e riscrivere la Storia; alla fine equivale a mettere ciecamente in pericolo il popolo ebraico stesso. « Ancora una volta » …

Oggi, l’esistenza legale dello Stato di Israele implica una urgente democratizzazione delle vecchie istanze della Diaspora ebraica: non capirlo ammonta, come è in gran parte il caso oggi, a mettere queste istituzioni sotto la guida di governi israeliani che hanno già accesso al Mossad ed a Echelon come a tante altre strutture analoghe, senza dimenticare i vari servizi polizieschi legati a Interpol. Una situazione che causa molti abusi, molto spesso criminali. Non dimentichiamo che le denunce incantatorie delle acque agitate del Protocollo di Sion non saranno sufficienti. Parlare di « complotto ebraico », i più « intelligenti » dicono coordinamento dei circoli dirigenti delle organizzazioni ebraiche dalle ambasciate di Israele o direttamente attraverso il Mossad ed altri servizi di sicurezza, diventerà un luogo comune in tali circostanze, soprattutto quando i leader internazionali di questi organismi si rifiuteranno cautamente di prendere apertamente e direttamente la loro distanza da tutte le politiche razziste, colonialisti ed illegali praticate o sostenute da Israele. Il significato profondo della Resistenza, e quindi della Deportazione, è che nella democrazia non può esserci alcuno privilegio legale: la legge è ugualmente valida per tutti.

Tutti sanno che, per i sionisti di destra da qualsiasi provenienza, ma in particolare gli ebrei, l’accusa indiscriminata di « antisemitismo » è una sorta di “lettre de cachet” moderna fatta per intimidire, per ridurre al silenzio e per escludere tutti i critici del sionismo di destra e dell’impero sionista USA. L’UE e i suoi paesi membri dovranno quindi prendersi cura di applicare le regole per combattere il razzismo con la massima vigilanza e con una imparzialità priva di ogni sospetto. In particolare, tutti i professionisti in particolare insegnanti, avvocati o medici impegnati a diffondere i concetti di « intervento umanitario selettivo » e imperiale, a diffondere una multi-confessionalità opposta alla laicità di Stato, quindi opposta alla sovranità del popolo, oppure a propagare il concetto di « separazione » e il cosiddetto « muro di sicurezza », dovranno essere sottoposti esattamente alle stesse procedure disciplinari, o addirittura all’esclusione, come coloro che propagano l’antisemitismo o il razzismo in tutte le loro forme.

Questi concetti occultano chiaramente una brutale politica coloniale, teocratica, esclusivista e razzista. Lo stesso trattamento dovrebbe riguardare coloro che si impegnano nella riabilitazione del nietzschianismo – in Italia contraria all’Articolo XII delle Disposizioni transitorie e finali della Costituzione – peggio ancora se in vena filosemitica del diritto internazionale. Non ci sono altre soluzioni accettabili democraticamente e umanamente. Si deve pure ricordare a tutti cosa significa « libertà accademica »: in nessun caso autorizza a pretendersi « nichilista sveglio » nell’esercizio delle proprie funzioni (per il resto la libertà di opinione e la libertà di espressione rimangono sacre: richiederebbero una distribuzione egualitaria delle sue effettive condizioni di esercizio).

La libertà accademica è soprattutto una questione di protezione professionale giustificata dalle necessità oggettive legate al perseguimento di un’indagine critica e libera, senza mai omettere, almeno consapevolmente, di esporre i propri presupposti, i propri non-detti, le proprie ipotesi e, soprattutto, senza mai omettere di presentare le prove scientifiche di ciò che si avanza. Questi criteri deontologici sono strettamente necessari affinché la critica disinteressata degli altri ricercatori, cioè dei pari, possa avvenire nel massimo rispetto, nel massimo rigore e nella massima serenità, ma anche senza nessuna concessione concettuale. Solo lo scrupoloso rispetto di queste regole metodologiche ed etiche spiega e giustifica la straordinaria libertà che una società libera ed egualitaria deve garantire ai suoi scienziati per assicurare la sua propria natura, indipendentemente dai governi al potere. I preti non sono, per definizione, dei scienziati o, in quanto sacerdoti, degli accademici.

Oggi troppi professionisti, apertamente sionisti, si sono messi al servizio di un’ideologia, senza basi oggettive o legali. E un’ideologia che non ha nulla a che fare con la professione che occupano (in realtà essi usurpano il loro posto perché conferisce una certa “autorità” e una certa legittimità morale). Questo diventa così intollerabile da diventare un vero e proprio insulto alla civiltà e alla democrazia particolarmente quando queste persone occupano (spesso in eccesso) posizioni universitarie o di insegnamento all’interno delle Grandes Ecoles, delle quali tradiscono, consapevolmente, il mandato repubblicano, l’eredità umanistica e lo spirito scientifico. Viceversa, la denuncia ben fondata di tutte le forme di razzismo, e in particolare del sionismo di destra, è un dovere dei cittadini tanto quanto un dovere morale e politico. « Mai più » si dice: e dunque mai più esclusivismo anti-democratico e crociato.

2 ) L’UE proclamerà immediatamente il suo riconoscimento ufficiale della sovranità dello Stato palestinese in tutti i territori coperti dalle Risoluzioni dell’ONU 242 e 338. Ricorderà con forza che dopo la firma dell’ « Accordo di Ginevra », che merita di essere accolto con calore e rispetto, solo la duplicità e gli ulteriori motivi dell’attuale governo israeliano sono gli ultimi ostacoli alla pace e, di conseguenza, alla sicurezza dell’intera regione (Si noti che invitare un « pagliaccio » o « pitre » come Bernard-Henri Lévy a Ginevra in occasione del lancio dell’Accordo di Ginevra costituisce una cattiva alleanza di classe, una cattiva strategia di comunicazione e, a dir poco, un insulto a chi aveva lanciato l’idea originale, assumendo notevoli rischi materiali e professionali, forse anche quello di essere definito « antisemita ». Questo invito non può che essere di cattivo auspicio, rafforza l’idea « sveglia » secondo la quale questo accordo costituirebbe solo un incoraggiamento ad una “road map”, eviscerata da qualsiasi significato concreto perché precedentemente presentata da uno Sharon sostenuto da cristiani sionisti e da ebrei americani e da quelli del “quartetto”. Come sanno tutti, questa funesta « road map » ha assunto la forma di « 14 riserve » inammissibili e in realtà interamente illegali. Quello che si può dire è che questo « Accordo di Ginevra » è una degna conclusione dei negoziati avviati a Camp David II e poi continuati a Taba, negoziati che sono stati intenzionalmente sabotati da Barak con la sua insistenza in extremis sulla questione del Tempio (Clinton ha fatto lo stesso e si trovò confrontato giustamente con la domanda del Presidente Arafat che li chiese quali prove aveva dell’esistenza archeologica di questo presunto tempio?) In fondo, Barak era troppo felice di potere pretendere temere l’ascesa e le manipolazioni assassine del criminale di guerra Sharon. L’Accordo di Ginevra è una prova inconfutabile che il sionismo di destra è l’unico vero ostacolo alla pace nella regione e quindi la più grave minaccia alla pace nel mondo. Un fatto ovvio che molti leader dei Congressi ebraici, troppo propensi a sostenere le guerre preventive dei sionisti di destra americani, dovrebbero meditare d’urgenza, con o senza l’aiuto dei rabbini.

(Nota aggiuntiva: L’assassinio del Presidente Arafat, l’unico che poteva giustificare la mia proposta di Camp David II diventato poi l’Accordo di Ginevra, mi ha convinto di ritirare questa proposta: non esiste più niente oggi capace di sostenerla con una minima legittimità. Perciò, la Legge del Taglione sarà probabilmente contata 7 volte dalla giustizia universale agli assassini, perché non fu il loro unico crimine perverso e umanamente degenerato, né prima né dopo.)

Questo tristemente sgradevole BH Levy è anche famoso per le missioni che si conferisce da solo e che sono tutte compatibili con gli ideali difesi con i bombardamenti illegali della NATO, specialmente quando una grande parte delle élite e l’opinione pubblica europea sono contrarie. Questo è stato il caso in Kosovo, dove si è trovato naturalmente (non poteva ignorare la sua esperienza afgana anticomunista) dalla parte di Al-Qaeda e dei membri della CIA che sostengono Izetbegovic. Ha anche ricevuto una medaglia per il suo disturbo da quest’ultimo, con il suo complice Kouchner che ha sulla coscienza la deportazione silenziosa di centinaia di serbi del Kosovo, uno che non ha esitato a mostrarsi con il terrorista Thaci, allora che aveva l’incarico della provincia per il conto dell’ONU. Ultimamente, questo patetico personaggio affaccendato fino a poco tempo fa e volontariamente con le sue missioni tra gli attuali « blowbacks » afghani addestrati dai servizi segreti pakistani e dalla CIA, si permette di proferire minacce contro il Pakistano, perché potenza nucleare musulmana e perciò ora accusata dai suoi maestri di essere un paradiso del « terrorismo »: lui vede nei suoi sconvolti e sovra-determinati disordini la sua missione personale in quanto « star meditica » per i grandi schermi, secondo una pratica di propaganda concettualizzata, ahimè, da qualche tempo. Per alcune cause, alcuni individui non sono frequentabili: sarebbe stato meglio invitare M. Bové, per avere in passato avuto il coraggio disinteressato di dire una parola a favore dei contadini palestinesi e dei loro alberi di ulivo sradicati dall’occupante sionista! Chi può permettersi nel contesto contemporaneo, dove alcuni vogliono confondere volutamente l’antisemitismo e l’antisionismo, di ignorare il fatto che, partendo dai pregiudizi ideologici, etnici e culturali di un B.H. Lévy e altri come lui, non sarebbe possibile concettualizzare gli elementi di base del diritto internazionale, dell’etica o della Storia non troncata, mentre questi sono intrinsecamente necessari per concepire le basi essenziali per un accordo di pace nel Medio-Oriente?


3) L’UE decreterà immediatamente la sospensione di tutti gli aiuti finanziari, economici, commerciali e militari allo Stato di Israele. (Nota aggiuntiva: dal mese di luglio 2018,lo Stato di Israele ha dichiarato l’Apartheid legale. Legalmente la UE non avrebbe nessuna scelta.) Tale sospensione sarà revocata lo stesso giorno in cui lo Stato di Israele riconoscerà la sovranità e l’indipendenza, piena e intera, dello Stato palestinese su tutti i territori occupati coperti dalle Risoluzioni 242 e 338. L’inganno di uno Stato bi-nazionale deve essere licenziato con indignazione e con sdegno, a meno che la polizia, i servizi segreti e l’esercito di questo splendido Stato bi-nazionale non siano strettamente palestinesi per i prossimi 50 anni per poi rispettare una rigorosa parità.

E ovvio che non vi è nulla di straordinario in queste tre posizioni fondamentali, poiché derivano direttamente dagli obblighi dell’UE e dei suoi Stati membri come parti firmatarie di organizzazioni e convenzioni internazionali esistenti.

Ripristinare i fatti contro il nuovo oscurantismo sionista di destra.

Tutti sanno che i sionisti vedono in Marx un convinto anti-semita, probabilmente più pericoloso di altri perché come meno probabilità di fare concessioni sul piano dell’Etica o sul piano intellettuale. Perché allora voler pretendere parlare di « radici » di « origini » « ebraiche » o « giudeo-cristiane » (parola-valigia in effetti usata per dire « ebree » in un’altra forma, ma indirettamente)? Si pensa quello che si vuole ma la storia dei sacerdoti, preti e altre « elite » religiose e la storia dei popoli non sono riconciliabili, nonostante l’impressione opposta che le classi dirigenti, ancora fermamente propensi a contare sulla virtù dei balocchi e degli amuleti, cercano continuamente di propagare usurpando falsamente la cultura del popolo. La prima tende ad accreditare una logica di dominio e di sottomissione, usurpando così, a beneficio delle solite caste, doveri che spettano alle singole coscienze umane e non possono quindi essere attribuiti a nessun altro. La seconda tende piuttosto a ripristinare le funzioni della coscienza attraverso un sistema basato sulla libertà e l’uguaglianza di tutti senza eccezione (e di conseguenza basato sulla laicità.)

Oggi, gli israeliani e più in generale il popolo « ebreo » – qualunque sia la definizione che si voglia dare a questo termine – soffre di un « ritorno » a strutture mentali e culturali propriamente arcaiche, spesso prive di qualsiasi connessione con fatti dimostrati scientificamente o semplicemente compatibili con il diritto internazionale comune. Queste concezioni sono comparabili solo a quelle imposte in Europa dalle fazioni più reazionarie della Controriforma. Questo può essere spiegato da molti fattori, tra i quali la manipolazione e l’auto-manipolazione dell’Olocausto, nonché la volontà blasfema di ricostruire il Tempio.

Se l’invenzione della stampa e la pubblicazione della Bibbia in lingua volgare influenzarono la storia dell’Europa secondo modalità paradossali (Lutero e Müntzer ecc.), il « ritorno » dell’ebraico come lingua ufficiale di Israele non è senza conseguenze: alleato al misticismo specificamente sionista, questo ritorno ad una lingua morta sembra rinviare molti Ebrei israeliani e della Diaspora ad epoche mentalmente arcaiche che precedono la rivoluzione dei Lumi ed il contributo degli Ebrei della Diaspora a questo movimento generale di emancipazione umana. Ci fu un tempo in cui la conoscenza delle lingue « morte » vivificava la mente, consentendo il suo « decentramento » concettuale (Piaget), un processo chiaramente indicato dalla bella lettera di Gargantua a Pantagruel, la quale è appunto una delle più belle pagine del Secondo Rinascimento. Oggi, il ritorno della lingua ebraica, dato l’occultazione del secolarismo, diventa un veicolo del oscurantismo e del fanatismo suscettibili di infiammarsi con il minimo rotolo manoscritto scoperto da capre : i connazionali di Aba Eban finiranno per « parlare » come Kissinger, destino che per essere prevedibile, non è affatto allegro, ma suscettibile di ricadere sotto la giurisdizione della Corte Penale Internazionale!

La cosa peggiore, nel senso preciso che non può essere affatto tollerabile perché flirta troppo con la catastrofe, sta nel fatto che questa controriforma di ispirazione sionista di destra attacca, per mezzo delle armi, il secolarismo e la libertà dei popoli nella sua vana speranza di stabilire un nuovo impero teocratico nietzschiano. Opponendosi al desiderio di emancipazione generale, egli indica fatalmente il proprio destino. Se noi non abbiamo tollerato l’Apartheid dei « bianchi » nel Sud Africa, chi può credere che saremmo disposti a tollerare l’Apartheid degli « Ebrei » e degli Israeliani – soprattutto dopo i massacri genocidi a ripetizione del tipo di quello commesso a Jenin oppure dei gravi crimini di guerra perpetrati ogni giorno nei Territori Occupati?

Ci sono due modi di scrivere su queste cose: il primo, in modo positivo è quello di enfatizzare la Storia e il contributo dei popoli, la loro tenacia di fronte allo sfruttamento e alla schiavitù. Il popolo ebraico della diaspora, a differenza delle sue élite religiose, può quindi apparire come un simbolo di persecuzione, disumanizzazione e sfruttamento, allo stesso modo degli schiavi, necessari nel loro tempo, al capitale mercantile e al commercio triangolare. Il secondo, necessariamente in modo negativo, è quello di denunciare, senza colpevole concessione, i sogni di dominio delle élite, sempre estranee ai popoli, i loro popoli o gli altri. La confusione mantenuta con cura dalle “elite” ed dai loro lacchè sulla coerenza dei loro interessi di classe con gli interessi “identitari” del loro popolo a volte rende questa denuncia inaccettabile a certi: infatti, il primo e il secondo modo di pensare rimanda alla stessa logica ed allo stesso metodo storico. Questo è il motivo per cui Marx asseriva che la Storia è la storia della lotta di classe; mentre un Jacques Prévert più scherzoso cantava: Louis I, Louis II, Louis III, ecc.,Luois XVIII. Che cos’è questa famiglia strana che non sa nemmeno contare fino a venti? Il tono e l’angolo di attacco sono anche un problema della lotta di classe. Hegel e Sorel nella sua scia parlano entrambi di “diremptions”, il primo naturalmente in modo più sistematico del secondo. James Joyce illustra questo principio letterariamente, constatando, contro tutti i pagliacci molto “illuminati” che « History is a nightmare from which I am trying to awake » (“la storia è un incubo da cui sto cercando di risvegliarmi”).

Spesso le circostanze ci lasciano poca scelta, a meno di non essere pronti a tradire noi stessi, e la propria classe allo stesso tempo. Sogno un momento in cui tali sviluppi diventeranno inconcepibili a causa del grado di consapevolezza umana raggiunto in termini di uguaglianza intrinseca di ogni essere umano, indipendentemente dal genere, dall’etnia o dal destino. Questo sogno avrebbe dovuto essere acquisito in gran parte indipendentemente della pluralità dei sistemi politici e dei modi di produzione, anche grazie alla Resistenza, seguita dalla vittoria contro il fascismo e il nazismo. Invece oggi viene rimesso in discussione da neo-crociati Templari, criminali di guerra raddoppiati in guisa di propagatori di “Ig-nobili bugie” di Stato, del genere di Sharon, Wolfowitz, Perle, Rumsfeld, Bush e compagnia, ai quali si aggiungono in coro diversi pagliacci fanatici razzisti come Yobadiah Yosef e molti rabbini o sostenitori dell’Istituto del Tempio, ebrei o non ebrei.

Il lusso è per domani. Per il momento, deve prevalere un dovere democratico e morale e, per essere franchi, un autentico dovere di memoria che non serve come una scodella o come un feticcio giusto per il ritorno dei rituali superstiziosi di casta. Quello che segue è stato pesato con cautela. Non è inteso come un insegnamento mass mediatico ma come un invito ragionato e documentato alla riflessione critica, cioè all’esame disinteressato della materia da parte di coscienze libere e responsabili. Si vuole anche, almeno in parte, come trasmissione di un retaggio di libertà e uguaglianza. In ogni caso, è un’accusa accoppiata con una sfida senza tregua a tutte le forze oscure, specialmente a coloro che credono essere “svegli” e classisti. Lasciamo che ognuno si assuma le proprie responsabilità, specialmente quelli che oggi credono beatamente potere escludere con completa impunità coloro che potrebbero vergognarli moralmente, intellettualmente e, ovviamente, politicamente.

Le radici umane e Adamo


Resta da dissipare incomprensioni sulla presunta questione delle “radici” e “origini” “giudeo-cristiane” dell’Europa. Questa problematica rimanda ad un obiettivo totalmente inaccettabile del vero oscurantismo. Si tratta semplicemente un crimine intellettuale, coscientemente perpetrato. Secondo la frase lapidaria di Georges Brassens, siamo invitati a vedere “la patria a strabismo” in un’epoca nella quale è stata scoperta con meraviglia l’esistenza di “Mamma Lucia” in Africa! E questo proprio nel momento in cui questi sostenitori delle “radici giudeo-cristiane” militano a favore dell’istituzione di uno “stato ebraico” razzista, teocratico e colonialista in tutti i territori palestinesi! Queste « radici » sono molto simili alla montatura all’ossario di “James, il fratello di chi sa chi” immaginata dai vari dottori Shanks che popolano questa povera terra, che non né può più.

Non è né più né meno che un ridicolo tentativo arcaico di presa simbolica del potere che cerca di appropriarsi del passato e del futuro dell’Europa. Questo è un esclusivismo criminale privato di ogni fondamenta, così che gli Europei debbano prontamente mandare a pascolare i sostenitori ebrei e quelli del Vaticano che propagano questi sciocchezze dottrinali. Gli anglosassoni chiamano questo “power trip”; si sta svolgendo nel momento stesso in cui Israele, fortemente affiancato da sionisti cristiani ed ebrei (anche arabi), specialmente negli Stati Uniti, sta lavorando per espropriare nuovamente la Palestina e per lanciare una seria di “guerre preventive” criminali, il cui unico oggetto è la Creazione messianica di un impero teocratico universale, fondato sulla concezione di una razza e di gruppi eletti, in altre parole, un impero basato sul ritorno della più oscura barbarie.

I piselli di Mendel ma anche il lavoro di Schoelcher, Marx, Lévi-Strauss e tanti altri ci hanno insegnato l’inutilità dei concetti di razza, il bagaglio genetico umano essendo fortunatamente molto misto, se non solo per ragioni di sopravvivenza della specie. Parlare di “radici” in questo senso sarebbe scientificamente falso, accoppiato con un’affermazione sproporzionata che oscurerebbe inutilmente i contributi autentici in altri settori. Si potrà fare finta che nessuno lo intende in quel modo. Ne siamo sicuri? Credete che coloro che ci costringono a questi chiarimenti, di cui avremmo potuto fare ameno, non siano convinti che la genesi biblica sia una parte essenziale di un testo divino rivelato e, di conseguenza, che, al di là di Darwin e delle scienze moderne, conferisce loro una anteriorità genealogica e un diritto divino di proprietà su Eretz Israel? In realtà sulla terra intera?

L’oscurantismo, sempre fedele a se stesso, vive, come sappiamo, con i miti e con il culto della segretezza. Tuttavia, non ci può essere discussione senza un minimo di onestà pubblica e di trasparenza. Senza una discussione imparziale, cosa rimarrebbe del metodo di risoluzione dei conflitti se non una prova di forza che potrebbe essere più biblica che nietzschiana: infatti, gli “ultimi” spinti nei loro trinceramenti reagiranno sapendo di essere destinati a diventare, se non i “primi” nel senso convenzionale, almeno nel senso di “uguali”. Siamo a conoscenza degli studi genetici condotti in Africa da “scienziati”, spesso finanziati con fondi pubblici per tutte le altre ricerche, per rintracciare l’albero genealogico che si supponeva conducesse ai sommi sacerdoti di Israele, pseudo-ricerche finalizzate alla ricostruzione di un tempio di Salomone, di cui attualmente non esistono prove inconfutabili dell’esistenza? Ovviamente questa non è l’eugenetica classica: è una perversione extra-ordinaria, una deriva che l’Europa, per la sua Storia, non può minimamente incoraggiare.

La verità è che non ci sono “radici” semitiche in Europa, specialmente non nel senso della precedenza biologica. Questo tipo di considerazione è semplicemente “folle” dal punto di vista scientifico, linguistico, storico e morale. Su questa base, nessuna indagine scientifica riguardante il background genetico, le migrazioni umane ecc. non potrebbe più essere eseguita utilmente poiché l’essenziale, attinente ad una rivelazione divina, sarebbe conosciuto in anticipo. Inoltre, la Storia ha reso il contributo semitico (ebraico e arabo) statisticamente indifferente nel corso dei secoli, almeno in tutti i secoli scientificamente e storicamente determinati. Oggi possiamo deplorare l’uso fatto da alcuni della figura storica di Charles Martel, o la sconfitta ottomana sotto le mura di Vienna, ma così è. Ciò non implica in alcun modo che ciò debba essere perpetuato, o anche che ciò sia auspicabile dal punto di vista demografico ed economico.

Non si può, contro ogni senso comune o scientifico, dare credito alla favola della creazione di Adamo (le piastre di argilla, dicono la maggior parte del mondo scientifico, promuovano la nascita e la proliferazione di batteri!) piuttosto che a quella, più mondana, di Giove, o, preferibilmente, all’opera di Darwin e alla “zuppa” di aminoacidi di Miller. Per queste ultime esistono prove inconfutabili e convincenti almeno sul piano culturale e storico, perciò saremo costretti concludere che l’Europa non ha « radici » semite. La culla dei popoli semitici si trova geograficamente più ad est, almeno se facciamo affidamento alla mappa di Mercatore e alla conoscenza attuale della rotondità della terra!

Secondo i dati storici inconfutabili, e anche secondo la “genealogia” della Bibbia, si può anche dire che la Palestina era già abitata da popoli semitici molto prima dell'”arrivo” degli Ebrei, mentre Abramo è venuto da una culla mesopotamica. E proprio incredibile che si deve sottolineare queste verità evidenti, semplicemente perché alcune frange sbagliate delle massonerie nietzschiane, sempre affiancate dallo stesso tipo di rabbini, si sono di nuovo messe in strada portate da un tipico « power trip » ! Piuttosto che inventare (inventare surrettiziamente, inoltre) radici, farebbero meglio denunciare il Muro dell’Apartheid, assieme ai vergognosi e barbari tentativi di distruzione di autentiche radici autoctone in Palestina.

Tuttavia, queste nuove radici trapiantate forzatamente e neocolonialmente in Palestina al riparo da questo Muro illegale, denunciato dalla Corte Internazionale di Giustizia assieme alla politica di purezza della razza, appartengono ad una politica sistematicamente attuata da Israele per mezzo della singolare gestione dello stato civile israeliano (e, più in generale, di tutti i documenti di stato civile depositati, senza alcuna consultazione democratica, da molti paesi nelle profondità del Colorado nei Stati Uniti, sotto la custodia dei Mormoni e dell’Establishment …). Pochi sanno che i rabbini con un sistema di punti si ingegnano a distinguere nello stato civile le varie tribù, certe essendo più elette delle altre!!! La vera Animal Farm di origine …

Chi non vede dopo l’Olocausto o, più precisamente, dopo la Storia della Resistenza al nazifascismo e dopo la Deportazione, che questo tipo di politiche sono semplicemente mostruose? Hanno la loro origine, si sarà capito, in questo oscurantismo delle “radici”, vale a dire la pretesa di tutti i “nanetti di dio ” ( « avortons de Dieu » diceva modestamente San Paolo, tristemente e universalisticamente consapevole di non fare parte degli originali 12), e dei loro venerabili “anziani”, ad una esclusivista elezione divina auto-conferita e, in questo caso, ad un “ebraismo” sharonesque che è anche quello dei pericolosi pagliacci o « pitre » dell’Istituto del Tempio che alimentano apertamente questi obiettivi territoriali e politici.

Eppure questa è una concezione che la maggior parte degli “ebrei” in Israele e al di fuori di Israele odierebbero se non fossero diventati “prigionieri volontari” di una concezione della “Shoah” trasformata, secondo le necessità, in una ciotola (chi pensa mai alle “riparazioni” dovute ai milioni di morti che hanno combattuto in prima linea contro il nazifascismo?) o in uno “peccato originale”. Prima del suo assassinio, Rabin si ritrovò nella posizione di un Acheson alle prese con i maccartisti. In quanto buon “padre deluso”, Acheson le denunciava come degli “animali” opposti alla sua politica di Distesa. Nonostante, Rabin ha avuto il tempo ed il coraggio di dire che gli Israeliani contemporanei avevano bisogno di una “rivoluzione psicologica” per camminare sulla via della Pace. Rabin non ignorava l’eredità di anni di propaganda e di indottrinamento su menti incandescenti …

A proposito, cosa si può mai aspettare di un’ideologia che trasforma la morte di sei milioni di persone in fattore di colpa ben consolidata secondo la “scienza” freudiana, consolidata secondo le cappelle degli Stati Uniti e di Israele, mentre occulta totalmente o peggio ancorasi denigra apertamente i 27 milioni di morti sovietici, così come tutti gli altri combattenti della Resistenza, ora dati da questi veri « pitre », come “gli ultimi degli uomini”. Revisionismo e negazionismo, anzi! Gli Europei e i loro organismi ufficiali dovrebbero immediatamente richiedere che tutti i monumenti o musei ora dedicati a questa “Shoah” esclusivamente ebraica siano dedicati alla storia della Resistenza e della Deportazione; dovrebbero esigere che si faccia nel massimo rispetto la giusta parte alle altre vittime del nazismo, specialmente ai zingari, ai malati di mente e omosessuali, i quali non avevano commesso alcun crimine se non quello di nascere.

Similarmente, questi musei dovrebbero rendere omaggio alla Resistenza, in particolare ai resistenti comunisti che dovrebbero essere messi in prima linea dei “giusti”, a meno di non volere trasformare questo concetto in un insulto permanente dell’intera Umanità. In caso contrario, si dovrà tagliare immediatamente tutti i fondi pubblici destinati a questi monumenti e istituzioni perché costituiscono un insulto intollerabile per i morti, una macchina di colpa intollerabile e aggravata da una propaganda esclusivista volgare mirata alla presa di possesso simbolica – « marquage » – del territorio (su questo concetto comportamentista, usato molto appropriatamente qui, vedi l’Humanité ).

Se questi monumenti funzionano solo come “altari” laici destinati ai “Gentili”, perdono tutto il loro senso: la loro funzione non può che essere quella della trasmissione di una Storia vera, che non verrebbe coscientemente troncata al fine di produrre una patologica coscienza ebraica perennemente pronta a presentare conti alle coscienze dei popoli Gentili destinati a sentirsi colpevoli per l’eternità. Queste coscienza saranno inevitabilmente portate ad esigere responsabilità. Questa storia non tinta di amnesia enfatizzerebbe l’importanza delle classi; cercherebbe di dimostrare il ruolo di alcuni “leader” ebrei nella formazione e la legittimazione del nietzschianismo di origine che erano gli unici a credere beatamente “filosemiti”. E sarebbe anche necessario evidenziare il ruolo dei leader religiosi dei ghetti durante questo ascesa del fascismo, i quali spesso vedevano nel pericolo imminente l’opportunità di ristabilire il controllo sulla loro comunità che stava fuggendo al loro dominio per l’importanza crescente delle tendenze laiche, socialiste e marxiste al suo interno.

Nessun dovere di memoria può essere selettivo a causa di scelte religiose e politiche, senza nel medesimo tempo confutare pericolosamente sé stesso; l’amnesia selettiva produce gravi conseguenze culturali e politiche, anche tra gli ebrei stessi come dimostrato dal razzismo e dal colonialismo degli arroganti Sionisti di destra in Israele come in ogni altre parte del mondo. Tutte queste manifestazioni esclusiviste sono indecenti; sono pericolose; non devono più essere tollerate. I conti devono ora essere presentati senza esitazione e, se necessario, giocando democraticamente la carta della “forza dei numeri” (come sappiamo, si tratta di un concetto caro ai filo-semiti nietzschiani) contro quella del “argent juif ” (al quale, alcuni ciechi, presumibilmente “socialista”, osano oggi cantare lode pubbliche.)

In primo luogo, questi conti vanno presentati alle elite occidentali, musulmane e onusiane che supportano, in modo efficace e silenzioso questa deriva nietzschiana attraverso la quale le caste dominanti, ebrei e non, calpestano il diritto internazionale, pensando già di essere fuori dalla portata della legge, allo stesso modo in cui sostengono di essere situato aldilà del Bene e del Male. Queste stesse élite oggi come ieri cinicamente attaccate al filosemitismo nietzschiano, sono consapevoli che la loro posizione di dominio esclusivista di casta e ormai costretta a lottare la sua sopravvivenza storica. Pertanto, lungi dal dover essere incluso nel Preambolo della Costituzione europea, tutte queste affermazioni esclusiviste dovrebbero cadere immediatamente sotto le leggi esistenti anti-setta.

La genesi culturale nel suo sincretismo e la purezza di origine “divina”.

In Europa, non v’è alcuno particolare contributo culturale specificamente semita-ebreo che merita di essere mantenuto e celebrato come tale: se mai esiste, questo contributo è la conseguenza indiretta del cattolicesimo (e poi delle sette e correnti le quali ci obbligano a parlare del cristianesimo). Fino alla rivoluzione intellettuale e morale dei Lumi, il contributo culturale e religioso ebraico è stato derivato dalla linea di parentela “dinastica” e morale inventata dai Vangeli: in verità, in questa affiliazione del cristiano Salvatore si concluse con una maledizione collettiva, per sottolineare l’usurpazione micidiale della filiazione divina, e particolarmente per quello che concerna la coscienza umana rispetto ai suoi doveri universali, non riducibile a nessuna Legge positiva. Il messaggio universale non è mai compatibile con nessuna Legge esclusivista.

La svolta decisiva per il mondo moderno inizia con questa rivoluzione del senso comune e con la generalizzazione dello spirito scientifico sperimentale simboleggiato dall’Enciclopedia. Sappiamo che per Gramsci, la rivoluzione illuminista segnò e nel medesimo tempo permise il superamento politico democratico e rivoluzionario caratteristico della transizione attualizzata durante i XIX e XX secoli, proprio perché spostò la sovranità di Dio, impregnata di irrazionalità, verso i popoli e dunque verso la coscienza umana emancipata. Vale a dire, portando con sé una “negazione” ideativa in cerca di essere se stessa negata e superata irreversibilmente dal proletariato, per dirlo nel modo dei hegeliani di sinistra.

Spero che nessuno oggi soccomberà al primitivismo ben intenzionato (di “quelli che vengono a noi a mani nude” secondo la grande cantautore Barbara) di queste “radici” teocratiche! Certamente, la marcia dell’Illuminismo fu lunga e tortuosa. Ciò non deve sorprendere nessuno: ricordiamo gli studi innovativi del “sincretismo” intrapresi da Jacques Roumain, validi sia per le correnti religiosi che per le correnti filosofiche. Nei tempi post-romani avvenne ad esempio la rinascita intellettuale inaugurata dalla corte di Carlo Magno attraverso i suoi monaci irlandesi rimasti fortunatamente isolati durante l’ondata “barbara”, un revival in tandem (il trono della Sacro impero romano vale alcuni sacrifici) con il battesimo obbligato di migliaia di indigeni considerati troppo pagani e dunque costretti ha scegliere rapidamente tra l’acqua battesimale dei fiumi e il filo della spada imperiale; passa quindi attraverso il decentramento intellettuale e geografico durevole prodotto da questa stessa ondata “barbara”; passa attraverso la Prima e e la Seconda Rinascita, erede della Grecia e della Roma antiche grazie al contributo degli Arabi dai quali furono preso in prestito un gran numero di prodotti e di concetti arabi, indù e in generale legati alla riscoperta della Via della Seta.

Ma come diceva Marx, la marcia della scienza essendo ben lungi dall’essere parte di una “strada regale”, questa marcia dei Lumi fu difficile. I primi passi, le prime prese di coscienza post-romana in Europa si incarnano in una pratica della tolleranza la cui instabilità “ricorrente” porterà dottrinalmente alla revoca dell’Editto di Nantes, e soprattutto a ripetuti contra Judaeos, nella migliore delle ipotesi facendo di questi l’affare personale di Dio durante la Parusia (gli uomini stessi erano tenuti a una stretta tolleranza fino alla scadenza finale secondo l’eccellente ma istituzionalmente minoritario Gioacchino da Fiore). La « repubblica » come forma di governo fondata sulla sovranità popolare nata da questa prima “lunga marcia”, ha riconosciuto la cittadinanza a pieno titolo degli Ebrei: lo fece in esatto parallele con la riconoscenza della laicità ( fatto capitale che molti “attivisti sciocchi” e auto-suicidi oggi dimenticano malgrado la pretensione di essere nuovi “maestri” .)

Dal punto di vista del contributo culturale “ebraico”, più propriamente il contributo rabbinico religioso, è solo un tardivo tentativo di cattivo trapianto mai imposto in tutta la sua intollerabile esclusività e costantemente respinto, all’interno e fuori, come tale. Si pensa, ad esempio, al feroce isolamento di un Spinoza, prima destinato al rabbinato, dalle autorità religiose della sua Comunità – oltre dall’Olanda! L’Indice e l’Inquisizione Cattolici sono solo una variante degli eccessi ordinari di qualsiasi religione o sistema di pensiero chiuso in modo settario o, in senso stretto, in modo “esclusivista”.

Inoltre, la storia politica, culturale o anche religiosa dell’Europa non inizia con una visione religiosa semplicistica del calendario attualmente in vigore, che inoltre ignorerebbe la relazione profonda e significativa tra la celebrazione di Natale e il solstizio d’inverno. Questi significati fanno riferimento a radici molto più antiche che sono necessariamente comuni a tutta l’umanità, agli “avortons de dieu” ai loro “anziani” o “maestri”, e per fine ai comuni mortali del Neolitico, per non parlare dai loro propri antenati, dal momento che il tempo astronomico è identico su tutte le latitudini del Pianeta Terra, tenendo conto del jet-lag e delle precessioni.

Queste altre radici sono tutte preziose, hanno uguale dignità, a condizione di sapere “leggerle” correttamente come tante tape nella marcia umana verso l’emancipazione generale. Il Limbo è un concetto antitetico a tutte le forme di storicismo e di concezione scientifica della Storia (incluso il “materialismo storico”), come ha dimostrato G. Vico, nonostante la prudenza necessaria alla sua epoca. Nella sua Scienza nuova, Vico era arrivato alla necessità scientifica di relegare per cautela “Dio” nel campo della Natura, sempre identica a se stessa, che solo lui riusciva a capire, mentre la Storia, un prodotto eminentemente umano, sarebbe scientificamente comprensibile agli Uomini poiché sono loro stessi a farla e, di conseguenza, ne sono collettivamente il vero “creatore”, ergo il “vero Omero”.

Come abbiamo già sottolineato, il contesto attuale ci costringe a sviluppi dolorosi che avremmo potuto fare a meno senza la rinascita delle pretese filosofiche nietzschiane in un contesto bellico, ancora una volta mescolato con la “volontà di potenza ” la più primaria, ancora una volta rivestita coi i stracci del teocratismo imperiale dato per « universale » “nella sua mostruosa” singolarità “. Si tratta di una deriva fallace che farebbe inorridire Bacone, ma che non spaventa i mercanti dal tempio, né i bagarini di un singolare Olocausto, venalmente singolarizzato in una “Shoah” razzista, esclusivista fine alla tomba.

Così, per dare solo alcuni esempi che dovrebbero bastare per rompere il buio più cupo e più minaccioso: la Genesi della Bibbia, la divinazione e i miti astrologici, così come il sistema di numerazione collegato ad esso hanno una storia mesopotamica ed oltre, indiana e altra (una storia antecedente che nessuna distruzione spietata potrà mai abolire o oscurare); ora, questo milita sia in favore di una “rivelazione” condivisa, dando origine al mito del “divino”, sia a favore di una ricerca più “materialistica” di “immortalità”. Il primo è in gran parte legato all’impatto minoritario, ma a quanto pare, condiviso tra tutti i popoli del mondo, della ‘schizofrenia’ (il fenomeno che fece sentire sentire voci ad Abramo e tanti altri prima e dopo di lui) o la parafrenia (che può spiegare “rivelazioni” come quelle dei profeti, incluso Maometto, o certi sciamani, ma anche le nevrosi più gravi e meno sociali, anche se non causate da artifici materiali). La seconda rimanda ad un lento accumulo di razionalizzazioni e concetti legati al tempo, dunque alla vita e alla morte, questi misteri quotidiani difficili da identificare, così come i rapporti astronomici, il clima e l’agro-produttività che mette in opera e permette di controllare.

Queste due ottiche danno luogo ad una inestricabile confusione tra la ricerca dell’immortalità dell’Uomo, da un lato (Gilgamesh) e il suo desiderio di stabilire una filiazione “divina” concreta (Adamo, Gesù, ma anche Alessandro Magno, da sua madre, che, come Anna d’Austria sapeva che solo le regine fanno i re!) Così è nata la speranza nella « resurrezione » individuale in varie forme, questa protuberanza ideativa (in realtà una trasposizione) essendo dovuta alla riproduzione sessuale dall’unica specie dotata della coscienza del suo futuro, cioè della sua discendenza intellettuale collettiva e della sua risurrezione individuale ontologicamente condivisa secondo la lotteria genetica descritta con così tanta poesia umanistica da Albert Jacquard. Resta da chiarire scientificamente il ruolo e il posto della schizofrenia in questo processo (come ho già detto nel mio Pour Marx, contre le nihilisme nel silenzio generale aggravato dai miserabili plagi da parte di pitre attaccati a mantenere queste cose segrete; questo perché questi pagliacci mantengono in permanenza la speranza vana di potere operare altre manipolazione da parte di falsi illuminati e di pseudo « svegli » . Al contrario non vi è altra luce se non quella della volontà indomabile dei popoli a raggiungere l’uguaglianza individuale e collettiva.)

Detto questo, l’astronomia moderna può ormai dire senza dubbio che il sole non ferma la sua corsa al suono delle trombe di qualsiasi invasori. Ma importa anche sapere che le rovine di Gerico, con più strati distinti sovrapposti, rimandano ad un passato molto lontano che, secondo i dati archeologici disponibili, non ha nulla a che fare con le favole o con i miti “fondatori” della Bibbia, molto di più recenti. Un altro esempio è Mosè la cui figura è copiata dalla leggenda del re accadico Sargon. Come sappiamo, attraverso l’ermeneutica scientifica riemergente, Mosè e un carattere collettivo come l’Omero di Vico o il mille-feuilles di Roland Barthes, oppure, nel suo ruolo di “liberatore”, come il “blocco storico” di Gramsci.

Ed è proprio questo aspetto composito che ha fatto di Ibn Ezra il primo archeologo biblico capace di lavorare scientificamente (logicamente) sulla base di dati filologici e morali che gli permisero di indovinare i vari depositi sedimentari risalenti a diversi periodi storici, una scoperta impressionerà fortemente il giovane Baruch Spinoza. Come poi oscurare il fatto che Ibn Ezra era un grande studioso di Platone, il quale praticava l’innovazione ermeneutica impeccabile che gli permise di fare passare al setaccio della filosofia il comportamento, a volte molto poco morale e saggio attribuito ai “dei” tutelari della Grecia descritti da Esiodo o dall’Iliade e l’Odissea? Come passare sotto silenzio che conosceva pure le nozioni sviluppate da altri filosofi greci antichi i quali cercavano anche loro onestamente una via d’uscita da queste contraddizioni e da queste improbabilità, perciò non esitavano ad importare coraggiosamente le teorie dei loro folti e sostenuti contati in Oriente e Occidente, entrambi abbracciati dagli imperi a cui appartenevano e quindi dai loro numerosi tentacoli commerciali?

La Repubblica di Platone, erede come Socrate della scuola pitagorica calabrese, riassume questo approccio tanto per il suo trattamento del Bene e del Buono utilitario, quanto per il modo in cui tratta i miti; questi emanano da fondazioni culturali certificabili, o da basi utopiche come il mito puramente euristico che Platone presenta in conclusione della sua grande opera citata, cioè il Mito di Er Pamfilico; oppure il mito dell’Atlantide nel Timeo, e poi nel Critia. (Platone, autore greco colto del suo tempo e per di più autore del Cratilo, sapeva istintivamente il valore della procedura che consiste nel « nominare » le cose, secondo un metodo di oggettivazione permanente, rappresentato all’epoca dalla scrittura. Ora, la scrittura emancipa la memoria, liberandola dalle sue “carenze” naturali ma naturalmente necessarie; perciò, permette di anticipare la liberazione di ogni oscurantismo, rendendo la coscienza critica esponenzialmente più efficace. La risonanza magnetica ed altre tecniche simili non sarebbero modalità di riproduzione meno efficienti: ma per questo si deve essere animati da un vero e disinteressato desiderio di scienza e un’onestà intellettuale!)

D’altra parte, rimane diffondere un’evidenza, cioè che la divinazione tanto quanto l’interpretazione della Kabbalah sono identiche all’accumulazione e all’adattamento della lunga pratica astronomica e astrologica dell’umanità non dissimile alla Sibilla biblica. Questo è vero per i mesopotamici e per i popoli con cui erano necessariamente connessi, prima in Oriente ed in Occidente, ma anche nel Sud e nel Nord. Per contro, Sibilla biblica, rivestita con i suoi abiti di propaganda fagocitati, molto più visibili perché la maggior parte noti, quindi più riconoscibili (v. éditions de la Pléiade, ad esempio), rappresenta un caso da studiare, in quanto, da un eccesso di una vecchia mania essa pretende semplicemente dare delle “radici ebraiche” all’impero romano! Le profezie in questi testi di guerra ideologici, l’intossicazione e la disinformazione, così come in altri atti simili, in tutte le culture, valgono quello che valgono le viscere dei polli romani, le parabole della Sfinge o della la Pizia oppure degli oracoli pronunciati da figure simili nel pantheon e nella cultura dell’India, o anche di quelli visibili nel Popol Vuh e nelle profezia mesoamericane ecc …

Le Età storiche di Giovanni Evangelista e quelle più prosaiche di Sant’Agostino, rimandano allo stesso approccio quindi, in ultima istanza, alle stesse fonti. (Tutto parte dello stesso fenomeno para-frenico così ambivalente, ed al tempo stesso così affascinante e così spaventoso per vari personaggi che dimenticano tutti, a quanto pare, la cosa essenziale – diciamo, socratico / marxista. Non è sprovvisto di significato, tuttavia, sottolineare che la lettura della Torah conosce pure una versione più “mistica” e kabbalistica, riservata ai pochi « più eletti degli altri eletti », i soliti ed incorreggibili “primus inter pares” in questa parodia costantemente ripetuta della “fattoria degli animali” di Orwell. Esisterebbero così regole riservati per l’uomo comune ed altre riservate ai “maestri” che si sognavano ieri “superuomini” ed oggi « post-umanità » filosemitica nietzschiana !

Non vi sono quindi radici religiose giudeo-cristiane: queste sciocchezze mirano unicamente alla creazione di una subordinazione intellettuale, culturale e, in definitiva, politica dell’Europa. Dal punto di vista specifico dell’etica, l’Antico e il Nuovo Testamento sono suscettibili della stessa analisi socratica riportata nella Repubblica di Platone, o, con dispiacere a Habermas, nei Fondamenti della metafisica dei costumi di Kant, tranne che rimangono avvolti nel pensiero sintetico. Dal punto di vista dei costumi culturali e politici, questi e altri testi simili raccontano solo le abitudini e le usanze del loro tempo; sono, quindi, preziose testimonianze di cui non possiamo trarre alcuna prova irrefutabile di “elezione divina” che differirebbe in ciò dalle affermazioni di altri testi simili, o dalle affermazioni orali degli sciamani. Questi supporti culturali rivendicati come simboli di appartenenza da parte dei popoli hanno poco a che fare con i capricci dottrinali dei sacerdoti di ogni categoria. Inoltre, i testi biblici testimoniano abbondantemente delle relazioni tese tra le due parti, popoli e sacerdoti. I migliori profeti, d’altra parte, hanno fatto appello alla coscienza umana più che all’intervento divino.

I denunciatori più coerenti dell’antisemitismo e quindi del sionismo di destra dovrebbero ricordare che nulla di stabile o di accettabile può essere eretto su menzogne o miti nietzschiani o filosofici. Il cristianesimo si è innalzato sulla base di una confutazione che ha portato a superare il messaggio esclusivista della cultura biblica ebraica catturato dai rabbini dominanti e dal tempio. Questo ha portato ad un antisemitismo aperto o palese, a seconda delle concezioni della “teoria rivelata” rispetto alla necessaria conversione degli ebrei all’avvento della Parusia. In modo che mescolare queste due parole “ebraismo” e “cristianesimo” parlando di radici comuni è allo stesso tempo cecità e imbecillità “genetica” (storica) o culturale o, peggio ancora, inganno nietzschiano mirato all’asservimento dei credenti e dei non credenti di tutte le cosiddette religioni del “Libro”, siano loro sinceri o semplicemente opportunisti.

Inoltre, seguendo Ibn Ezra e Spinoza, poi Botero e tanti altri studiosi, possiamo leggere i rudimenti della storia di Mosè nella Mesopotamia, necessariamente precedente, di Sargon; poiché l’Epopea di Gilgamesh precede la “bibbia” dei rabbini o dei papi e altri popes; poiché nessun dato storico archeologico o inconfutabile dimostra l’esistenza del tempio di Salomone in nome del quale certi folli fanatici pensano di essere autorizzati a condurre guerre preventive, ecc. ecc., ci si rende facilmente conto che parlare delle radici giudeo-cristiane dell’Europa è menzognero. Ciò punta ad una maliziosa usurpazione animata da intenzioni criminali.

Il lato cristiano di questa visione propagandistica non è neanche tanto brillante, essenzialmente per le stesse ragioni: in breve, i vernacolari, necessari per le rinascite nazionali sopravvissuti alla latina, la coscienza e la scienza europea si sono formati nella lotta frontale contro il Vaticano e contro le altre strutture ecclesiali, insomma, ad essere onesti, queste radici sono così poco profondo che un Wojtyla cercò invano, per diversi decenni, di rilanciare la “evangelizzazione” controriformista dell’Europa e della Polonia, dimenticando che il vero messaggio sfugge oggi, per definizione, ai suoi pari! Il misticismo cabalistico è difficilmente migliore in quanto radice originale, poiché ha molti antecedenti indoeuropei e mesopotamici. Da parte loro, le gematria o le numerologie bibliche (lo scettico Scholem ebbe la buona idea di notare il plurale: quale è la versione giusta?!) non sono altro che una perversione superstiziosa e un brutale cretinismo (utilizzato anche come tale dai “nichilisti svegli ” più stagionati ) utilizzato per mascherare l’aspetto scientifico della teoria dei numeri di Pitagora. (Aggiungo: all’origine i Sumeri utilizzavano i loro segni anche come numeri, tutto lì.) Rispetto ai numeri, Socrate, nella Repubblica di Platone, ricorda che sono solo tecniche per avvicinarsi alla realtà, non sono Idee nel preciso senso ontologico che conferisce a questo termine. Questo poi ha portato ai dettagli ontologici e metodologici incomparabili di Kant su concetti a priori, e dopo lui al « concreto pensato » di Karl Marx quando operò la reintegrazione delle teorie statiche di Kant nel divenire, necessariamente materialistico e storico. Inoltre, come Kant, Marx distingue con cura tra il metodo di indagine e il metodo di esposizione.)

Per quanto riguarda il nostro continente, possiamo solo dire con certezza che l’Europa moderna, punto culminante storico di tutti gli sviluppi intellettuali del bacino del Mediterraneo, riuscì a tirare sistematicamente prima degli altri le conclusioni che sono state imposte in materia di religione, filosofia e di libero arbitrio. Queste sono propriamente incarnate dal secolarismo. Altre civiltà prima di essa avevano cercato di sciogliere la religione nella filosofia e nell’Etica, anche se in modo instabile. Gli antichi Greci avevano brillantemente anticipato le cose pagando questo successo intellettuale e morale con la cicuta. È chiaro, tuttavia, che trasformare questo incidente storico in una superiorità basata sulla ontologica (la relazione con l’universale) o sull’anteriorità, sulle orme di Max Weber (un famigerato para-frenico), ci farebbe cadrebbe vittima del più vile, il meno utile e soprattutto il più falso eurocentrismo.

Da quando esiste il bacino del Mediterraneo include l’Europa, ma non si riduce ad essa : l’Europa stessa, aperta verso l’Oceano Atlantico, opera come il culmine naturale del continente asiatico dal Urali ed oltre. In realtà, niente più delle inettitudini pronunciate oggi in Europa dai filosofi nietzschiani, quando affermano che il secolarismo è solo un’ideologia come le altre, conferma il bisogno permanente per l’Europa di attingere a tutte le eredita umane in modo da rimanere se stessa, nel rispetto dei suoi progressi di civiltà: questo è anche ciò che gli etnologi, antropologi e epistemologi più avanzati come Vico, Rousseau, Marx, Lévi-Strauss o Piaget dicevano brillantemente sulla base di dati ora stabiliti scientificamente per la maggior parte, senza dubbi possibili.

La grandezza di un Ernst Bloch non è forse precisamente nella sua capacità istintiva di abbracciare un vasto orizzonte e di evidenziare gli elementi filosofici ed etici più avanzati della storia della lotta di classe del popolo ebraico antico e moderno, in linea con lo sviluppo della coscienza libera ed egualitaria dell’intera umanità? Non è forse pericoloso per l’inizio del Ventunesimo secolo, di udire un Papa assieme ai suoi servi della Congregazione della Fede affermare apertamente, senza nessuno imbarazzo, che le proprie credenze rappresentano l’apice ed il culmine perfetto di tutte le credenze umane – anche se questi goffi, o almeno i principali tra essi, danno pubblicamente fede a “i segreti di Fatima” interpretati con l’ultimo infantilismo idiosincratico come l’ultima rivelazione divina (ad uso, naturalmente, personale!) Ma alcuni rabbini e pastori sionisti di destra affermano cose possibilmente peggiori, sfruttando ulteriormente l’Olocausto esclusivista, sostituito alla storia vera e comune della Resistenza e della Deportazione. Così facendo cercano di farne un nuovo “peccato originale” attribuito unilateralmente all’Occidente ed al mondo musulmano nel suo insieme. Un “peccato ” che permetterebbe l’emergenza di nuovi “direttori spirituali” auto-nominati, utili per fondare la loro singolare autorità universale sulla “ricostruzione” di un tempio fumoso, ma comunque illegittimo sulla base del suo stesso mito, in quanto basato sul presunto assassinio degli alti sacerdoti ebrei per il palpabile scopo materiale di legittimare l’istituzione di una regalità ebraica in Palestina. Che, a proposito, provocò la rivolta del profondo istinto democratico di Spinoza, così come la sua attenta lettura dei testi … Spinoza preferiva le ricorrenti assemblee democratiche dei popoli ebrei nomadi sotto la tenda …

In fine dei conti, l’Europa come Israele (o, più propriamente, il popolo della diaspora) possono rivendicare contributi più o meno importanti per la moderna concezione del libero arbitrio, senza la quale non può esistere né libertà, né uguaglianza, né fraternità tra individui e tra popoli. Mai di “radici” o di “diritto di primo genito “, rivendicazioni per natura antidemocratiche e storicamente fraudolente. Tuttavia, non vi è alcun motivo accettabile per favorire determinati contributi più di altri in un testo costituzionale comune! Infatti, se non esiste una cultura “giudeo-cristiana” monolitica e coerente, non esiste neanche una cultura cristiana o addirittura cattolica o una cultura ebraica che sia monolitica e coerente. Solo le classi dominanti possono pretendere il contrario, poiché questa è un’arma di guerra ideologica per stabilire il loro dominio.

Una lettura superficiale del Vecchio Testamento mette in evidenza la differenza tra una cultura nomade e egualitaria (incontro di tanto in tanto nella tenda delle assemblee) al contrario di una cultura partorita dall’usurpazione reale di poteri temporali e religiosi, che portò notabilmente alla costruzione leggendaria del Tempio di Salomone resa possibile da uno omicidio, quello dell’ultimo Gran prete. Allo stesso modo, Henri Guillemin, conosciuto per il suo santo orrore di quelli che chiamava “saltimbanchi intellettuali,” ha mostrato tutto ciò che potrebbe opporre cristianesimo primitivo segnato dal egualitarismo, alla Chiesa di Roma ora avvolta nella porpora. Gli esempi possono essere moltiplicati.

Tuttavia, sarebbe sbagliato pensare che queste vecchie fratture non avrebbero più senso oggi. Pensiamo solo agli ebrei credenti per i quali entrare nel presunto spazio del tempio contiene la promessa di un sacrilegio poiché presenta il pericolo di calpestare il luogo sacro del Santo dei Santi, oggi ignoto: questo rinvia a concezioni poco venali di credenze che sono diametralmente opposte alle credenze dei sostenitori del tempio dei « flussi di informazioni autorizzati », in altre parole del Vitello d’oro ideato per scopi politici. Pensiamo anche all’aggiornamento iniziato da Vaticano II, rimasto in sospeso a causa del ritorno delle fazioni più reazionarie e più compromesse con la CIA e con l’Opus Dei a capo del Vaticano.

Inoltre, il preambolo costituzionale non può avere come compito di enumerare questi “contributi” religiosi o di specificarne alcuni, privilegiandoli per il fatto stesso. Sarebbe un crimine vergognoso contro quelli, non meno importanti, che non sarebbero stati nominati a causa del clima culturale contemporaneo o del progresso della scienza utilizzata per illuminare il passato. O, semplicemente, a causa dei pregiudizi razzisti e meschini mantenuti dai sostenitori dell’esclusivismo giudaico-cristiano. Per onorarli tutti ugualmente, il preambolo deve aderire rigorosamente al principio di laicità perché non solo rifiuta di discriminare tra loro, ma rimane la condizione indispensabile per la loro trasmissione oggettiva, così come per il riconoscimento di ogni contributo finora occultato, in primo luogo, il contributo arabo durante il Primo e il Secondo Rinascimento europeo. Solo la laicità permette la coesistenza pacifica di tutti.

In assenza di questa iscrizione del secolarismo nel Preambolo, il silenzio assoluto su queste domande sarebbe di rigore semplicemente per rispetto per i cittadini, per le loro molteplici convinzioni e per il loro libero arbitrio, l’unico sovrano in materia. Ma anche per rispetto delle costituzioni nazionali esistenti. Qualsiasi violazione del secolarismo è quindi anche un attacco diretto al cuore di ogni democrazia, qualunque sia la sua forma, cioè un attacco alla sovranità dei popoli e dei cittadini liberi, quindi esenti da ogni dispotismo intellettuale, ideologico, religioso o politico.

L’Europa concreta, dunque meno « sveglia », non si capisce senza l’eredità romana, né di conseguenza, senza l’eredità greca. Lo conferma l’importanza data dagli antichi Romani al ragionamento obiettivo ed al suo insegnamento come valore pubblico, all’importanza data alla legge, in particolare alle leggi civili, ed alla loro sistematizzazione, per l’attenzione data alla pianificazione de territorio, e specialmente all’universalismo della razza umana (ad esempio, gli Stoici e il Seneca, secondo la bella osservazione iniziale di Ernst Bloch, ecc.). Questo universalismo sincretico faceva già parte dello sviluppo della Città di Roma, per poi fiorire nella propensione a spianare la strada della “cittadinanza” universale, uguale, e di conseguenza, almeno virtualmente, della moderna cittadinanza democratica . Così come la standardizzazione delle leggi in tutto l’impero.

Anche la distinzione di Marc Bloch tra i popoli dell’Est o dell’Ovest del Reno e nel Nord e nel Sud del Danubio non avrebbe senso senza questo patrimonio. L’universalismo cattolico apertamente ispirato nella sua politica temporale (missionari al di là di questi fiumi, sostenuti da ordini cavallereschi, ecc) e nella sua filosofia universalistica (lo stoicismo di Seneca poi riflettuto nel universalismo cristiano, ad esempio ). Notiamo pero che un Michelet, accorto lettore di Gioacchino e di Vico, cercherà le radici della sua Nazione nello spirito libertario e nella resistenza al dominio dell’Impero Romano. Ciò lo costrinse ad andare oltre la “versione ufficiale” che la Chiesa cattolica, gli ordini monastici e gli imperi temporali cristiani mantenevano per servire i loro fini propri. L’episodio non è privo di insegnamento: Michelet, o meglio i suoi mitologici fumetti per bambini (in particolare Asterix), si capiscono sulla base dei Commentarii de bello Gallico di Cesare.

Lo stesso vale per la dialettica tra Greci e Persiani che, attraverso Alessandro Magno, portò alla sintesi dell’impero universale unificato da un potere “regale” al grande dispiacere di Aristotele, rimasto attaccato alla cittadinanza antica conferita dalla città greca. Lo stesso vale per i primi popoli storici della Mesopotamia. La questione dell’origine di quei Sumeri ai quali tutti noi dobbiamo tanto, specialmente i popoli semiti, fa riferimento a una questione multidisciplinare di straordinaria complessità, di cui ora intravediamo solo le soluzioni. Si potrebbero riassumere le cose come segue: la memoria umana e la coscienza, attraverso le loro necessarie interrelazioni, prosperano con la codificazione del linguaggio, una base necessaria ma non sufficiente per l’emergere di tutti i beni materiali e culturali che formano una civiltà (Addomesticamento di piante e animali, controllo del tempo, ecc.) Da un lato, la memoria e, soprattutto, la coscienza umana dipendono anche da una serie di idiomi comunicativi diversi dal linguaggio. Tutti questi idiomi sono inscritti nel suo sviluppo sia come specie dipendente dalla riproduzione sessuale sia come libero arbitrio perché, attraverso la coscienza della propria coscienza, potenzialmente controlla le condizioni del suo futuro materiale, intellettuale e morale.

D’altra parte, la trasmissione del patrimonio scritto è del tutto aleatorio fino a periodi recenti. Torniamo alla parabola di Sorel sull’ipotetica caduta in un anfratto inaccessibile dell’asino che trasportava i rotoli biblici durante l’Esodo, senza dubbio i sacerdoti di tutte le categorie avrebbero continuato imperturbabilmente il loro lavoro; tuttavia, il compito ermeneutico e proto-filosofico di un Ibn Ezra sarebbe stato ancora più complicato a causa della rappresentazione peculiare di presunte “radici” che sarebbero comunque state perseguite, colmando le lacune esistenti in modo sincretico. Con la scoperta di questo tipo di rulli vicino al Mar Morto, la posta in gioco di questa rappresentazione riacquista un’importanza acuta, dimenticando rapidamente l’essenziale, vale a dire il fatto che si tratta solo di una questione di rappresentazioni solo un po ‘più “originali”. Ma comunque di rappresentazioni più vicini delle conclusioni indipendenti alle quali era arrivato Ernest Renan sui Esseni, che dai tentativi di recupero teocratico e delle politiche sioniste di tutti i tipi che vogliono vederci la « pianta» “originale” del tempio da ricostruire!

Altri lo hanno detto prima di me: al di là della scrittura o dei resti archeologici classici, la scienza e la Storia non hanno nulla a che fare con rappresentazioni o recuperi ideologici sulle “radici”. Perché oggi la sfida consiste nell’identificare il più precisamente possibile, sia in modo sincronico come diacronico, lo sviluppo storico plurale dell’umanità come Specie, in quei tempi preistorici e anche nella storia biologica (cioè, la scienza nuova della storia dell’evoluzione delle cellule).

I Sumeri ci rimandano probabilmente all’Oriente dal quale provenivano come proveniva la loro rappresentazione di un sole personalizzato dall’antropomorfismo, e dunque probabilmente a civiltà che non costruivano ancora con i mattoni o la pietra ? Nel suo magnifico libro La luna e i falò Cesare Pavese descrive questa scoperta essenziale dell’uomo quando scopre un’altra valle oltre quella in cui è nato, poi altre ancora che insieme formano la Terra intera. Le radici, anche se essenziali, possono a volta trasformarsi in piedi di cemento armato poco compatibili con il necessario decentramento della mente, cioè in uscita vivificante fuori dal ghetto, che sola è in grado di afferrare il singolare come una parte integrante del universale o, se si vuole, del Tutto.

La filosofia della Storia (Vico, Herder, Hegel, etc.) nata dalla secolarizzazione dello Spirito operata per la prima volta nel mondo cristiano da Gioacchino da Fiore, è totalmente diversa dalla teocrazia di basso livello nata dalla Kabbalah (che ha come compimento il ritorno teocratico filo-semitico nietzschiano ad una delle fonti dello sviluppo del sionismo in Europa orientale prima del 1933.) In realtà, la filosofia della Storia è fondata sopra la liberazione della coscienza umana dal dominio degli spiriti, qualche siano, ovvero dall'”autorità” consacrata che ne è sempre il veicolo, questa liberazione essendo il preludio necessario del vero secolarismo. Il marxismo (materialismo storico) ne è quindi l’unico possibile erede, per la stessa ragione per cui Feuerbach, troppo rabbinico, trova il suo completamento in Marx. Questa evidenza ci dovrebbe assolvere da ogni iniquità nei confronti del ciarlatano inveterato e perfettamente inutile, se non globalmente dannoso, che è Sigmund Freud; allo stesso modo, dovrebbe evidenziare la “sociologia della conoscenza” come un ultimo passaggio piccolo-borghese verso una conclusione ineluttabile.

Per il resto, si tratta di tutt’altra cosa. Si tratta del contributo del proletariato di origine “ebraica” e delle classi associate in tutte le loro varianti. Per la maggior parte, non si riconoscevano nell’oscurantismo militante e bellicoso di un certo rabbinato. Il loro vero contributo appartiene alla storia generale dei popoli europei il cui destino generale è una confutazione in atto del oscurantismo clericale in generale e “ebraico” in particolare. La storia è la storia della lotta di classe: le “leggi della provvidenza” non sono altro che la risoluzione concreta delle contraddizioni derivanti dalle condizioni materiali dell’esistenza della specie umana (compresa la cultura) e dei gruppi sociali che la compongono. L’esempio del Yiddish di cui ho parlato nel mio articolo « Le lit du néo-fascisme » è emblematico di questa visione: la cultura yiddish racconta di un proletariato dei Paesi dell’Est che pagò il prezzo del nietzschianismo il più fuorviante, ma non per questo meno prevedibile. Tuttavia, sostenere che questa parte della storia del proletariato potrebbe sostituire tutti i retaggi del proletariato nella sua interezza rinvia alla stessa deformazione settaria che rende Adamo il primo degli uomini: queste basi sono fondamentalmente mitologiche, non hanno niente di scientifico. Le loro mistificazioni sono dannose per l’intero proletariato.

L’« intelligenza » umana è ora emancipata nonostante i tentativi di Nietzsche e dei filo-semiti nietzschiani, di immaginare un « ritorno » ad una ragione umana « pre-scientifica » eminentemente compatibile con le società teocratiche, e quindi con le società di casta, di classe e generalmente con lo sfruttamento dell’Uomo dall’Uomo. L’intelligenza umana è ora investita di un dovere di libero arbitrio. Lo è ancora di più perché la base genetica della sua esistenza come Specie è ora minacciata. Le forme sintetiche, analogiche o in genere figurative che rimandano a concezioni come il “tempio” , il “diritto divino”, il “popolo eletto” o i “totem” e “tabù”, sono forme arcaiche che hanno esaurito il loro tempo. Da queste forme deriva anche la sostituzione dei sacrifici rituali e simbolici ai sacrifici umani e concreti, come evidenziato dalle parabole di Issaco e dall’ « ostia » cristiana: utili nel passato per la loro funzione di insegnamento di valori fondamentali (spesso mescolati ad ideologie di dominio di classe), sono ora l’ultimo ostacolo sulla strada dell’emancipazione umana.

Seguendo Gioacchino da Fiore, valutando criticamente il significato delle Crociate e la volontà di conquistare Gerusalemme, seguendo anche Marx, sottolineo un fatto che dovrebbe essere ripetuto, dando o meno il riferimento, secondo l’onestà intellettuale di ciascuno : non vi è nessuno tempio fuori della coscienza. Per il resto, penso di aver dimostrato definitivamente nella seconda parte del mio Pour Marx, contre le nihilisme, che la distanza è molto breve tra la schizofrenia e la “spiritualità” o “religione”, intese come “sottomissione” intima dell’Essere senza discriminazioni ragionate: nel mio lavoro, la figura del “pitre” non è un insulto, ma un concetto fondamentale. Il termine “burattino”, apparentemente descrittivo, è peggiorativo. Implica che qualcuno tira le corde senza essersi, a prima vista, in grado di specificare chi. Tuttavia, il termine « pitre » non era stato utilizzato in un preciso senso concettuale, ma denota bene la rivendicazione ad un ruolo privilegiato assieme alle illusioni incolte di chi si vuole “nichilista sveglio.”

(Ironia della sorte, il requisito di “sottomissione” ad una seria di precetti fondamentali sembrò l’unico modo pre-filosofico per evitare le devastazioni di questa cecità spiritualistica: in questo, l’ermeneutica iniziali di Platone merita di essere paragonata al Codice Hammurabi, al Levitico, al Corano e ad altri testi simili). Detto questo, perché insultare gente così insignificante mentre tale insulto avrebbe inevitabilmente coinvolto degli innocenti? Abbiamo tutti capito che si tratta di tutt’altra cosa, cose serie, cose urgenti. In questo caso, se non fosse per il mio anticlericalismo tranquillo e per il mio orrore epidermico per le pretese di ogni “nichilismo sveglio ” ( in oltre, “ebreo”, a quel che pare) questo potrebbe essere inteso come un consiglio fraterno combinato con una lezione libera e magistrale della storia critica della filosofia e della teoria politica!

Per quanto riguarda le “radici”, l’unica cosa onesta che si può dire è che il riconoscimento degli “ebrei” come cittadini a pieno titolo è direttamente radicato nella Rivoluzione francese, così come nelle rivoluzioni democratiche e sociali che essa partorì, entrambi eredi della filosofia dei Lumi. Ma questa evidenza, non spetta all’Europa proclamarla in tutte le sue sfumature. Questo dovere di memoria dovrebbe piuttosto competere allo Stato di Israele, che è diventato oggi mostruosamente identitario e “comunitarista” nel suo desiderio di stabilire uno “stato ebraico” (sic), nonostante il fatto che all’interno dei suoi confini anteriori a giugno 1967 vive più di un quarto di cittadini non ebrei, e nonostante il fatto che molti “ebrei” israeliani o della “diaspora” siano lontani dall’essere “ebrei” in questo strano modo.

Nonostante, anche, il fatto che la sopravvivenza dello Stato di Israele, concepito come l’ultimo rifugio in caso di ritorno della barbarie antisemita, non sarebbe in alcun modo messo in pericolo senza gli effetti disastrosi indotti da queste derive identitarie e teocratiche. In realtà, questa sopravvivenza politica finale sarebbe demograficamente e politicamente assicurata in modo definitivo grazie al riconoscimento di uno Stato palestinese, indipendente e sovrano, fondato sul pieno rispetto delle Risoluzioni 242 e 338 dell’ONU, preludio essenziale per la convivenza e l’integrazione dello Stato di Israele nella regione.

Le opzioni disponibili sono ridotte a causa della persistente complicità dell’Europa e delle Nazioni Unite nel fascicolo di Ertez Israel, vale a dire sulla problematica del ritorno ad un imperialismo templare accompagnato dal apartheid e dal ritorno sorridente alle caste. Quindi, a meno di un cambiamento radicale di atteggiamento, solo una sconfitta militare completa di questo imperialismo templare sionista e razzista potrà liberare il mondo di questo orribile neofascismo filo-semita nietzschiano. I Membri delle Nazioni Unite e le altre grandi potenze nel Consiglio di sicurezza dovrebbero considerare l’imposizione immediata ma incondizionata delle Risoluzioni 242, 338 e 194 (quest’ultima, prevedeva adeguate misure internazionali – ad esempio la riscossione di una tassa di 1 centesimo sul petrolio venduto nei paesi sviluppati – a compensazione in caso di mancato ritorno volontario dei rifugiati palestinesi nelle loro case di origine).

Fino ad ora, tra cattiva coscienza e calcoli politici, le “élite” europee hanno rifiutate di adempiere ai loro obblighi scaturiti dal diritto internazionale per quello che riguarda Israele. Stanno semplicemente aspettando che la storia imponga la sua soluzione, ben sapendo che lo Stato attuale di Israele sta inevitabilmente correndo alla rovina. Alcuni sono anche tentati di allungare la corda in modo che la conclusione risulta più duratura, assolvendosi in anticipo da qualsiasi responsabilità diretta. Essi sperano di mantenere intatte le loro fantasie più massoniche necessarie al loro dominio di classe (Si tratta di un dominio organizzato sistematicamente dietro le quinte, per mezzo della auto-selezione di classe, fuori dei circuiti accademici e democratici più legittimi e trasparenti, questo essendo il “grande segreto”, o se si vuole, la “nobile menzogna”, dietro la longevità della democrazia capitalista liberale, poiché rimane de facto « censitaria » nonostante la forza del numero degli oppressi al suo interno, e nonostante la loro rivendicazione di fondo a favore di un’autentica democrazia egualitaria che investe tutti gli aspetti della vita socio-economica, culturale e politica, il che implicherebbe la condivisione e il controllo collettivo del plusvalore prodotto socialmente).

Non è quindi secondo questi calcoli classisti, che si fa il miglior resoconto della propria responsabilità rispetto al prossimo, né che si apre la strada ad un’autentica solidarietà (« accommodation » ) tra i popoli.

In conclusione vorrei esprimere un desiderio: che tutti gli Europei, che tutte le persone di buona volontà in tutto il mondo, ebrei e gentili, abbiano a cuore di dare il loro contributo disinteressato alla eliminazione definitiva delle “radici “ideologiche o psicologiche di ogni oscurantismo, di ogni fanatismo e di ogni accenno, teocratico o no, ad uno ” ritorno ” ad una società di caste, con la consapevolezza che solo ” miserabili ” (il testo francese dice « gueux » e punta alla sua radice « guit » olandese) variamente nietzschiani possono confondere volutamente il “messaggio” e i “messaggeri”, il medium e il verbo. Assicuriamoci collettivamente che non sia più pensabile di pretendere porre di nuovo il fondamento di una “dialettica troncata” mirata ad amputare o a sviare dal suo commino il futuro individuale e collettivo umano. Ora dobbiamo essere definitivi, in tutta coscienza, senza la minima esitazione.

Finalmente vi invito a considerare, in coscienza, quale parola usereste per contrassegnare la condanna politica e morale irreversibile delle idee sostenute dai fautori di ogni società teocratica, di casta e di sfruttamento dell’Uomo dall’Uomo. Nessuno è soddisfacente. Tuttavia, l’esercizio è di valore inestimabile dal punto di vista analitico, semiotico e semiologico. Richiede un approfondito chiarimento morale. Coinvolge la denuncia di una degenerazione. E ‘anche una profilassi necessaria per evitare il solito destino di questo tipo di dialettica troncata, priva di un divenire umano chiaramente delucidato (pace Aristotele) che caratterizza i “Greci” e “Persiani” ambiziosi di tutti i tempi, “ostie e vittimari “, per citare la magnifica espressione di Aimé Césaire.

Non ci illudiamo, la libertà, vale a dire il regno dell’eguaglianza o, al contrario, quello della “servitù volontaria”, sono di nuovo in bilico. Il presunto « quaderno del ritorno al paese di origini » per i devoti delle “radici” non porta all’Universale come fa il capolavoro del grande e incomparabile poeta francese di origine Bambara e di convinzione “comunista”. Contiene, al contrario, la promessa di trascinarci disperatamente « una volta ancora» in quei “viaggi al confine della notte,” segnati da ripetuti segni di profonda afasia culturale coltivata come uno “stile” letterario, un tipo di regressione molto in voga in questi giorni di vigilanza selettiva esercitata in nome di un “dovere di memoria” totalmente errato o, al meglio, stranamente miope.

Mai cessare di questionare i propri presupposti.

Quando il pensiero tocca temi delicati come quelli della laicità o, più delicato ancora, dell’esclusivismo, è imperativo mantenere una mente aperta e sapere come risolvere periodicamente i problemi. Non si tratta di cedere un solo millimetro alla reazione, i cui obiettivi sono chiari. La nostra preoccupazione è di non trattare i popoli come nemici. Dobbiamo, quindi, cercare di capire dall’interno. L’esclusivismo dei sionisti di destra è ovvio. Ma come si spiega l’attitudine attuale di una maggioranza di “ebrei”, qualunque sia la definizione che vogliamo dare a questo termine, e nonostante la variabilità che questa “maggioranza” possa assumere in base alle circostanze? Perché tende ad avere più fiducia nei membri della sua comunità, anche quando sono degli esclusivisti incalliti raddoppiati da criminali di guerra comprovati? Perché questo strano comportamento di gregge gregario, insensibile alla voce della Ragione? Quali forme prendono o dovrebbero prendere la lotta di classe e le necessarie alleanze ?

Non scartiamo queste domande. Non pretendo rispondere per gli altri: ognuno ha il dovere di pensare con la propria testa. Ma non è inutile esporre qui i presupposti teorici che necessariamente colorano la mia riflessione. È evidente che la mia conclusione può essere riassunta nella doppia convinzione che l’occultamento dell’esclusivismo di qualsiasi tipo e la storia parziale dell’Olocausto costituiscono il più grande pericolo per il futuro. In fondo, si tratta di sapere se il dovere di memoria della Resistenza e della Deportazione è destinato ad un beneficio di parte oppure all’edificazione della coscienza collettiva. Chi pagherà le “riparazioni” per i 27 milioni di sovietici e per i milioni di comunisti al di fuori dell’URSS morti combattendo contro il nazifascismo nel Vecchio Continente, ma anche in Asia? Avremmo l’ardire di affermare che i loro eredi intellettuali siano anch’essi “impossibilitati a pensare per vent’anni” (mille anni?). O di più?

Ecco due serie di domande che devono essere periodicamente riconsiderate.

1) Come si spiega l’ostacolo alla fiducia intra-comunità nello sviluppo nazionale e internazionale della lotta di classe e delle alleanze di classe? Questo ostacolo si manifesta con la volontà dei sionisti di destra di sfruttare “l’antisemitismo” per intimidire l’anti-sionismo di destra, scelta che aiuta a sostenere l’adesione della maggioranza delle comunità ebraiche in Israele e fuori Israele. È: a) La paura; (b) il desiderio di normalità; c) il « power trip » dei sionisti di destra? d) i benefici diretti derivati dalla sovra-rappresentazione filo-sionista nietzschiana?

2) Che cos’è un “ebreo” nel mondo moderno? È: a) un cittadino israeliano; (b) un membro di una comunità religiosa che può essere suddivisa in diverse denominazioni; (c) un membro di una comunità culturale che condivide con gli altri un passato culturale comune e un futuro culturale condiviso o almeno un dovere di solidarietà verso quella comunità; d) un membro di una comunità più ampia che pretende che “siamo tutti degli ebrei tedeschi”; e) un membro di una razza eletta?

Le risposte date nella prima serie sovra-determinano quelle stabilite nella seconda. Lasciamo da parte la questione ampiamente discussa qui sopra di “elezione” ed « esclusivismo ». Notiamo brevemente :

a) La risposta di Marx rispetto alla cittadinanza ordinaria degli ebrei di tutti i paesi era fondata sulla conquista della laicità, la separazione della chiesa e dello Stato rendendo possibile la cittadinanza, dunque l’uguaglianza tra tutti gli individui. Non è un caso che la Questione ebraica con la sua condanna definitiva del concetto dell’elezione divina esclusiva forma la parte centrale della Sacra Famiglia, l’opera che il giovane Marx dedicò alla teoria politica che porta al concetto di cittadinanza e attraverso di esso alla speranza del compimento del trittico dell’emancipazione umana: l’emancipazione religiosa (laicità), emancipazione politica (cittadinanza) e, infine, l’emancipazione umana, cioè la fine dell’alienazione materiale – sfruttamento – e spirituale con il « recupero del Uomo da se stesso ».

Questa risposta è l’unica valida anche se ora si deve prendere atto della creazione di uno stato israeliano, reso “necessario” per il tentato sterminio degli ebrei da parte dei nazisti, nello stesso modo come il sionismo originale è stato reso “inevitabile” dai pogrom dell’Europa orientale e dall’affare Dreyfus in Francia, che il giornalista Th. Herzl ha avuto l’opportunità di coprire. Questo bisogno è anche spiegato dal desiderio di “ritorno” da una parte della diaspora. Più che di una vera necessità, si tratta di chiudere un vecchio dibattito oggi inquinato dall’ossessione della “soluzione finale”. In realtà, oggi è ben ovvio che la risposta fondamentale di Marx si applica anche nella sua generalità allo Stato di Israele.

Uno “Stato ebraico” non può essere niente altro che una mostruosità, un vasto Stato ghetto che provocherà dei ripiegamenti identitari a catena tale che nessuna strumentalizzazione del antisemitismo o di qualsiasi ricerca di imporre un impero globale, potrà mai scongiurare. Se mai questo concetto teocratico-razzista riprende il sopravento come negli anni Trenta e Quaranta in un mondo inter-statale o semplicemente inter-imperiale, la fragile entità israeliana rischia molto di più di quanto pensa. L’importante arsenale atomico a sua disposizione vale solo il prezzo della sua costosa manutenzione; in effetti, nonostante le affermazioni arroganti, dipende dall’aiuto machiavellico ancora concesso dagli Stati Uniti e dall’Unione europea (oltre 3 miliardi di aiuti diretti annui, nonostante la dilagante disoccupazione e la crisi dovuta principalmente al capitale speculativo delle banche ebraiche, oltre ai profitti commerciali ed agli aiuti militari, tecnologici e di polizia).

Finché lo Stato palestinese non sarà proclamato sulla base del Piano di condivisione del 1947 e delle pertinenti risoluzioni dell’ONU, dopo un referendum nazionale palestinese, Israele rimarrà uno Stato « croupion » ed illegale, permanentemente assistito, quindi un’entità mostruosa, uno pseudo-stato non viabile. Nel migliore dei casi una tana di assassini in attesa di essere giudicati dato la loro scellerata rivendicazione come metodo legittimo dell’omicidio degli avversari, incluso l’omicidio medicale di innocenti all’interno stesso degli ospedali (come posso testimoniare personalmente sin dal 11 gennaio 2011), nonostante quello che affermano di predicare rispetto alla Legge del Talione da contare 7 volte.

Rimane la vera domanda: può lo Stato israeliano sopravvivere come rifugio di ultima istanza del popolo ebraico, senza trasformarsi in uno Stato di apartheid, una scelta che a lungo andare può solo segnare la sua inevitabile distruzione? Ho cercato di rispondere a quest’ultima domanda ricordando che il perpetuarsi degli attuali equilibri demografici che consentono ad Israele di essere contemporaneamente uno stato “democratico” e uno stato a maggioranza ebraica (in breve uno stato demograficamente e religiosamente “normale”) era necessariamente basato sul riconoscimento incondizionato delle Risoluzioni 242, 338 e 194, con modifiche al margine che includevano un trattamento mirato della questione del ritorno dei profughi palestinesi, esemplificato magnificamente dal non-ufficiale Accordo di Ginevra.

b) Il complesso di Masada è solo una ricetta per il suicidio settario. Una pessima strategia per combattere le vere aggressioni o la paura. Per il momento, Israele, tagliato fuori dalla piena partecipazione nella propria regione, è uno Stato « croupion » fortemente indebitato e dipendente dal mondo esterno. Uno stato iper-vulnerabile nonostante le apparenze. Questa dipendenza ora nascosta permette di cullare l’illusione della strapotenza militare, con l’appoggio delle armi nucleari. Supponiamo che un giorno l’impero teocratico voluto da tutti i sionisti di destra conosca il suo Vietnam (destino già annunciato in Iraq): chi diventeranno allora i capri espiatori “legittimi”, i sionisti cristiani oppure gli Israeliani, senza distinzione, e in realtà tutti gli Israeliti del passato?

Nessuno meglio dei sionisti che conservano la memoria istituzionale del sostegno britannico (Balfour) per l’istituzione di una “casa ebraica” in Palestina conosce la terribile ambivalenza delle élite imperiali rispetto a questo argomento. Pesarono freddamente la possibilità di “sbarazzarsi” delle proprie popolazioni ebraiche sotto gli applausi dei Nietzsche di turno e dei sionisti di ogni tipo, considerando la creazione di un’entità dipendente, quindi presumibilmente leale, in una zona strategica che controlla uno dei loro principali canali di comunicazione navale, commerciale e militare. Esiste un singolo impero o Stato (Israele incluso) che non si appella alla Ragione di Stato per giudicare la rilevanza di questa dipendenza? Israele tagliato fuori dalla sua regione immediata, tagliato fuori dai suoi sostenitori stranieri, anche le centinaia di testate nucleari soggette alla ruggine ed all’obsolescenza, presto diventeranno un onero economico intollerabile, ma impossibile da ignorare a causa di potenziali pericoli: dovrà poi scegliere tra il costoso smantellamento dell’arsenale nucleare e la disoccupazione di massa. Qualcuno crede forse che, a quel punto, le manipolazioni rabbiniche di purezza e di appartenenza tribale all’interno stesso di Israele saranno capaci di crear un sostenibile filo-levitismo pro-nietzschiano?

Dopo la Resistenza e la Deportazione risulta totalmente impensabile in termini razionali, la propensione di gran parte del popolo ebraico contemporaneo di porre la sua fiducia nel nietzschiano di destra piuttosto che nell’anti-nietzschismo convinto di sinistra. Come tanti volgari Steiner, oggigiorno troviamo anche dei politici pronti a riabilitare Wagner in Israele, nell’odioso tentativo di recuperare il fascismo – di origine – senza la sua judeofobia; questa ripugnante manovra mira a stabilire i Gentili come dei “fratelli minori ” degli ebrei, incluso all’interno del Vaticano e più in generale del mondo occidentale, presumibilmente “giudeo-cristiano” (vedi ciò che abbiamo denunciato in precedenza rispetto alle “false” radici dell’Europa). Queste sciocchezze scaturiscono dalla la teoria rabbinico-nietzschiana che privilegia il primato di san Pietro, descritta come un ebreo circonciso che obbedisce al sinedrio, contro san Paolo, fondatore della Chiesa cristiana aperta a tutti universalmente, senza eccezione. Mussolini, allievo dell’ebrea Margherita Sarfatti, non fu forse considerato « il grande protettore degli ebrei », almeno fino al … 1938?

La vera domanda non è: c’è ancora un dio dopo Auschwitz, ma invece: perché la Ragione umana fa tanto fatica ad imporsi nonostante la comune sconfitta delle forze nazifasciste? Naturalmente, Rabin lo disse pure a sua maniera quando parlò della necessaria rivoluzione psicologica da compiere all’interno della maggioranza ebraica contemporanea intossicata dalle sue élite sioniste di destra, esse stesse manipolate oggi come ieri secondo l’eterna logica dell’esclusivismo dalle ciniche potenze che fanno finta di sostenerli usandoli come volgare pedine in una regione altamente strategica per le sue riserve di petrolio e di gas, e per le sue principali rotte marittime.

Il trauma del caso Dreyfus non è ovviamente estraneo all’adesione del “rinnegato” Karl Kautsky alla guerra imperialista alla vigilia della prima guerra mondiale. Il comportamento di Leon Blum contro la Spagna e le brigate internazionali sottolinea lo stesso desiderio di appartenere a tutti i costi al gruppo delle « élite » dominanti, nonostante gli interessi di classe. La scelta era altrimenti sovra-determinata da interessi impossibili da dichiarare apertamente e quasi certamente innominabili a sinistra. Rosa Luxemburg non ha letto Karl Schmitt illudendosi per la meravigliosa conoscenza cabalistica! Lo stesso Marcel Proust dissipò le sue illusioni trovando finalmente l’autentica cultura a cui aspirava nei costumi naturali della sua domestica, rappresentante autentica di un intero popolo. Abbiamo qui la vera chiave del suo A la recherche du temps perdu, titolo scelto con precisione perché, salvando quello che si poteva salvare di un mondo invecchiato e destinato a scomparire, Proust riassunse le sue illusioni passate, che avevano pero nutrito la sua arte, con una semplice frase: “e tutto ciò faccia una stella nella notte”!

Comunque sia, in ultima istanza la Storia è la storia della lotte delle classi, delle entità politiche, persino i popoli non sono mai altro che mediazioni storiche. Le due guerre “mondiali” hanno perfettamente dimostrato questa evidenza troppo ignorata. Tuttavia, facciamo astrazione del fatto che sin dall’inizio della diaspora, i rabbini più oscurantisti hanno manipolato la paura per stringere i ranghi della loro comunità e riaffermare il loro potere. Ciò che è importante sottolineare oggi è che i sionisti di ogni ispirazione condividono con i sionisti di destra la stessa distorsione ontologica su questo argomento, sebbene i primi possano “sembrare” più ragionevoli riguardo al futuro della Stato israeliano. Tipicamente, cieca servitù alla Torah o calcolo politico, tutte le tendenze sioniste concettualizzano i problemi definendo prima ciò che desiderano loro stessi, quindi procedendo con la migliore coscienza del mondo e senza il minimo timore del ridicolo ad “universalizzare” queste loro pericolose idiosincrasie per offrire finalmente soluzioni generose ai problemi che gli altri sono suscettibili di risentire.

Dunque, i nazisti usavano la “circoncisione” per designare gli ebrei? È quindi sufficiente circoncidere negli ospedali tutti i bambini maschi, senza previa autorizzazione dei genitori, come è stato fatto in molti paesi e continua ad essere fatto in Nord America, anche tra i gruppi che condividono l ‘”orrore greca” per tutte le mutilazioni irrazionali, imposte a uomini e donne. O tra le classi che non condividono questo modo curioso e illusorio di “proteggersi” senza dover modificare comportamenti esclusivisti, riprovevoli e necessariamente pericolosi. I sionisti ottengono finalmente il sostegno degli Inglesi e dell’Occidente per stabilire ciò che doveva essere originariamente una “casa ebraica”? Ecco che la ” questione ebraica “, questione reale, si trasforma improvvisamente una” questione araba ” artificialmente costruita per le esigenze del caso, una questione araba fittizia che ancora oggi si traduce in una deportazione genocidaria condotta con ferocia contro i Palestinesi, con la complicità degli Occidentali, tra i quali molti hanno silenziosamente a cuore di sbarazzarsi della loro “questione ebraica” in casa propria. La ONU definisce una suddivisione equa del territorio del vecchio mandato per la Palestina col Piano di spartizione del 1947, lasciando poco più del 50% delle terre palestinesi ai palestinesi ? Dopo una serie di guerre e di pulizia etnica, effettuata con le bombe e desiderata da quasi tutti i leader israeliani, tra cui Ben Gourrion, ecco che il Likud e i suoi alleati, tra cui molti del Partito Laburista e molti ebrei della diaspora, cominciano a costruire una parete di separazione (in realtà, un genocidario Muro dell’Apartheid ) che di fatto espropria metà del 22% di Territori occupati (Cisgiordania e Gaza) che sono soggetti alle Risoluzioni 242, 338, e sui quali si prevede di dar vita a uno Stato palestinese, sovrano e indipendente, come ogni Stato membro delle Nazioni Unite. La laicità è un prerequisito per l’esistenza di una cittadinanza ebraica in Occidente, fondata sulla separazione delle strutture statali e religiose, in modo da neutralizzare gli eccessi teocratici ed esclusivisti al livello politico? Ecco i vecchi demoni riemergere con un conseguente attacco frontale, anche se nascosto, che mira a ridefinire la laicità come una multi-confessionalità generalizzata e dunque compatibile con l’impero filosemita nietzschiana putativo, mentre al contrario, per la salvezza di tutti i repubblicani, premeva imporre una vera misura di laicità a tutte le scuole private confessionali frequentate rispettivamente in Francia dal 30% dei bambini cattolici, protestanti ed ebrei e, domani, i musulmani. Questo dà anche luogo a manipolazioni machiavelliche ideate per trasformare l’uso del velo in una posta in gioco repubblicana in modo da mobilizzare la République contro la sua comunità culturalmente musulmana 16 volte più numerosa in Francia rispetto alla piccola comunità ebraica francese, nonostante la comunità musulmana in Francia viveva in pace ed era in stragrande maggioranza laica. (Va sottolineato a matita rossa, ma come una condanna e come un urgente dovere di memoria, che prima degli imbrogli dei vari Bauer, Klugman e altri Roger Cukierman – quest’ultimo lasciandosi trascinare momentaneamente ad applaudire l’ascesa di Le Pen nel giornale Le Monde – c’erano in Francia soltanto venti casi “problematici” direttamente collegabili al velo nelle scuole pubbliche e quattro casi giudicati « difficili »; tra questi quattro, due ragazze di origine ebraica, recentemente convertite all’Islam, il cui padre era un disertore dal partito comunista, come molti altri in questi tempi difficili in cui “il fait beau comme jamais “. Così si fabbricò artificialmente un caso costituzionale in un bellissimo spirito di solidarietà civica, dimostrazione profonda di una certa cultura familiare e sinceramente repubblicana.) La discriminazione sistematica di certi gruppi etnici o sociali richiede azioni statali per sopprimerle? Ecco i leader di una comunità, una volta perseguitata, ma oggi comodamente stabilita ovunque in Occidente, nonostante il loro derisorio peso demografico, che operano senza vergogna per definire i fondamenti per rendere perenne la propria singolarità data come base dell’universalità in sé: la meritocrazia rabbinico-nietzschiana atta a perpetuare le caste dominanti viene quindi ritenuta meritocrazia autentica; peggio, tutti i metodi di selezione neutri basati sulla comprensione moderna dell “intelligenza” sono tranquillamente, ma ferocemente combattuti perché favoriscono naturalmente il “gran numero” grazie all’opera di un potente meccanismo egualitario, specificamente repubblicano, che rimanda al calcolo delle probabilità invece delle singolari pretese di elezione divina; per colmo di ignominia, alcuni genetisti che in parte hanno plagiato e rubato le scoperte che li hanno resi famosi.

Ad esempio, Jim Watson, per citarne solo uno, anche se a lui piace darsi aree con la sua arroganza narcisistica, sembra oggi curiosamente propenso a vedere tutto in doppio. Questa gente ci promette oggi, senza nessuno timore del ridicolo, risolvere “l’ingiustizia genetica” fatta a genitori e bambini proponendo seriamente la creazione dell’ingegneria genetica. Nessuno sarà sorpreso se questi genetisti favoriranno cloni di loro stessi e della loro casta “Oxfordiana”, come modelli con l’obiettivo di creare una “post-umanità”! Ovviamente, Watson e altri ignorano, o fanno finta di ignorare, i veri criteri utilizzati per designare i Rhodes scholars ovunque nel vecchio Commonwealth! È una fortuna che Watson non abbia, a mia conoscenza, anche difeso la santità del matrimonio con la discendenza matrilineare, in quanto ciò avrebbe causato un sacco di guai per la tracciabilità e per l’imputazione teorica agli studiosi della sua specie, così come ai teorici che riscoprono con ritardo, in una ottica genetica di seconda classe, la sottostante importanza socio-politica delle strutture di parentela! (Aggiunto: I commenti discriminatori di Watson rispetto l’intelligenza dei “neri” avevano provocato una mia verifica in quanto lettore precoce di J’irai cracher sur vos tombes scritto da Vernon Sullivan, alias Boris Vian, grande trompinétiste per la più grande gloria del Cielo; ho modestamente suggerito il fatto che milioni di americani “bianchi” erano in realtà “neri” ad eccezione della pigmentazione della loro pelle; or bene, ecco che questo Signor Watson risulta in parte geneticamente “nero” ( 16% se la mia memoria non mi tradisce), che probabilmente potrà vantare, se ha il buonsenso di correggersi … Comunque, con la sua esperienza di genetista, crede proprio che il voyeurismo e il furto siano tratti trasmissibili dai gameti ? Pensa proprio che sarebbe legittimo chiedere l’opinione di Rosalind Elsie Franklin, anche in modo postumo, prima di correre generosamente in banca, seguendo la direzione naturale della sua mente … A parte l’umorismo nero, l’argomento non riguarda solo questo poveraccio di Watson, a me sembra, che sia universale).

In verità, l’ideologia della meritocrazia rabbinico-nietzschiana è tanto pericolosa quanto a-scientifica. Nel mio articolo Dioscures, culture e génétique (fine maggio 1998), del quale una parte essenziale è ripresa nel appendice « Spoliation » (in Pour Marx, contre le nihilisme, 2002, p 204 in poi liberamente accessibile in Download Now nella Sezione Livres-Books di www.la-commune-paraclet.com ), avevo già denunciato e decostruito questo argomento privo di ogni fondamento scientifico, un argomento in effetti molto filosemita nietzschiano americano, almeno per quanto riguarda le sue basi sociologiche. È necessario aggiungere, senza ironia, che qualsiasi civiltà senza il suo Bussy Rabutin o senza il suo Diderot, senza il suo Boccaccio, o senza il suo Chaucer, rischia di perire per eccesso di gravitas?).

Questo vizio fondamentale di tutto il sionismo non è altro che una distorsione politica dell’esclusivismo religioso. Egli semina i semi del conflitto, alimenta le paure perché, con una caratteristica arroganza anche se male ispirata, riduce la risoluzione dei problemi al ricorso alla forza brutale. Le strutture mentali da cui deriva sono quelle del collaudato settarismo, che sostituisce ciecamente la realtà oggettiva con le sue divagazioni fanatiche e con i suoi deliri. Inevitabilmente, il numero fa il resto. A meno che, per coscienza morale o con la preoccupazione di prevenire conflitti inevitabili, o per semplice necessità, assisteremo ad una sana reazione legale, costituzionalmente dovuta, tale quella descritta con grande intelligenza per la sua epoca da Shakespeare nel suo Mercante di Venezia. La conclusione dovrebbe essere immediata: non c’è salvezza per le persone né per il proletariato ebraico, come d’altronde per ogni altro popolo o qualsiasi altro proletariato in queste derive esclusiviste che distruggono gli anticorpi della sola e unica protezione globale possibile, vale a dire l’uguaglianza repubblicana di tutti i cittadini, che questa uguaglianza sia espressa in un regime liberale democratico o in un regime socialista. Stalingrado ne è la prova definitiva. Come vediamo questa paura ha delle radici suicide.

c) Essere ebreo secondo la mia idiosincrasia è in definitiva essere necessariamente “marxista”, almeno in parte. Qui si trova la soluzione al dilemma degli ebrei sin dall’inizio della Diaspora: cioè, il desiderio di essere sia una comunità in esilio, perennemente preparando il suo possibile ritorno, rifiutando in un primo momento di essere completamente disciolta nel paese di adozione, oppure integrarsi pienamente con le sue comunità ospitanti. La creazione dello Stato di Israele cambia un po ‘il gioco, ma non risolve questo dilemma originale. Oggi, l’esistenza di Israele rende necessario riformulare la “normalità” degli ebrei, se non altro a causa dei vari legami mantenuti dalla diaspora con lo Stato israeliano e con le sue escrescenze diplomatiche (o organizzative, via il Congresso ebraico, per esempio) di certi gruppi esclusivisti all’interno dello stesso Israele.

In altre parole, la versione esclusivista e vittima di una profonda amnesia della Shoah solleva inevitabilmente la questione della natura politica e ideologica degli ebrei stessi, che è l’esatto opposto della colpa che si cerca imporre ai popoli « Gentili ». Possiamo, dopo Auschwitz, essere ebrei e “amare ascoltare” Wagner? Che diventa allora la “normalità” in tutto questo, cioè la normalità che consente alle coscienze libere di realizzare il loro percorsi propri? Esistono domande false come esistono false opposizioni “aristoteliche”: non resistono ad un esame della realtà concreta. Ognuno di noi sa, anche senza l’aiuto di Bergson o di Braudel, che i tempi della vita privata, culturale, ideologica o politica non sono identici: confonderli fa versare in un rigore soffocante, anche se alcune posizioni sono meno onorevoli di altre.

Ad esempio, ho impiegato molto tempo per capire personalmente perché qualcuno come Einstein scelse gli Stati Uniti piuttosto che l’Unione Sovietica; o perché molti sopravvissuti dei campi di sterminio, compresi quelli rilasciati dall’Armata Rossa, scelsero di camminare verso l’Occidente, già trasformato in occidentale di cartapesta, anche quando non avevano ragioni familiari di farlo ; o che Primo Levi difendeva con convinzione privata l’impresa privata, e così via.

Questo genere di domande oneste non consentono risposte a priori. Sono di una difficoltà formidabile che non si dissipa facilmente. L’unica risposta accettabile resta il fatto che le condizioni materiali di esistenza precedono sempre l’essenza, però, purtroppo, l’amnesia storica e culturale dovuta al dominio globale del capitalismo e delle sue classi e gruppi (religiosi) associati, non permettono sempre alla memoria veritiera e alla Storia giocare il loro vero ruolo di forze materiali. A questo si aggiungono tutte le altre contraddizioni accessori che fanno si che la rigidità istituzionale di qualsiasi Stato, URSS o Israele, non permette di risolvere rapidamente queste contraddizioni, o, talvolta, non permette neanche percepirle nella loro cruda realtà. Non ci sono scorciatoie in questa materia, sebbene come i bolscevichi classici si possa legittimamente concepire il telescopaggio – « téléscopage » – di più epoche storiche per accelerare la Storia.

L’essenziale quindi non è dare a tutti i costi una risposta necessariamente parziale o falsa ai problemi reali, ma piuttosto creare le condizioni ottimali per la loro risoluzione coinvolgendo gli individui e i gruppi interessati. L’impossibilità ontologica di riconciliare uno Stato di Israele, obbligato ad agire come qualsiasi Stato nel rivendicare la sua ragione di Stato e la sua Realpolitik, con il Catechismo esclusivista della Shoah, porta inevitabilmente all’adozione e alla diffusione di un’ideologia filo-semita nietzschiana che occulterà volontariamente tutte le ineluttabili derive judeofobiche (costrette secondo me) di tutte le forme di nietzschianismo immaginabili. Il giudeo-fascismo, illusoriamente standardizzato, è una pessima garanzia della sopravvivenza del popolo ebraico. Questa soluzione mi sembra ancora peggiore di quella derivata dal « complesso di Masada ». Nella migliore delle ipotesi, non può che rappresentare quella ” mostruosa sodomia dell’ostia e del vittimario ” denunciata da Aimé Césaire. Nel peggiore dei casi, costringe la Storia a balbettare mostruosamente.

Un ebreo normale può scegliere di essere ciò che vuole, a destra o a sinistra, ma ancora più chiaramente che per qualsiasi cittadino moderno, non può essere legittimamente fascista, un fascista teocratico, cioè un sionista di destra,. Imperativamente, non può aspirare a diventare se stesso ciò che rifiuterebbe di accettare dai suoi vicini non ebrei. Questa è una questione di etica, una questione di teoria politica democratica, anche prima di essere una questione di numero o di equilibrio di potere, senza offesa per i spacconi e gli apprendisti stregoni, nonostante Habermas. Piaccia o no, laicismo e cittadinanza, come delineato da Marx, sono necessariamente parte delle sue condizioni di vita. Sole, consentono lo sviluppo, all’interno di Israele o al di fuori di una religiosità ebraica legittima, che rimarrà compatibile con l’integrazione e la piena normalizzazione nella società politica, senza suscitare la rinascita dei vecchi demoni dell’esclusivismo « ancora una volta » in ordine di battaglia, ma stavolta senza il proletariato organizzato per produrre nuovi Stalingrado salvando cosi in extremis la via ad un numero di persone più o meno militanti che si pensano comunque, in modo diverso, “svegli”. Alla fine, l’unica terra di asilo concepibile rimane la Dichiarazione dei diritti individuali e sociali della persona umana.

Cos’è il razzismo e l’antisemitismo?


E ‘bene ricordare che, paradossalmente, il sionismo nelle sue molteplici varianti non è un problema dal momento che l’OLP ha accettato di prendere in considerazione una soluzione politica sulla base del Piano di spartizione del 1947 e sulla base delle Risoluzioni 242, 338 e 194 e delle altre risoluzioni delle Nazioni Unite. L’abominio del sionismo di destra è facilmente comprensibile da questi dati oggettivi. Si noti che l’unico rimedio conosciuto per condurre una lotta efficace contro l’antisemitismo è quello di imparare a distinguere istintivamente tra sionismo e antisemitismo assieme al diritto di condannare il sionismo e francamente gli ultimi due.

Ma cos’è il razzismo? È la discriminazione e la denigrazione di un individuo o di un gruppo di individui a causa di caratteristiche etniche o culturali di cui non sono personalmente responsabili. Tuttavia, poiché la religione è ancora troppo legata alla cultura, dobbiamo aggiungere che il concetto di “razza eletta”, quando si riferisce a una visione o a delle caratteristiche politiche (cioè, teocratiche) piuttosto che strettamente morali e rilevanti strettamente della sfera privata, è davvero un razzismo tanto pericoloso quanto pernicioso, che non può essere tollerato. Allo stesso modo, le sette, come Scientology, che affermano di dividere gli individui in caste abusando di fenomeni che non capiscono, sono per definizione l’apice del razzismo religioso. Queste sette dovrebbero quindi essere trattate con il massimo rigore, secondo le leggi esistenti che governano le sette e i loro metodi di indottrinamento e di controllo psicologico degli individui. Questi metodi sono noti per contravvenire alle leggi di molti paesi; inoltre, è evidente che impediscono l’emergere e lo sviluppo di coscienze umana libere ed uguali tra di loro.

Allo stesso modo, il nietzschianismo in tutte le sue forme, anche se filosemite, che dividono l’Umanità in “superuomini” (variamente eletti dalla religione, dal spiritualismo, dall’ideologia o dalla “genetica”) e uomini comuni, è un razzismo odioso e intollerabile. In Italia ricade nella proibizione di tutte le forme di fascismo secondo l’Articolo XII delle Disposizioni definitive e transitorie della Costituzione, nata dalla Resistenza.

Sono ugualmente razzisti i termini che derivano da quegli atteggiamenti che vengono utilizzati deliberatamente per discriminare o per « minorizzare » individui o gruppi semplicemente in virtù di una designazione maliziosa. Trattare qualcuno di “youpin” è mostruoso, meno per l’etimologia che per le connotazioni fasciste contemporanee del termine. Ma chiamare qualcuno “Beur”, proprio in un’epoca in cui si condanna in apparenza o sinceramente le derive « comunitariste », rivela infatti un razzismo ancora più odioso perché pretende darsi buona coscienza con la banalizzazione del termine, cercando pure di farlo adottare dalle “elite” (token Arabs?), per ora ancora minoritari in gruppi e in queste comunità che comunque appartengono a pieno titolo alle Repubbliche ed ai Stati interessati.

Cos’è l’antisemitismo? È, naturalmente, la discriminazione e la denigrazione di un individuo o di un gruppo di individui a causa di caratteristiche etniche o culturali di cui non sono personalmente responsabili, in questo caso l’appartenenza alla comunità ebraica. (Io davvero non vedo come evitare il termine “comunità” qui, per designare un gruppo con almeno alcune caratteristiche in comune (con buona pace di Bertrand Russell.) Capirà chi può …

(Aggiunto: Tuttavia, questa materia è probabilmente sbagliato soccombere alla forza delle abitudini di locuzione : gli Arabi sono semiti anche loro e molto più numerosi, in modo che, almeno di volere nuovamente espropriarli di una parte della loro identità, avremo bisogno in futuro di distinguere accuratamente tra l’antisionismo (o giudeo-fobia, o anti-ebraismo) e l’antisemitismo. Per parte mia, prendendo le mie distanze dall’ambiguità creata coscientemente dai sicofanti di Nietzsche che ho già demolito nel mio « Nietzsche as an awakened nightmare » – vedi Download Now, sezione Livres-Books di www.la-commune-paraclet.com ), mi rendo conto che, in quanto marxista rispettoso degli insegnamenti della « Questione ebraica », dovrei denunciare con maggiore precisione il filo-sionismo nietzschiano e non il filo-semitismo nietzschiano.

Dal punto di vista culturale, inoltre, non si può più soccombere ideologicamente al razzismo prodotto da una narrazione chiamata “giudaico-cristiana” senza menzionare l’anteriorità dell’Epopea di Gilgamesh sugli altri “libri”, come pure quella dello sfondo mitologico e storico greco-romano, etc. Si comprenderà che, dopo lo scontro di civiltà (Huntington) che portò al “Desert Storm” e poi alle guerre preventive judeo-crociate (contro potenzialmente più di 60 stati islamici, e più in generale, contro ogni rivale militare ed economico del nuovo Impero putativo crociato …) questa precisione linguistica non sia vana: si impone. Il numero di ebrei in Europa è statisticamente indifferente nonostante la grottesca sovra-rappresentazione, tanto anti-repubblicana quanto anticostituzionale; il loro numero nel seno della “moltitudine” (!) semite è ancora più trascurabile e, a dire il vero, ancora meno sicuro in Medio Oriente attuale rispetto ai vecchi regni crociati …)

Da un lato, c’è una ricerca obiettiva e disinteressata; d’altra parte, una mistificazione cieca ma presumibilmente sveglia » ; d’altra parte, ancora, ci sono buone intenzioni poco fondate scientificamente e logicamente; dall’altra parte, c’è l’indignazione che è cattiva consigliera; da un’altra parte, infine, le vecchie abitudini pre-marxiste delle « diremptions » hegeliane, piacevoli ma propense a camminare sulla testa, in somma tutte le “complessità” degne di un “inventario”, à la Prevert! La pretesa rabbinica di dividere la società ebraica e israeliana in “tribù” variamente elette davanti la faccia di “dio”, quando viene trasposta sul piano politico, diventa un picco di razzismo settario. Deve essere denunciata come tale. Analogamente, questa affermazione nella elezione, che dà falsa aria di “meritocrazia” usando ogni artificio (ideologico, “Shoah”, ecc) per conservare una rappresentazione soprannumeraria nei circoli del potere, è un razzismo odioso e settario che la legge dei grandi numeri avrebbe smentito rapidamente se gli si lasciasse la possibilità democratica e repubblicana, di esprimersi senza ostacoli artificiali.

La credenza in un post-umanesimo esclusivista, trasposto nell’ideologia o nell’azione politica (eugenetica, genetica, comunitaria), è davvero un razzismo insidioso e mortale per la democrazia.

Avallare “legalmente” o in modo attivo qualsiasi forma di razzismo costituisce un razzismo, in modo che l’Europa è ora confrontata alla necessità urgente di rimpatriare tutti gli atti di stato civile dei suoi popoli. Ha inconsciamente scelto di trasferire tutti questi dati personali essenziali nel Colorado negli Stati Uniti, un paese che afferma la sua intenzione di brevettare la vita, un paese in cui troppe persone, tra cui molti genetisti sionisti di ogni provenienza difendono apertamente idee proto-eugenetiche di “post-umanità” con la speranza di strumentalizzare un presunto “ritorno” a presunte “radici” – ad esempio, quelle dei “sacerdoti” del tempio. Non farlo costituisce una gravissima violazione dei diritti degli Europei come una comunità umana; ciò costituisce un potenziale esproprio di ciascuno di loro come individui geneticamente unici, e come cittadini esclusivamente sovrani e maestri del loro corpo e della loro coscienza.

I sionisti di destra così come gli elementi sociali e politici più reazionari sono, quindi, i peggiori propagatori del razzismo antisemita e anti-giudaico. La “paura dell’Altro”, denunciata da Sartre, non giustifica l’uccisione del prossimo (vedi, ad esempio, gli eroi di Camus) o il tentativo di imporre un vero “etnocidio” per creare a ritroso, un “anteriorità” religiosa e legale (diritto di proprietà sul terreno) che esiste solo nelle favole o nei racconti capaci di fare iniziare la Storia con una serie di genocidi compiuti, come viene proclamato senza pensare, con l’aiuto attivo di dio, per conquistare una qualsiasi “terra promessa”. Questa idea di anteriorità, costitutiva dell’esclusivismo, è essa stessa un razzismo in azione non appena lascia il dominio strettamente privato. È anche in flagrante violazione del diritto internazionale, della Carta universale dei diritti umani e del principio della sicurezza collettiva, regionale e globale.

Si noti che in termini di razzismo e di antisemitismo la gravità della colpa dipende dal livello di educazione. Non che sia mai accettabile. Tuttavia, le persone comuni dipendono spesso loro malgrado dai pregiudizi delle cosiddette élite e dei loro bassi cleri accademici e mediatici, che spesso si danno in pubblico per “svegli”. Un Arabo ordinario che giura contro gli ebrei ma che, allo stesso tempo, desidera ardentemente la pace, attraverso lo scambio di terra contro la pace, e la sicurezza sulla base dei confini precedenti al giugno 1967, è di gran lunga meno razzista e riprovevole di Alain Finkielkraut; almeno quando quest’ultimo, dall’alto di una posizione che evidentemente non merita, argomenta, con tutta la serietà che gli conosciamo, in favore di una “separazione”, mentre non può ignorare il fatto che questa idea di “separazione” non riesce a mascherare una serie di crimini di guerra. (Questo concetto di “separazione” rimarrebbe un orrore puro è semplice, anche se realizzato al di sotto della “linea verde” che segna il confine esistente prima del giugno 1967) Poiché questa “separazione” si realizza con la costruzione di un Muro dell’Apartheid che crea veri e propri bantustan mentre si espropria la maggior parte del 22% della Palestina che rimaneva ancora nelle mani dei Palestinesi prima di giugno 1967. Naturalmente, questa è una dichiarazione di guerra aperta ed unilaterale, un grave attacco alla pace regionale e mondiale, così come ‘alla cooperazione e all’amicizia tra i popoli. Naturalmente, non è l’unico e nemmeno il più originale: la sua ispirazione sionista di destra si indovina facilmente dietro la sua posizione pubblica, così come quella di molti imbrattacarte ciechi, pericolosi e iper-mediatizzati del suo genere.

Paul De Marco, Professore di Relazioni Internazionali (Economia Politica Internazionale)

Copyright © La Commune, 14 gennaio 2004. Traduzione in italiano, marzo 2019

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